Ultimi giorni dell’anno e, come sempre accade, impazzano bilanci di ogni genere: da quelli personali a quelli economico-politici, il passaggio dal trentuno dicembre al primo gennaio è sempre preso come occasione per tirare le somme dei dodici mesi appena trascorsi. Purtroppo, però, alcune di queste valutazioni “finali” non godono della attenzione che invece meriterebbero.
Tra i “bilanci dimenticati” potremmo inserire ad esempio il numero di morti sul lavoro (700 dal primo gennaio, quasi due ogni giorno): un dramma che si rinnova quotidianamente, un’emergenza vera e propria che tuttavia continuiamo ad ignorare in favore di altre emergenze, magari create ad arte (per dirne una: i migranti). Un altro dei bilanci che probabilmente è più scomodo fare (cosa che ci porta, spesso, a rinunciarvi) riguarda le condizioni di vita e, purtroppo in molti casi, di morte, all’interno delle nostre carceri.
Iniziamo dai numeri; per quanto fredde ed incapaci di raccontare le singole persone che, sommate una ad una, le compongono, le cifre sono il primo indicatore che può darci la misura della situazione. E i numeri ci dicono che il 2018 è stato un anno pessimo per quanto riguarda i suicidi in carcere: sono infatti 65 i detenuti che negli ultimi dodici mesi hanno deciso di togliersi la vita in cella, il dato peggiore dal 2011 ad oggi (quando i casi furono 66). La questione dei suicidi nei penitenziari, tra l’altro, va ben oltre il pur serio discorso riguardante le condizioni delle strutture stesse (sovraffollamento, condizioni igieniche a dir poco precarie etc).
Questo perché per spingere una persona a suicidarsi, probabilmente è necessaria l’azione di una serie di fattori e di elementi – alcuni dei quali profondamente intimi – che vanno al di là delle difficili condizioni quotidiane tipiche degli istituti italiani. Lo racconta bene Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone, in un articolo sul suo blog per ilfattoquotidiano.it.
C’è ad esempio il caso di un quarantasettenne finito in manette a settembre. L’accusa nei suoi confronti era di rapina impropria: aveva rubato delle merendine in un supermercato ed era recidivo per piccoli furti di questo genere. Pensare che nel paese della grande malavita organizzate, della corruzione dilagante e degli intrighi più oscuri che si possano immaginare, a finire in galera debba essere qualcuno che ruba merendine... fa venire i brividi.
Un caso come questo ci racconta infatti tante delle contraddizioni del nostro paese: l’assenza quasi totale di pene alternative alla detenzione; la assoluta mancanza di supporti di carattere psicologico per i detenuti, privati di qualsiasi forma di umanità; la rinuncia, ormai acclarata e definitiva, alla “funzione riabilitativa” della pena carceraria; la tendenza, sempre più forte, a perseguire piccoli reati mentre la vera criminalità (che sia quella con la coppola o quella con la cravatta) tende sempre di più a farla franca.
Purtroppo, il caso che abbiamo citato non è una rarità. Anzi. Le nostre carceri sono piene, sempre di più, di persone costrette alla detenzione per piccoli reati, per episodi di microcriminalità; ad affollare le nostre celle sono, sempre di più, gli ultimi, i poveri, gli emarginati, gli stranieri. Se ce ne fosse bisogno, insomma, l’ennesima prova dell’utilizzo classista del sistema carcerario.
E d’altra parte con una popolazione carceraria in costante aumento (siamo ormai oltre le 60mila unità), è difficile immaginare un cambio di tendenza, una maggiore attenzione nei confronti dei detenuti, un sistema capace di intercettare la disperazione che spesso attanaglia chi viene rinchiuso.
In questo senso, l’associazione Antigone ha inviato ai componenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato una proposta di legge che, attraverso misure come il potenziamento dei contatti con amici e familiari (anche in forma privata) e la drastica limitazione del ricorso all’isolamento, mira a ridurre i casi di suicidi in carcere. Accogliere e rendere operativa questa proposta sarebbe un primo, piccolo passo.
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