Il golpe contro Allende è notoriamente una delle mitologie degli anni
Settanta, vicenda entro cui trovano spazio tutte le narrazioni
edificanti della sinistra popolare dell’epoca. Dopo essersi allontanato
dalle dispute politiche – ritagliandosi e poi rifiutando il ruolo di
grillo parlante dell’incontro tra Dc e Magistratura (i girotondi,
Micromega, in seguito il Pd) – Moretti decide di tornare a parlare di
politica senza rischiare nulla. Riparte dunque dal golpe cileno, sicuro
dell’unanimità di vedute che avvolge l’evento. Per essere sicuro di
essere ecumenicamente accettato e osannato nei circoli intellettuali più
navigati, decide di parlare del Cile senza mai parlare degli Usa, senza
intervistare i politici cileni più compromessi, senza indagare il ruolo
della Chiesa o della borghesia stracciona e dipendente. Una merda
insomma? Non proprio. Perché l’asciutto resoconto delle testimonianze
dei sopravvissuti, delle vittime del golpe, e della solidarietà che
questi ricevettero dal mondo e in particolare dall’Italia, hanno oggi –
oggi, alle soglie del 2019 – ancora la forza di colpire al cuore tanto
il militante politico “abituato” al racconto della dura storia di
classe, quanto il sincero democratico lontano dalla bagarre degli eventi
ma ancora “umano”.
Fino a qualche anno fa
un’operazione di questo tipo sarebbe stata molto più compromettente. Il
silenzio sulle responsabilità, certo, ma anche la struttura di un
racconto che si regge sulle emozioni dei rifugiati, degli espatriati. E’
il racconto della fuga, la legittimazione di chi venne travolto dagli
eventi. Gente ammirevole, vittime – vere – dell’imperialismo. E chi
rimase a combattere i militari? La resistenza armata del Mir? I
rivoluzionari morti combattendo? Questioni da tempo espulse
dall’interesse generale, figuriamoci dunque se possono interessare
Moretti, vecchia volpe del compromesso intellettuale. Ma per ricostruire
quelle storie, ritrovare grammatiche più ardite, linguaggi più prossimi
alla verità, servirà del tempo. Inutile pretendere quello che non può
più essere, almeno momentaneamente, almeno al livello mainstream.
Molto più facile mettere nel calderone “migrante” tanto chi lottava per
il comunismo – e per questo ha trovato la morte, il carcere o l’esilio –
quanto i dannati della terra che attraversano il Mediterraneo.
Proponendo, tra le righe, sottaciuti (e compiaciuti) paralleli a-storici
(Pinochet come Salvini?).
Ma il documentario conserva una sua forza ineluttabile, che nessuna
pacificazione storica e ideologica riuscirà mai a cancellare del tutto.
La forza del semplice racconto delle vittime, di chi veniva torturato,
di chi si trovò ad abbandonare, dalla notte al giorno, tutta la sua
vita, i suoi affetti, le sue cose, per rifugiarsi in qualche ambasciata
straniera, partendo poi per paesi lontani. Questo e non altro sono le
politiche imperialiste, anche se dirlo oggi risulta inevitabilmente
melenso, ideologicamente ottuso, sottilmente populista, e così sia. Il
Cile ancora oggi ha molto da insegnarci. Senza difesa non c’è
rivoluzione, e non c’è difesa senza repressione. Allende pagò sulla sua
pelle questa mancata scelta di campo. Piace proprio per questo, Allende.
Perché venne sconfitto. Perché non ebbe il tempo, o non volle
accorgersi, che il potere popolare va difeso con ogni mezzo necessario.
Che la difesa del potere è una gran brutta cosa, che costa compromessi e
scelte etiche senza risposta se pensate fuori dalla
rivoluzione. Allende insegna che non bisogna fare come Allende. Questo
limite è il motivo per cui uno come Moretti oggi può parlare liberamente
di Allende, riuscendo a superare – momentaneamente – i limiti evidenti
di una narrazione sostanzialmente opportunista. Moretti è stato un
regista importante, il suo problema non è di certo organizzare una messa
in scena convincente. E’ una vecchia volpe e sa come trascinare a sé lo
spettatore. E nonostante ciò, la forza dei volti e dei corpi è ancora
giustamente emozionante. Il problema non è lasciarsi convincere
dall’emozione, ma di non saper più pensare le sue necessarie
conseguenze.
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