Il tutto mentre un “governo del cambiamento”, che doveva fare una “manovra del popolo”, sfidare l’Unione Europea e rivoltare la Ue come un calzino, si appresta a varare una legge di stabilità riscritta fino all’ultimo rigo sotto la supervisione della Commissione Europea, che intanto preparava – ad ogni buon conto – la “procedura di infrazione” per debito eccessivo.
Due cose possiamo rivendicare d’aver detto e scritto molto prima che anche nei giornali mainstream se ne accorgessero. La prima, seria e strategica, addirittura a metà maggio, è che Salvini e Di Maio erano i due nuovi Tsipras, sebbene uno fasciorazzista e l’altro neo-doroteo. La seconda, scherzosa ma altrettanto vera, è che a forza di ridurre la platea dei beneficiari di “quota 100” per le pensioni e del reddito di cittadinanza, pur di rientrare nei limiti dettati dalla Ue, alla fine daranno la “quota” all’autista di Salvini e e il reddito a un vicino di casa di Di Maio...
Per i dati, e quel comportano in termini di insorgenza sociale e fratture tra establisment e popoli, ci soccorre – ormai spesso – un editoriale di Guido Salerno Aletta, pubblicato su Milano Finanza (non sull’organo dei soviet!).
Il quale spiega con grande sintesi, dunque con la massima efficacia, come l’ordoliberismo economico sottostante a tutti i meccanismi di regolazione Ue abbiano nel corso degli ultimi venti anni prima logorato e poi distrutto le leadership politiche dell’Europa intera (ricordiamo sempre che l’Europa è il continente in cui viviamo, la Ue una schifosa forma di governo di questo territorio; confonderle è un’infamia o un suicidio). Anche quelle dei due paesi-guida, Francia e Germania, che pure hanno fin qui tratto il massimo beneficio dall’ordine stabilito dai trattati. La Francia in termini di sforamento sistematico dei vincoli di deficit (e quindi relativa “esenzione” dalla “riforme strutturali” imposte a tutti gli altri membri), e la Germania in termini di ridisegno delle filiere produttive continentali, sottoposte ora in buona parte alla direzione di marcia tedesca (come testimoniano peraltro i sistematici surplus vantati da Berlino, sempre ben oltre i limiti dei parametri di Maastricht).
Una crisi politica dovuta, ormai chiaramente, all’impossibilità di variare le politiche economiche cambiando i governi. Quell’“alternanza” fittizia tra governi conservatori e “progressisti”, che aveva guidato l’Europa del dopoguerra, è finita sotto i colpi dei diktat di Bruxelles e dei “vincoli” scritti nei trattati.
Se la politica economica può esser solo una, che senso ha chiamare i popoli a votare per darsi un governo? Anche in questo caso, ci perdonerete l’autocitazione...
La “fine della politica” – intesa come sfera di attività che lega élite e settori sociali attraverso una serie di corpi intermedi che rappresentano bisogni sociali specifici, li traducono in progetti di legge e disegni di governo, mediandoli con altri interessi rappresentati da altri partiti (sindacati, associazioni, ecc.) – ha questo fondamento.
E qualsiasi “progetto politico di cambiamento” reale, che metta cioè in radicale discussione gli interessi dei gruppi economici dominanti (multinazionali e mercati finanziari, insomma), deve semplicemente prendere atto che la rottura di questo ordine – l’Unione Europea, non “l’Europa” – è la precondizione per iniziare a ragionare.
Se volete un paragone più conosciuto, è la stessa cosa che dicevano 50 o 40 anni fa i movimenti rivoluzionari che gridavano lo Stato borghese si abbatte e non si cambia. Rovesciare il potere politico ed economico di un determinato territorio (l’Italia, in quel caso) non significa affatto voler “disgregare” quel territorio, ma cambiare istituzioni e forma di governo per cambiare radicalmente le priorità sociali del governare. In forma di battuta, insomma, il Sessantotto o il Settantasette non chiedevano mica il ritorno al Granducato di Toscana o a Regno delle Due Sicilie...
E’ invece curiosa la deformazione mentale che è stata costruita, anche a sinistra, intorno alla voluta confusione tra Europa ed Unione Europea, al punto che ogni critica e contestazione alla seconda fosse automaticamente un ritorno allo Stato nazionale. Che, dovrebbe essere inutile sottolinearlo, fa schifo quanto quello “europeo”, né più né meno, perché inchiavardato a difesa di interessi padronali. Cambia solo la dimensione e l’articolazione di quegli interessi: multinazionali o più angustamente nazionali (nel caso della Lega o della Le Pen).
In ogni caso, dalla descrizione fatta anche da Salerno Aletta, quell’ordine è in crisi, quell’establishment ha perso credibilità e quindi consenso popolare. E questo apre uno scontro feroce, durissimo, per individuare al più presto le nuove forme – i nuovi equilibri – per la difesa degli stessi interessi. Qui le destre dei vari paesi portano un “contributo” di violenza e razzismo che non vengono affatto disdegnati dal potere “centrale” di Bruxelles o Francoforte; al massimo vengono indicati come “il peggio” che potrebbe capitarci se non li lasciamo fare come hanno fatto finora.
Macron, in Francia, sta agendo proprio in questo modo. Per un verso scatena la più brutale e scientifica repressione dei movimenti che stanno crescendo in tutto il paese, dall’altro intesta direttamente alla destra – ormai espulsa dai movimenti – la direzione possibile della Francia futura. Perché c’è la certezza che gli interessi padronali saranno comunque difesi da quella feccia lì, mentre il popolo e la “sinistra eurocritica” rappresentano gli interessi opposti.
C’è una destra liberista multinazionale e una destra liberista semi-nazionalista. Siamo noi – in Italia, soprattutto – a mancare all’appello, perlomeno nella determinazione, chiarezza e dimensioni necessarie. Le crisi di egemonia, una volta aperte, non durano all’infinito...
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In Europa, crisi dappertutto
In Europa, i focolai di tensione sociale e politica continuano a moltiplicarsi. Sono in crisi profonda le famiglie politiche tradizionali, Popolari, Gaullisti, Socialisti e Democratici, che hanno dominato la scena democratica dal dopoguerra. La loro alternanza al potere ha perso credibilità a causa della piena adesione che hanno accordato alle regole di austerità decise con il Fiscal Compact, alle conseguenti politiche di deflazione salariale, ai meccanismi di severa condizionalità cui sono subordinati gli aiuti erogati dall’Unione sotto la vigilanza della Troika, composta da Ue, Bce e Fmi.
Finora, però, le crescenti proteste popolari e le nuove maggioranze euroscettiche si sono schiantate sul Muro di Bruxelles: “Votare non serve: le regole non cambiano con i governi”. Lo spiegò così, brutalmente, nel 2015, il ministro tedesco delle Finanze Wolfang Shaeuble al neo eletto presidente ellenico Alexis Tsipras ed al suo ministro del Tesoro Janis Varoufakis, che pensavano di poter contrastare le misure di austerità accettate dal loro predecessore in cambio del salvataggio finanziario. Era stato già firmato l’Atto di Capitolazione, quello con cui la Grecia rinunciava a qualsiasi resistenza.
Il movimento Syriza fu il primo a vincere elezioni politiche europee sull’onda della protesta popolare: per convincere il governo greco a non chiedere più modifiche al piano di austerità, e con la scusa che le banche non avevano più liquidità per via dei continui ritiri, alla fine di giugno dello stesso 2015, la Troika ne decise la chiusura degli sportelli, bloccando contestualmente ogni transazione, comprese quelle sulle carte di credito: ai bancomat, il prelievo fu limitato a 60 euro. L’economia fu portata al collasso ed Atene piegò definitivamente le ginocchia.
L’Eurozona, per il pericolo dell’implosione della moneta unica, si è andata trasformando in un sistema accentrato, militarizzato, di comando e controllo. L’Unione europea coincide ormai con l’Eurozona, mentre tutto il resto è ancillare, inutile. Per questo motivo il Premier britannico David Cameron votò contro le proposte presentate nel Consiglio europeo del dicembre 2011: non gli interessava aderire al Fiscal Compact, soggiacere alla Banking Union e ancor meno partecipare al finanziamento dell’ESM. La Brexit nacque allora.
Il distacco britannico dall’Unione rappresenta ancora uno dei fattori più critici: nessuno sa come andrà a finire. Nonostante mesi e mesi di estenuanti trattative, l’Accordo di Recesso della Gran Bretagna non è stato ancora approvato da Westminster. La Premier Theresa May, dopo aver chiesto il rinvio a gennaio del voto parlamentare sull’Accordo, ha dovuto promettere che non guiderà i Conservatori nelle elezioni del 2021 ed ha pure subìto l’onta della mozione di sfiducia. E’ rimasta in sella, ma ha riportato un risultato pesantissimo, visto che un terzo dei suoi parlamentari le ha votato contro. Ora si deve recare nuovamente a Bruxelles, per pietire una dichiarazione aggiuntiva, legalmente vincolante, per evitare il limbo eterno a cui l’Inghilterra sembra essere stata condannata: non starà più dentro l’Unione, ma neppure completamente fuori, cumulando così gli svantaggi di entrambe le condizioni. La posizione europea è stata sempre la stessa: nessuno sconto, nessun cedimento. Chi abbandona l’Unione deve essere punito duramente.
La morsa del rigore ha cominciato a creare tensioni anche in Francia, che solo dal 2018 ha cominciato a seguire le regole del Fiscal Compact, dopo essere stata per ben nove anni sotto procedura di infrazione per deficit eccessivo. Le proteste popolari di quest’ultimo mese hanno assai indebolito la figura del Presidente Emmanuel Macron, che già prima dell’estate aveva subito un forte appannamento di immagine per via del comportamento di un collaboratore incaricato di compiti di sicurezza. Tutto, stavolta, è partito dall’aumento, di appena 5 centesimi al litro, dell’accisa sul carburante diesel: il malessere covava profondo, e questa è stata solo la scintilla.
Si è agglutinata una opposizione sociale molto ampia, che godrebbe di oltre l’80% di consensi: un livello elevatissimo, speculare alla caduta di quelli espressi sia nei confronti del Presidente Emmanuel Macron, di recente sceso al di sotto del 20%, sia verso il governo di Edouard Philippe.
Le forze politiche di opposizione hanno tenuto tutte un atteggiamento assai guardingo, sapendo che non solo nessun leader attuale avrebbe potuto guidare il movimento, ma che anzi sarebbero stati accusati di inerzia e di inefficacia. Si è arrivati al paradosso di avere un movimento ampiamente diffuso tra la popolazione, che sfida apertamente le scelte fiscali del governo, ed una opposizione politica afasica, sbriciolata in una miriade di formazioni, in cui i gaullisti ed i socialisti non rappresentano più l’architrave del sistema.
La reazione dell’esecutivo francese è stata contraddittoria: dopo l'iniziale fermezza, si è dapprima annunciata la sospensione per sei mesi di tutti gli aumenti, su carburanti, gas, elettricità e pedaggi autostradali; poi si è annullata la manovra per tutto il 2019. E’ stato invece il Presidente Macron, in un discorso alla Nazione, a fare un passo significativo in avanti, promettendo: un aumento di 100 euro dei salari minimi attraverso la loro defiscalizzazione per il medesimo importo, una misura che copia quella degli “80 euro in busta paga” decisi dal Premier Matteo Renzi nel 2014, e che gli valsero il 40,8% dei suffragi alle elezioni europee; la esenzione dal pagamento dei contributi sociale sulle pensioni fino a 2000 euro; l’esonero da tasse e contributi per i compensi relativi alle ore di lavoro straordinario, analogamente a quanto fu deciso dal nostro ministro del Lavoro Sacconi durante l’ultimo governo Berlusconi; la detassazione completa dei futuri premi di fine esercizio erogati dalle imprese ai dipendenti.
Il costo approssimativo, tra gli 8 e gli 11 miliardi di euro, finanziato in deficit, farà superare ampiamente, ancora una volta, il tetto del 3% sul pil. Il Commissario europeo Pierre Moscovici, già ministro delle Finanze a Parigi e che durante questo incarico aveva platealmente contestato la politica del rigore, ha immediatamente assentito alle proposte di Macron: lo sforamento è possibile, in quanto “limitato, temporaneo ed eccezionale”.
Non si adottano solo due pesi e due misure, visto la durezza che sta distinguendo l’atteggiamento della Commissione europea e di Moscovici nei confronti dell’Italia, ma ci sono dietro strategie politiche personali. Emmanuel Macron, infatti, sembra non avere più chance di proporsi come il paladino dell’europeismo alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo: era un astro nascente appena due anni fa, ma è già collassato.
In Germania, anche la stella di Angela Merkel si sta spegnendo, pur nello sfarfallio delle sue ultime ambizioni di diventare il prossimo Presidente della Commissione europea. Ha ceduto la mano: annunciando che non si candiderà al Cancellierato nel 2021 e pur riuscendo a far prevalere la fidata collaboratrice, Annegret Kramp-Karrenbauer, nella successione al suo ruolo di Presidente della Cdu. La Grande Coalizione tra Cdu-Csu ed Spd, arrivata alla sua terza edizione, ha determinato per loro il peggior risultato elettorale di sempre, con il consenso spostatosi a favore di Fpd, AfD e Verdi. Sono voti, questi, che non torneranno più indietro.
In Spagna, per contrastare il dilagante voto di protesta a destra, il Premier socialista Pedro Sanchez ha appena annunciato l’aumento salari minimi del 22%, facendo aumentare di altrettanto il costo del lavoro, e senza aver concordato la decisione con le rappresentanze imprenditoriali. Inoltre, saranno riviste molte norme sulla flessibilità del mercato del lavoro introdotte dal suo predecessore, il Popolare Mariano Rajoy.
Per quanto riguarda l’Italia, il contenimento al 2,04% del deficit nel 2019, che è stato proposto dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte rispetto al 2,4% iniziale, è stato giudicato in modo assai freddo dal Commissario Moscovici. L’Italia è sempre nel mirino: fallito l’affondamento del governo con l’impennata dello spread, dopo ben tre tentativi andati a vuoto, ora si batte il piano istituzionale.
All’interno della Unione si combatte una violenta guerra economica, non solo ideologica. Il punto di scontro con l’Italia non è quantitativo, sull’entità del deficit, ma politico: la marcia indietro sulla riforma Fornero ed il reddito di cittadinanza, quale che sia il numero dei beneficiari per entrambi le misure, contrasta con il processo voluto dalla Unione europea per ottenere maggiore competitività, attraverso la assoluta flessibilità del lavoro e l’abbattimento dei costi salariali. Qualsiasi garanzia pubblica, pensione o indennità di disoccupazione, è nefasta.
E’ una strategia inconcludente, perché sposta l’incentivo al profitto sul piano del logoramento del capitale umano, anziché sulla sua valorizzazione attraverso gli investimenti in innovazione, organizzazione ed infrastrutture. Il crollo degli investimenti pubblici lordi e di quelli privati che non siano sostitutivi di manodopera porta alla progressiva nullificazione del capitale produttivo accumulato.
Senza una politica monetaria coerente con le necessità dei singoli Stati, senza la possibilità di una politica di bilancio anticiclica, senza una politica valutaria che riassorba gli squilibri strutturali, non esiste politica economica: è questo l’Ordoliberismo, nella sua forma più pura. Purtroppo, però, i differenziali fiscali, salariali e di protezione sociale, incentivati dalle politiche di rigore, aggravano gli squilibri preesistenti ed alimentano le proteste popolari. Le leadership unioniste, vecchie e nuove, sono sempre più fragili: dalla May alla Merkel, da Renzi a Macron.
Spetterà alle prossime elezioni europee, alla fine di maggio venturo, definire il nuovo quadro ordinamentale dell’Unione. Un decennio di crisi conclamata ha messo a nudo la insostenibilità sociale, politica ed istituzionale dei paradigmi costruiti a partire dal Trattato di Maastricht, e soprattutto la loro inutilità per prevenire le crisi finanziarie. Bisogna ritornare all’Europa dei Trattati di Roma, fondata sulla libertà e sulla cooperazione, per la prosperità dei popoli.
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