Si sfoglia il carciofo della manovra un po’ alla volta, dato il vincolo al segreto rispettato da tutti i ministri interessati, e la sproporzione abnorme tra promesse elettorali e misure riscritte dalla Commissione Europea rivela il frutto come immangiabile.
La Camera si appresta ad approvare con voto di fiducia un testo che il Senato ha approvato senza neanche il tempo di leggerlo (centinaia di pagine e tabelle consegnate contestualmente all’inizio di un “dibattito” fissato in sei ore), e che sarà emendato a insindacabile decisione del governo per correggere alcune clamorose bastardate che hanno fatto incazzare persino i tranquillissimi cattolici della carità cristiana (come il raddoppio dell’Ires per le associazioni di volontariato).
Ma i due nodi-bandiera su cui si basa la popolarità del governo giallo-verde sono soprattutto le pensioni e il reddito di cittadinanza. E su questo bisogna essere molto precisi perché qui si giocherà nei prossimi mesi la battaglia politica dentro il nostro blocco sociale. E sarà una battaglia che ci contrapporrà, sui territori, direttamente ai terminali locali di Lega e Cinque Stelle, visto che la cosiddetta “opposizione” (Pd e Cgil, fondamentalmente) si muove sposando in pieno le critiche di Bruxelles (che monitorerà comunque ogni passaggio applicativo della manovra) e insistendo soprattutto sulla ridotta indicizzazione degli assegni pensionistici al di sopra dei 1.500 euro. Un’infamia, certamente, ma che riguarda solo una fetta, per quanto consistente, della platea interessata al tema.
Il decreto di attuazione relativo all’introduzione della cosiddetta “quota 100” dovrebbe vedere la luce per metà gennaio. I condizionali sono d’obbligo per tutti coloro che hanno provato ad analizzare i dettagli del provvedimento, perché cambiano di ora in ora nel tentativo di far quadrare numero degli aventi diritto, entità delle penalizzazioni e saldi finali da registrare tra le maggiori spese.
La prima considerazione da fare è che l’impianto delle legge Fornero resta totalmente in piedi. Tutto quello che si va discutendo è la dimensione e le griglie selettive in cui far passare, per soli tre anni, un po’ di lavoratori anziani di cui le imprese – soprattutto del Nord, ovviamente – si vogliono disfare, per assumere due o tre giovani schiavi (contratti precari, niente diritti e salari ridottissimi) al costo di un lavoratore in uscita.
Per tutti la “quota 100” è parecchio fasulla. Si potrà infatti andare in pensione prima dei 67 anni solo se si hanno 38 anni di contributi riconosciuti (all’Inps ci sono ogni giorno file sterminate di lavoratori che cercano di farsi ritrovare contributi “scomparsi” o non pagati dalle imprese, anche per più anni). Di fatto, dunque, ci sarà “quota 101” per chi ha già 63 anni, “quota 102” per chi ne ha 64, “quota 103” per i 65enni, “quota 104” per i 66enni. Per tutti gli altri (basta una settimana di contributi in meno dei 38 anni) restano i 67 anni previsti dalla “Fornero” per la pensione di vecchiaia.
Stabilito questo, ci si inoltra nella giungla degli “sbarramenti” e delle “finestre”.
I dipendenti dello Stato riceveranno il Tfs (la “liquidazione”, che nel privato è chiamata Tfr) soltanto tre anni dopo il collocamento in pensione; e comunque non prima dei 65 anni di età. L’erogazione avverrà in tre “rate”, quindi l’ultima verrà percepita cinque anni dopo aver lasciato il lavoro. Si tratta di un peggioramento sostanziale del trattamento attuale (ideato dalla Fornero, appunto) che prevede l’erogazione del Tfs due anni dopo il collocamento in pensione e due sole rate.
Ai profani sembrerà un bizantinismo, ma c’è una ragione contabile precisa per queste piccole angherie. Erogare il Tfs in sempre maggior ritardo, infatti, consente di spalmare la spesa su un arco maggiore di anni e quindi di farla pesare meno sulle uscite annuali; in secondo luogo, è statisticamente certo che con l’avanzare dell’età si tende a morire, quindi ritardare il pagamento serve anche a diminuire di un altro po’ – per avvenuto decesso, in caso di assenza di eredi diretti – le somme totali da pagare.
L’uscita dal lavoro prima dei 67 anni comporterà comunque una forte penalizzazione sull’ammontare dell’assegno pensionistico; tanto più pesante quanto minore è l’età del ritiro. Molti analisti si sono sbizzarriti in calcoli, e in alcuni casi ci potrebbe essere una taglio anche del 30%. Questo dovrebbe scoraggiare tutti coloro che non hanno o non possono trovare un reddito integrativo (visto anche il reintrodotto divieto di cumulo tra pensione e collaborazioni “in chiaro”), restringendo di fatto la platea dei beneficiari a chi sta abbastanza bene da fregarsene della penalizzazione oppure a chi fa un lavoro talmente massacrante da rendere impossibile andare avanti fino ai 67 anni.
Sempre per gli statali, la prima “finestra d’uscita” dovrebbe aprirsi ad ottobre, in pratica il prossimo anno; e si comprende bene perché la promessa “regolarizzazione dei precari” attivi nella pubblica amministrazione sia intanto slittata a... novembre.
Per i lavoratori del settore privato, invece, il primo varco si dovrebbe aprire in aprile.
In totale, anche le stime più ottimistiche valutano che non saranno più di 300.000 i lavoratori che potranno uscire un po’ prima dal lavoro nell’arco di questi tre anni. Poi c’è Fornero per tutti (alla faccia della “cancellazione” promessa da entrambi i vicepremier).
L’altra misura-simbolo, il reddito di cittadinanza, resta avvolto nella nebbia più fitta. Ogni indiscrezione va presa con le molle, ma tutte confermano per ora un indurimento dell’impianto teso al workfare. Ossia una misura che deve spingere al lavoro e ad accettare qualsiasi impiego venga offerto (al terzo rifiuto, stop reddito). Perciò ogni “beneficiario” dovrà sottoscrivere un doppio impegno: a frequentare i corsi di formazione che gli saranno consigliati e ad accettare ogni lavoro che gli verrà offerto (e ovviamente qualsiasi salario).
Anche sulle cifre degli assegni e i “paletti” che impediscono di usufruirne l'opera è ancora in corso. Basterà avere 5.000 euro sul conto corrente per essere esclusi, la proprietà della casa di abitazione comporterà un taglio sostanzioso, con complicati calcoli per quanto riguarda eventuali “contributi all’affitto” o al mutuo.
Di nuovo c’è che al governo hanno scoperto tardi che i centri per l’impiego esistenti hanno poco personale e strutturalmente non sono predisposti per applicare le norme ancora “allo studio”. Quindi faranno entrare in campo le imprese, che di fatto – secondo il Corriere, per esempio – riceveranno in dono il “reddito di cittadinanza” da riconsegnare, sotto forma di salario, ai neo-assunti. Un salario basso, e oltretutto pagato dallo Stato: cosa vuoi più dalla vita, imprenditore mio?
In ogni caso il periodo di erogazione del finto “reddito” verrà limitato a 18 mesi. Se non hai trovato un lavoro entro questo periodo, ti puoi pure suicidare: non avrai un euro.
La constatazione diventa decisiva se ci ricordiamo che già nel terzo trimestre l’economia italiana ed europea hanno fortemente rallentato, al punto che quasi tutti prevedono una nuova recessione alle porte, dalla gravità al momento sconosciuta (dipenderà dall’evoluzione della “guerra dei dazi”, da tensioni finanziarie o commerciali che già agitano i mercati, ecc). Insomma: in una recessione normalmente diminuiscono i posti di lavoro complessivamente attivi, dunque ci sarà un aumento dei disoccupati invece che degli occupati. Trovare un lavoro, quindi, sarà più difficile.
Altra cosa sarebbe se lo Stato investisse le stesse cifre nella creazione di attività (redditizie o semplicemente necessarie, come la manutenzione del territorio). Ma questo “non si può fare”, perché “la Ue non lo permette”.
Poi vengono fuori i dolori veri.
Dall’esame dei codicilli emerge un taglio di quasi 6 miliardi alle spese per l’Istruzione entro il 2021. Già oggi, lamentava persino Ferruccio De Bortoli, l’Italia spende per l’istruzione meno di quanto spende per pagare gli interessi sul debito. Ma in fondo, quando mai l’istruzione è stata una risorsa per un paese senza troppe risorse? (E’ ironico, sia chiaro...)
Saranno inoltre bloccati 2 miliardi di spesa per trasporti, università, servizi pubblici, come fondo di garanzia per la UE. In pratica, se il quadro economico dovesse peggiorare – ed è certo, come abbiamo visto poco fa – il governo si è impegnato con la Ue a procedere a tagli “automatici” in questi settori-chiave.
Per il 2019 è stata congelato – è vero – l’aumento delle aliquote Iva, messo lì come “clausole di salvaguardia” fin dal governo di Enrico Letta. Ma non avendo saputo trovare le risorse per impedirlo, il governo gialloverde si è limitato a rinviarlo al 2020. Naturalmente con un sostanzioso aumento perché, per impedire che scatti, la legge di bilancio del prossimo anno dovrà tagliare da 20 a 30 miliardi di spesa pubblica. Altrimenti l’Iva ordinaria (seguita da tutte le altre aliquote) schizzerà al 26,5%. Una vera catastrofe per i redditi medi e bassi, perché – come tutte le tasse “indirette” – si scarica immediatamente sui consumi, rendendo più alto il prezzo di ogni merce (meno il lavoro umano, guarda un po’).
Che andrà così, è praticamente certo, perché – dopo aver rapidamente dismesso gli abiti dei “ribelli contro Bruxelles” – i partiti della maggioranza di governo si sono impegnati a far controllare alla UE l’andamento di conti pubblici ed economia già a partire da febbraio... E a correggere ogni sbavatura nei modi che gli verranno indicati.
E meno male che erano “sovranisti” e “populisti”...
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