Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

14/12/2018

Il maremoto che cresce dentro Deutsche Bank

Tutti presi dai tweet politici di Tizio Caio – nanerottoli per dimensioni del paese in cui avvengono e per statura politica – quasi tutti hanno perso di vista “il sottostante” di ogni politica. Ossia l’economia reale e finanziaria.

Proviamo perciò a tirarci fuori dalla stretta contingenza e guardare un po’ più dall’alto l’andamento delle cose. Come si fa in montagna, quando il sentiero sembra incerto e si consulta la mappa (visione dall’alto) per ristabilire la direzione che a piedi (visione dal basso) è diventata incerta.

Per non fare discorsi alati e un po’ campati in aria, partiamo dai dati diffusi da Mediobanca (comparto R&S), che hanno allarmato l’imprenditoria italiana, o almeno la parte delegata a pensare. A darne conto è un articolo di Antonella Olivieri, apparso su IlSole24Ore qualche giorno fa: Banche, allarme derivati: valgono 33 volte il Pil mondiale.

I non addetti ai lavori non ci troveranno motivi di particolare preoccupazione, quindi è necessario decodificare una terminologia tecnica sconosciuta ai più.

I “prodotti derivati” sono titoli finanziari, al pari dei titoli di Stato o delle obbligazioni emesse da società private di qualsiasi tipo. Hanno anche un padre nobile, visto che sono stati “inventati” per la prima volta da Goldman Sachs, la banca Usa abituata a produrre “padroni dell’universo”.

Si tratta di titoli teoricamente garantiti da un “sottostante”, che può essere però qualsiasi cosa (denaro, aziende, azioni, altri titoli), impastata con altre della stessa natura o anche differente, in un’orgia di fantasia “creativa” utile a far denaro con i pezzi di carta. Il mercato dei prodotti derivati, insomma, è un luogo dove ci si scambiano pezzi di carta chiamati “titoli” (azionari, obbligazionari, commercial paper, cdo, “veicoli”, “salcicce”, asset backed securities e via inventando) ed è assolutamente irrilevante la provenienza del profitto e il modo in cui sono stati prodotti.

Ma questi titoli si comprano, si scambiano, hanno una scadenza, come qualsiasi altro titolo. Insomma è come se fosse “denaro contante”, fin quando qualcuno lo accetta in cambio di denaro o altri titoli. Quando una fabbrica attiva viene comprata da un “fondo di investimento” finisce in un calderone che spesso ha questa natura da casinò di Las Vegas.

Il secondo elemento da tener presente è che questa massa di denaro fittizio – proprio secondo la definizione di Marx – ammonta oggi a una cifra “nominale” (2,2 milioni di miliardi di euro) che equivale a 33 volte la produzione mondiale annuale. Cioè, tutto il lavoro umano e gli investimenti di capitale fatti per 33 anni consecutivi, ai livelli attuali.

Praticamente questa massa di cartaccia – in realtà righe di codice scritte in qualche server molto remoto – chiede di essere “valorizzata” (con un tasso di interesse adeguato), come qualsiasi altro capitale. Ma chi può mai accontentare una richiesta di profitto così mostruosa? Numeri alla mano, un interesse minimo del 2% annuo equivarrebbe ai 2/3 del Pil globale di quest’anno... Insomma, tutto il mondo dovrebbe regalare i due terzi di quanto prodotto ai detentori di questa roba. E farlo ogni anno, per un numero praticamente infinito di anni (trent’anni, in economia, non sono un tempo che possa essere preso in considerazione, tranne che per i titoli di Stati molto forti, che presumibilmente non falliranno prima di quella data).

Ovvio che tutto ciò non ha senso economico-produttivo. E dunque che il valore nominale di quei titoli non corrisponde neppure minimamente al valore di scambio reale oggi, sui mitici “mercati”. Detto con parole semplici: non vale neppure la carta o le righe di codice necessarie per scriverli. Anche se magari qualcosa, lì dentro, ha ancora un valore reale, nel mondo reale (una fabbrica funzionante, per esempio).

Carta straccia, quasi come le “obbligazioni secondarie” di Banca Etruria, che hanno gettato sul lastrico tanti piccoli e medi “risparmiatori”.

Chi ha quella roba in cassaforte, per capirci, è un morto che cammina. E cammina fin quando riesce a tener nascosta la propria condizione e ottenere – in qualsiasi modo – una remunerazione dalla propria attività sui “mercati”.

Ma chi ha quella roba in cassaforte? Nessuna sorpresa: le banche.

Bene. A questo punto è importante sapere quali banche sono “esposte” su questo fronte. Anche le banche, in fondo, non sono tutte uguali...

Qui ci facciamo volentieri aiutare dalla Olivieri:
La maggior concentrazione resta appannaggio delle banche europee. Dai dati R&S-Mediobanca risulta infatti che a fine 2017 alle prime 27 banche continentali facevano capo derivati per un valore nozionale di ben 283mila miliardi, pari al 42% dei derivati Ue quantificati dall’Esma. Prese singolarmente, la sola Deutsche Bank (48,26 trilioni) e la sola Barclays (40,48 trilioni) hanno molti più derivati di tutte le principali banche giapponesi messe assieme (32,44 trilioni).

Aggiungendo anche i derivati della terza banca europea più attiva – i 24,53 trilioni del Credit Suisse – si arriva a un importo di 113,3 trilioni, superiore a quello delle prime 14 banche Usa, che, tutte insieme, arrivano a 112,75 trilioni.

La prima banca Usa per ammontare di derivati è JPMorgan con 40,34 trilioni di euro, seguita da Citigroup con 38,4 e Bank of America con 25,57.

Tra le 27 big del credito europeo rientrano anche Intesa (2,94 trilioni di derivati) e UniCredit (2,5 trilioni), che sono però ben lontane dai livelli del top continentale.
A oltre dieci anni dalla “grande crisi” del 2007-2008, innescata proprio da un crollo del mercato dei prodotti derivati (a partire da quelli “garantiti” dai mutui subprime statunitensi, ovvero da prestiti immobiliari concessi a clienti “senza lavoro, senza reddito, senza proprietà”), scopriamo che quel mercato si è triplicato. Allora, infatti, veniva calcolato in circa 660 miliardi di dollari, circa 11 volte il Pil mondiale.

La “cura” escogitata per quella crisi, dopo un primo tentativo statunitense di arginarla iniettando soldi pubblici nelle banche in condizioni peggiori (finito con il mancato salvataggio di Lehmann Brothers e con una settimana di panico universale), fu quello di far stampare moneta alle banche centrali principali (Federal Reserve Usa, Bce, Banca d’Inghilterra e Banca del Giappone), di modo che non venisse a mancare la liquidità indispensabile per far girare la macchina della produzione e circolazione delle merci a livello planetario. La condizione esplicita di questa generosità pubblica era quella di mantenere in vita gli operatori finanziari intimando loro di ridurre l’“azzardo morale”, ovvero la produzione di titoli tossici. Se si è triplicato l’ammontare, l’obbiettivo è sicuramente fallito...

Dieci anni di “iniezioni di liquidità”, quantitative easing, acquisti di titoli da parte delle banche centrali, hanno comunque effettivamente impedito l’esplosione del sistema finanziario globale prestando soldi a tasso zero (o addirittura negativo).

Quel gioco è però finito, per quanto riguarda la Fed, da un paio d’anni, e finirà il 31 dicembre per la Bce.

E alcune delle più grandi banche europee sono oggi nelle stesse pessime condizioni di allora. A cominciare dalla più grande e “sistemica”: Deutsche Bank. E nonostante gli immensi finanziamenti pubblici concessi dal Reichstag merkeliano, prima che lo stesso Reichstag imponesse la regola del bail in (pagano azionisti e obbligazionisti, ma anche i correntisti) nelle crisi bancarie. Quelle altrui...

 

A voi sembra normale che una sola banca abbia in cassaforte – si fa per dire – titoli spazzatura pari a 15 volte il Pil del proprio paese (peraltro la prima economia europea)?

In ogni caso non appare normale ai mercati, che quotano stamattina DB a 7,65 euro per azione, pari a circa 15 miliardi di capitalizzazione a fronte di asset posseduti per 1.500 miliardi. In pratica, “i mercati” dichiarano che questa è una banca tecnicamente fallita, come mostra del resto il tracollo della quotazione azionaria (dal record di 116 euro agli spiccioli di oggi).

Com’è possibile che una banca fallita cammini come uno zombie in cerca di profitto? E’ possibile, secondo le “regole dell’Unione Europea” e in particolare secondo i criteri fissati dalla Bce per gli stress test sulle banche; che curiosamente considerano “pericolosissime” le “sofferenze” (prestiti a imprese e famiglie che faticano a essere restituiti), mentre non considera problematici i titoli tossici (i derivati-carta straccia).

Con questa benedizione alle spalle, per esempio, lo zombie ha partecipato al saccheggio della Grecia orchestrato dalla Troika (Bce,Ue, Fmi), anche se le cifre raccattate con il debito di Atene sono briciole rispetto allo “scoperto”. Ma il semplice fatto di poter registrare degli “attivi” permette di andare avanti, almeno finché uno scossone complessivo dei mercati – una crisi, come quella che si va profilando all’orizzonte e che ha già costretto il Pil tedesco a registrare un -0,2% nel terzo trimestre – non arriva a rimettere in moto la selezione naturale tra gli operatori economici.

Il problema sistemico sembra dunque abbastanza chiaro: in questa Unione Europea il comando effettivo è in mano a gente che dovrebbe portare i libri in tribunale ed essere tombata nelle antiche galere per falliti. Ma che ancora riesce a gestire il peso della Germania (e fino a poco fa anche della Francia) come determinante qualsiasi politica comunitaria. Dunque anche, e soprattutto, la scrittura delle “regole” e dei trattati. E la loro “interpretazione autentica”.

E’ un sistema in cui i morti sopravvivono succhiando il sangue dei vivi (o dei moribondi, visto lo stato dell’economia italiana, ormai priva di soggetti economici di grande spessore internazionale; per non parlare della Grecia). Non è un sistema, in ogni caso, che possa metterci al riparo dalle ondate di tsunami che si vanno addensando nell’oceano primordiale dei “derivati”. Anzi...

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento