di Pierfranco Pellizzetti
Considero
Chantal Mouffe una delle poche voci realmente interessanti (e oneste)
del dibattito pubblico contemporaneo. Come avrò modo di darne
dimostrazione tra due mesi, pubblicando per l’editore Ombre Corte un
saggio – “Il conflitto populista” – che potrebbe suonare a controcanto
di quello mouffiano, pubblicato da Laterza e qui recensito da Giacomo Russo Spena.
In particolare trovo particolarmente fertile, per questi tempi carichi
di incertezze e tendenti all’immobilità, l’idea energetica di
“invenzione del popolo”, ossia la necessità di vaste aggregazioni
sociali (i “blocchi storici” del vecchio Antonio Gramsci, di chiara
ispirazione salveminiana) a sostegno di una netta ripresa democratica;
resesi necessarie nel passaggio post-industriale che – in qualche misura
– declassa il lavoro come soggetto politico costituente, disarmandone
il ruolo storico di “classe generale” emancipatoria. Di conseguenza
condivido il retro-pensiero della politologa belga che solo la ripresa
del conflitto sociale (io aggiungo: mirato ai luoghi in cui la politica
si scioglie nell’establishment, laddove si incontrano per colludere il
possessore del denaro con il titolare del potere di governo) potrà
rompere il maleficio del tempo immobile a cui la finanziarizzazione del
Capitalismo ci ha inchiodati. Ossia la riflessione sulle mobilitazioni
da promuovere per cancellare il “post” nella voce “postdemocrazia” alla
Colin Crouch (le elezioni ridotte a una gara di marchi intercambiabili),
individuando il punto archimedico su cui fare leva per sbloccare il
vigente regime oligarchico-plutocratico.
Quanto invece non
condivido è la condiscendenza verso le trappole linguistiche di cui è
disseminato il cammino per la riappropriazione delle condizioni di una
democrazia rettamente intesa. A partire dell’accreditamento di
una inaccettabile divaricazione del Populismo in destra e sinistra. Una
confusione terminologica/tassonomica che produce devastanti
mistificazioni, visto che Donald Trump, Viktor Orban, Vladimir Putin,
Marie Le Pen, Santiago Abascal di Vox, Matteo Salvini (e io ci metto
pure Beppe Grillo) sul coté strong, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi,
Boris Johnson e altri furbetti del partitino su quello light, non hanno
il benché minimo punto in comune con Pablo Iglesias, Ada Colau o il
portoghese Antonio Costa. Come pure altra cosa sono i personaggi vintage
“rosso antico”, cioè attardati in melanconiche nostalgie socialiste del
buon tempo che fu (l’età industrialista), tipo Jeremy Corbin, Bernie
Sanders, Jean-Luc Mélenchon (o magari il Masaniello pre-industriale
Luigi De Magistris); alcuni molto apprezzabili, altri insopportabilmente
tromboni.
Una confusione concettuale-comunicativa che va solo a
vantaggio di chi ha tutto l’interesse a intorbidare le acque. Che
impone ben maggiore rigorosità nel distinguere. Visto che il richiamo a
una sacralità del popolo, alla sua natura sorgiva e taumaturgica, è un
esercizio retorico a cui assistiamo da tempo immemorabile. E di cui il
Potere ha fatto sistematico scialo. La turlupinatura della gente per
tenerla a bada è opera di una lunga e vasta galleria di amis du peuple, a cominciare dal manzoniano Antonio Ferrer (quello del “adelante Pedro con juicio”) che rabboniva la plebe affamata con promesse mendaci.
Scialo assurto a pratica politica teorizzata (seppure mai dichiarata)
al tempo della prima rivoluzione settecentesca – quella americana – in
cui i Padri Fondatori, una élite di proprietari terrieri, insieme alla
democrazia rappresentativa escogitarono i suoi antidoti; a vantaggio del
controllo sociale dei potenti sottotraccia: dall’indurre guerre tra
poveri alla creazione di nemici esterni, le prime neo-lingue della
libertà a giustificazione di schiavitù e disuguaglianza. Insomma, lo
sfruttamento da parte delle classi superiori, realizzato abbinando
paternalismo e comando, dell’energia popolare (delle classi inferiori)
per perseguire i propri scopi.
Questi signori – da Ferrer a Trump – sono “populisti” o non piuttosto rudi tempre di
“demagoghi”? Lo chiedo con una certa insistenza perché la fase storica
che attraversiamo – il collasso dell’ordine instaurato da una quarantina
d’anni sullo sbaraccamento del Welfare State e la denuncia del
compromesso keynesiano-fordista – impone massimo rigore analitico; per
l’elaborazione strategica di uscita dalla stagnazione, accompagnata dal
caos sistemico che si sta appalesando con sempre maggiore evidenza. In
un terreno di scontro le cui poste in gioco sono – innanzi tutto –
rappresentate dalla determinazione della dimensione temporale in cui
collocare l’umana convivenza: la scelta tra l’eterno presente della
conservazione tecno-finanziaria e i suoi privilegi; il passato
incanaglito di un riflusso reazionario e le sue miserevoli blindature
per impauriti/risentiti; il futuro di una rifondazione democratica che
accredita le promesse di inclusione civile e il suo carico di speranza. E
qui arriviamo alle ragioni populiste, in conflitto con l’esproprio di
democrazia dei guardiani del privilegio (il Separatismo postdemocratico
delle élites aventiniane) e – al tempo stesso – con i liquidatori di
civiltà alla rincorsa di un passato nazionalista cestinato dalla Storia
(le “piccole patrie” che non governano niente del Sovranismo) e/o di una
truce mitologia xenofobo/razzista (il Suprematismo).
Per
giungere all’effettiva comprensione di una tale partita, e collocarvi il
soggetto che chiamiamo “populista”, va accantonato ogni riferimento
terminologico a fenomeni del tutto tramontati: i populisti slavi
dell’Ottocento, che vagheggiavano un ritorno alla Santa Madre Russia
abbeverandosi allo spirito incontaminato delle masse contadine, o la
filmografia newdealistica del regista americano Frank Capra degli anni
Quaranta del secolo scorso (tipo Mister Smith va a Washington);
oppure le rivoluzioni romantiche latino-americane alla Simon Bolivar.
Quello che oggi appare come “fenomeno populista” – almeno nelle società
avanzate dell’Occidente – ha una data fondativa precisa: il 2011
(qualcuno specifica “movimento 15 M”, dal giorno di maggio di quell’anno
in cui gli indignados si accamparono nella madrilena Puerta
del Sol, anticipando i contestatori newyorchesi che posero le loro tende
nel Zuccotti Park). In altre parole, l’anno fatidico in cui la parte
centrale della società si rese conto di quello che Christopher Lasch
tempo addietro aveva definito “la ribellione delle élites”. Davanti
all’esplosione delle bolle immobiliari e del fallimento altamente
simbolico di Lehman Brothers. Ossia la scoperta della saldatura avvenuta
tra ceto politico (rinominato “Casta”) e le aristocrazie del denaro per
trarre vantaggio dalla ciclopica opera di sequestro di ricchezze
realizzata vendendo all’incanto i gioielli di famiglia dello
Stato e i beni comuni, apprestando meccanismi di appropriazione dei
profitti sociali. L’operazione definita con benevola ipocrisia
“keynesianesimo privatizzato”: come ho già avuto modo di scrivere anche
in questa sede, se nella veneranda ricetta classica si esce dalla crisi
economica attraverso l’investimento, e questo fa capo allo Stato, nella
sua versione “privatistica” l’investimento anti-ciclico permane ma viene
imputato all’area mediana della società, sotto forma di precarizzazione
del lavoro e impoverimento delle famiglie. La crescente disuguaglianza.
In quella primavera di sette anni fa il New York Times
annunciò «il ritorno sulla scena della seconda superpotenza mondiale».
Si riferiva alla mobilitazione della società civile su scala planetaria,
con adunate in 950 città di ben ottanta Paesi. Da allora è stato un
correre al riparo da parte degli autonominati Masters of Univers
(i top manager di banche e borse) e dei loro proconsoli nelle istituzioni.
Difatti già la fine del 2011 coincise con il salvataggio degli istituti
bancari a spese dei contribuenti, con esborsi favolosi che – per lo più –
si tradussero in benefit per i vertici di tali istituti. Nel frattempo
partiva la demonizzazione della protesta indignata e il tentativo di
circoscrivere l’area di manovra per le organizzazioni di rappresentanza
che, soprattutto nell’Europa del Sud, provavano a tradurre
l’indignazione in proposta politica. Una lotta condotta su due livelli:
quello comunicativo, con una gamma di argomentazioni che vanno dal
classico “migliore dei mondi possibili” applicato all’esistente, fino
all’esecrabile “TINA” thatcheriano (l’acronimo che sta per there is no alternative,
non ci sono alternative); laddove necessario, intervenendo
sull’economia degli Stati irrispettosi delle compatibilità brandendo la
malfamata Troika e l’imposizione di austerity omicida.
A fronte
di questa azione concertata a livello generale il cosiddetto Populismo
non ha saputo dare vita a un’ipotetica Internazionale della “Democrazia
ad alta energia” (per usare la dizione di Roberto Mangabeira Unger) che
contrastasse «la dittatura della mancanza di alternative». Al massimo si
è creato qualche iniziale network di città impegnate nel reinventing urban democracy, teorizzato da Benjamin Barber e che ha visto un primo, timido, passo a Barcellona nel meeting tra il 9 e l’11 giugno dl 2017 (Fearless Cities). Né, tantomeno, hanno preso corpo esperienze organizzative in grado di fornire sponda politica alle cosiddette mareas ciudadanas;
insorgenze di protesta condannate all’entropia in assenza di
un’acquisita capacità “costituente”. Nel frattempo l’indignazione
rivelatasi politicamente inerte, favoriva con la sua sterilità lo
scivolamento di larghe masse colpite dalla crisi verso posizioni sempre
più protestatarie e distruttive.
Praterie per le operazioni di
acquisizione del consenso da parte di rigurgiti estremistici,
dall’integralismo cattolico più oscurantista fino al neo-nazismo
dichiarato e ostentato, di fatto sdoganati dalla liquidazione delle
regole e degli stessi principi liberaldemocratici da parte della
tecno-finanza; in quanto insofferente di qualsivoglia vincolo e
regolazione. Un combinato terribile, che s’imponeva in assenza di
adeguate denunce. Mentre l’intellighenzia liberal della stampa e della
cattedra rivelava per intero i propri limiti, oscillanti tra
l’opportunismo e la flebilità titubante, nel mancato contrasto dell’onda
nera, nella ricerca di cooptazione da parte dell’establishment. Perché,
in questi decenni tristi e indecenti, non c’è stata solo la Terza Via
arrembante dei politicanti blairiani, ma anche quella dell’imbarco
intellettuale nel tepore accogliente (e relative carriere universitarie
e/o editoriali) del mainstream.
In questo quadro la
proposta populista, che punta all’invenzione di una democrazia partecipata, a
misura del Terzo Millennio, e alla ripresa del cammino verso una
società inclusiva, nell’attualizzazione dei principi di Giustizia e Libertà come parole-chiave della nuova sintesi progressista che rinnova la veneranda triade Liberté-Egalité-Fraternité,
rischia di essere il bandolo giusto ma che non trova l’auspicato popolo
che si faccia avanti per afferrarlo; per dipanare la matassa di questi
tempi aggrovigliati e soffocanti, individuando un’uscita di sicurezza
verso il futuro di una ritrovata convivenza civile. Per ridare ancora
una volta alla parola “Sinistra” il senso e le ragioni valoriali che
ispirarono donne e uomini dell’Ottocento e del Novecento nella loro
lotta per i diritti, la responsabilità e la dignità. Oggi lo chiamo “il
conflitto populista”. Anche se per oggi (e ancora una volta) trattasi di
fantasma che si aggira per l’Europa. E l’Occidente.
Fonte
Non condivido tutto anzi, ma sulla considerazione di fondo, ovvero che la sovversione dello stato di cose presenti sia del tutto in mezzo al guado, concordo con l'autore.
Anzi, più che in mezzo al guado ci si trova in una condizione di fondamentale arretratezza, a partire appunto dalle parole e più in generale dalla teorizzazione del nuovo basato sull'analisi dell'esistente con tutte le proprie contraddizioni.
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