Sta in questo passaggio una chiave di lettura estremamente interessante su quella che è stata (e che rimane) la partita in corso tra il governo gialloverde italiano e la Commissione Europea. Una partita che si è rivelata più politica che economica. A conferma che l’Unione Europea, diversamente da quanto lamentano gli europeisti di sinistra e di destra, la politica la fa eccome e non si occupa solo di economia. E la fa anche sulla base di valutazioni strettamente politiche, ragione per cui alla Francia di Macron, alle prese con una vasto conflitto sociale, viene consentito di sforare il deficit per farvi fronte, mentre lo si nega all’Italia di Conte, Salvini, Di Maio. Una analisi interessante, anche perché l’autore è Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza, giornale della borghesia finanziaria del Nord.
Qui di seguito il testo dell’articolo pubblicato su Milano Finanza del 22/12/2018.
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Si sta avviando a conclusione l’approvazione parlamentare della manovra di bilancio per il 2019, il cui iter è stato assai contrastato per via delle due lettere di censura con cui la Commissione Europea aveva preannunciato l’apertura di una procedura di infrazione anche per debito eccessivo. Avrebbe riaperto l’esame che era stato sospeso in precedenza in considerazione degli orientamenti correttivi espressi nel Quadro pluriennale a legislazione vigente definito dal governo Gentiloni nell’ambito del Def presentato ad aprile.
Il Quadro programmatico, definito a settembre nella Nota di aggiornamento da parte dell’attuale governo, aveva individuato un percorso assai divergente in termini di deficit, portato al 2,4% del pil, e soprattutto di deviazione rispetto alla correzione strutturale, con un peggioramento dello 0,8% del saldo.
L’impianto concordato con Bruxelles ha azzerato il peggioramento del saldo strutturale portando il deficit al 2%. La crescita del prossimo anno è stata ridotta all’1%. E’ stato concesso uno sforamento pari allo 0,2% del pil in applicazione della clausola di flessibilità per investimenti pubblici.
Il conflitto con Bruxelles è stato eminentemente politico, prima ancora che tecnico, in ordine alle due principali promesse elettorali del M5S e della Lega: istituire il reddito di cittadinanza ed abrogare la legge Fornero sulle pensioni sostituendola con la “quota 100”. Una proposta tacciata di assistenzialismo la prima, per via dei contorni mai esattamente definiti quanto a condizioni di accesso, importi e platea dei beneficiari. Una vera e propria controriforma, la seconda, che mette a repentaglio gli equilibri previdenziali di lungo periodo. Rimaneva invece in ombra l’impostazione decisamente keynesiana di un grande piano per le infrastrutture volto a compensare con queste spese di investimenti l’eccesso di risparmio derivante dal saldo corrente estero, pari al 3% del pil. In pratica, tutto il maggior deficit e la deviazione rispetto al saldo strutturale veniva assorbito da un aumento della spesa corrente.
Non vi è dubbio alcuno che la posta politica in gioco è alta, in Italia ed a Bruxelles, anche perché vede la polverizzazione dei due partiti che hanno dominato la Seconda Repubblica, entrambi oggi all’opposizione, e l’emergere di una inedita coalizione sovranista-populista decisamente euroscettica. I tentativi di abbattere subito il governo a colpi di spread non sono riusciti e la partita si è spostata sul piano della trattative istituzionale.
Dal punto di vista strategico, il governo doveva assolutamente evitare che l’Italia diventasse il detonatore di una crisi finanziaria: non siamo noi a dover fare da fusibile, visto che tra le banche tedesche con prospettive fallimentari, la Brexit e le guerre commerciali ci sono focolai assai più pericolosi di un miserrimo aumento del deficit pubblico italiano.
Nel gestire le trattative con Bruxelles, l’obiettivo del governo è stato quindi solo tattico: rastremare quantitativamente le due proposte politiche irrinunciabili, reddito di cittadinanza e riforma delle pensioni, al fine di evitare la procedura di infrazione che sarebbe diventata il cavallo di battaglia della campagna elettorale delle opposizioni fino alle elezioni europee di maggio. Il risultato è stato ottenuto, con buona pace anche dei mercati: lo spread si è placato. E’ una manovra per nulla rivoluzionaria, con il reddito di cittadinanza che si colloca tra l’estensione del reddito di inclusione voluto dal governo Gentiloni ed il prolungamento della Social Card di tremontiana memoria; le modifiche alla riforma delle pensioni si realizzano attraverso una temporanea riapertura dei termini per gli esodati, con la proroga dell’Ape social e dell’opzione donna.
Dal punto di vista politico ed economico, è una soluzione parziale e provvisoria. Si compra tempo in vista del rinnovo del Parlamento europeo a fine maggio e soprattutto di un peggioramento della congiuntura. Spetterà al prossimo Parlamento europeo ed alla prossima Commissione affrontare una revisione profonda degli assetti dell’Unione.
Non essendo stato possibile compiere in modo solitario una azione anticiclica consistente, perché il sistema europeo è inchiodato sul consolidamento dei conti pubblici come presupposto per lo sviluppo, anziché sullo sviluppo come condizione essenziale per la stabilità, si è badato al sodo, che in politica significa una sola cosa: mantenere il potere ed intanto svellere le posizioni degli avversari politici.
Le norme della manovra vanno lette una ad una, con cura: smantellano posizioni di vantaggio precostituito per legge da decenni. In altri casi, il taglio delle risorse serve solo a ripulire le campagne elettorali regionali, per evitare che si facciano accordi spartitori. Verranno reintegrate dopo, a giochi fatti.
Non potendo dedicarsi al nuovo da erigere, perché senza soldi non si canta Messa, ci si diletta a demolire per l’intanto i fortini della opposizione. La politica è anche questo.
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