Alla fine della scorsa settimana i Ministeri dell’Economia e del Lavoro hanno emanato il decreto
che aggiorna ogni due anni, sulla base dell’andamento dell’indice della
speranza di vita, la soglia dell’età pensionabile. Quest’ultimo
parametro è particolarmente rilevante perché stabilisce a quale età scatta la pensione di vecchiaia
(cioè l’età anagrafica che permette al lavoratore di andare in
pensione, indipendentemente dagli anni lavorati). Il verdetto è che per
il periodo 2021-2022 non vi sarà alcun aumento dell’età pensionabile,
dal momento che nel biennio 2017-18 non si è registrata alcuna crescita
della vita media attesa nella popolazione italiana. I lavoratori
prossimi alla pensione di vecchiaia, ad oggi fissata a 67 anni, non
dovranno attendere oltre quella soglia, almeno fino al 2022. La maniera
in cui la notizia è stata annunciata dai media,
una buona e rassicurante novella, riflette rigorosamente quel perverso
meccanismo automatico sancito dalla Legge Tremonti-Sacconi del 2010, per
cui una maggiore speranza di vita deve necessariamente tradursi in un
aumento dell’età pensionabile, pena la presunta insostenibilità finanziaria (sempre dimostrata con numeri truffaldini e punti di vista parziali)
del sistema previdenziale italiano. Un vicolo cieco da cui non si
scappa, al punto da far sembrare augurabile la non certo positiva
notizia del mancato aumento della speranza di vita. Per non
andare in pensione sempre più tardi possiamo solo sperare che non si
allunghi la vita media: una vera aberrazione concettuale!
Vediamo di andare al fondo di questo
perverso meccanismo, reso automatico a partire dal 2010. Per farlo,
entriamo meglio nel merito del funzionamento di un sistema pensionistico
di tipo contributivo, quello ad oggi vigente in Italia.
Il sistema pensionistico contributivo
determina la pensione sulla base dell’entità dei contributi versati (il
cosiddetto ‘montante contributivo’), e poi rivalutati in base al
migliore o peggiore andamento dell’economia nel corso degli anni, che
poi vengono trasformati, al momento del pensionamento, in rendita
pensionistica mensile sulla base del numero di anni di vita mediamente
attesi a partire da quel momento. Specifici coefficienti detti “di
trasformazione”, puntualmente rivisti sulla base della variabile
‘speranza di vita’, vengono usati per spalmare il montante contributivo
accumulato sugli anni che teoricamente resterebbero, in media, da
vivere. In questo modo, più l’età di pensionamento è anticipata più si riduce la pensione attesa,
poiché aumenta il numero di anni su cui distribuire il montante
contributivo. In un simile sistema pertanto vige un meccanismo per cui un eventuale anticipo di pensionamento è automaticamente penalizzato da una pensione più bassa,
mentre un accesso più tardivo è compensato da una pensione più alta.
Ciò avviene sostanzialmente per due ragioni: un anno in più di lavoro fa
aumentare il coefficiente di trasformazione perché, come spiegato, il
montante rivalutato va distribuito su meno anni; inoltre, più
banalmente, fa aumentare i contributi e, quindi, il montante stesso.
In linea teorica, in un simile sistema
non vi sarebbe alcun motivo per immaginare limiti minimi di età di
accesso alla pensione. Per assurdo, potrebbe essere concesso un accesso
alla pensione anche a 50 anni (o meno) visto e considerato che la
quantità di risorse da versare sarebbe esigua e commisurata agli anni di
lavoro e contributi versati, tra l’altro, principalmente dagli stessi
lavoratori. Ammesso e non concesso che possa essere considerato
ragionevole avere dei parametri minimi di accesso di tipo anagrafico
(raggiungimento di una soglia di età) o di anni di contribuzione
(accumulazione di anni di lavoro), quello che appare del tutto
ingiustificato e paradossale – puro frutto di una logica di austerità
finanziaria orientata ad abbattere la spesa pubblica corrente e futura –
è l’idea di un costante inevitabile innalzamento dell’età pensionabile in base alla crescita della vita media attesa.
Fino al 2010, il continuo aumento
dell’età pensionabile era stabilito discrezionalmente dalle numerose
riforme pensionistiche succedutesi sino a quel momento, dalla Riforma
Amato (1992) fino alla Riforma Maroni (2004), con tutto il conseguente
dibattito politico e la discussione pubblica che ne derivava. Dal 2010,
come conseguenza della Legge Tremonti-Sacconi, la crescita dell’età
pensionabile diventa invece un automatismo che il Parlamento si limita a
ratificare. Un provvedimento condito dal paradosso per cui eventuali
diminuzioni della vita media attesa (del tutto plausibili in un’epoca di
crisi economica così profonda) non avrebbero invece alcun effetto
sull’età pensionabile.
Il meccanismo punitivo verrà poi
anticipato dalla Riforma Fornero del 2011-2012, che prevede che
l’adeguamento avvenga tramite decreto direttoriale, senza neanche
bisogno di una ratifica parlamentare, diventando così un mero artificio
contabile. Non si pone così, neanche astrattamente, la possibilità che
un anno in più di vita media conquistato possa trasformarsi in un anno
(o anche solo sei mesi) in più di riposo. Si dà per scontato che la
quota percentuale della vita lavorativa sugli anni vissuti non debba mai
cambiare e che ogni progresso materiale debba tradursi in un aumento
del tempo assoluto di lavoro svolto. Se ciò è già di per sé del tutto
discutibile a parità di condizioni tecniche di produzione e produttività
del lavoro, diventa un assioma perverso in condizioni di più o meno
intenso progresso tecnico. La straordinaria crescita della produttività
del lavoro che ha accompagnato lo sviluppo economico degli ultimi 60-70
anni – che permette di produrre nello stesso lasso di tempo una quantità
infinitamente maggiore di beni e servizi – non ha coinciso, se non
marginalmente, con una diminuzione del tempo dedicato al lavoro, sia
come orario lavorativo medio nel corso della vita attiva, sia come
percentuale di vita dedicata al lavoro a fronte di un allungamento della
durata della vita.
La persistenza di orari di lavoro
defatiganti – che in molti settori coprono di fatto intere giornate,
superando le 10-12 ore con l’uso disinvolto di straordinari spesso
nemmeno economicamente riconosciuti – e le riforme pensionistiche
restrittive, che hanno portato sempre più in là l’età pensionabile di
vecchiaia e di anzianità contributiva, hanno finito per svuotare il
progresso tecnico degli ultimi decenni di ogni risvolto sociale
effettivo sui tempi liberi dell’esistenza: su quella parte cruciale
della vita di una persona da dedicare alla sfera affettiva, sociale,
culturale, artistica, spirituale, ovvero quella parte di esistenza
sottratta ai ritmi frenetici di un lavoro che spesso non rispetta
nemmeno quella promessa di realizzazione professionale cui dovrebbe
astrattamente ambire.
A ciò va poi aggiunto che un allungamento
della vita media attesa non coincide necessariamente con più anni di
vita in salute. Spesso infatti, anche grazie ai progressi nella cura e
nella cronicizzazione di molte malattie, sono gli anni di vita in
malattia o in condizioni di debolezza e scarsa efficienza fisica o
psichica a prolungarsi. Insomma, l’aspettativa di vita potrebbe anche
allungarsi, grazie al progresso tecnico, ma ciò non significa che sia sempre un riflesso di una buona salute: una grave malattia, che oggi
determina la morte di un individuo in breve tempo, un domani potrebbe
rappresentare semplicemente un allungamento della condizione terminale.
O, più banalmente, superata una certa età non si è più in grado di
godere appieno della vita rimasta, soprattutto se aumentano gli anni in
cui dobbiamo lavorare! Un elemento in più che dovrebbe mostrare le gravi
conseguenze di un’impostazione scellerata che vorrebbe che nei prossimi
decenni lavorassimo tutti fino a 70 o, chissà, 75 o 80 anni.
Del resto, al di là delle convinzioni ideologiche e dei falsi spauracchi sui conti in rosso dell’istituto previdenziale,
il vero spirito che ha animato la graduale destrutturazione del sistema
previdenziale pubblico e le sue riforme iper-restrittive è da molti
anni sempre lo stesso: il risparmio di risorse. Nell’ottica
dell’austerità, resa cogente dai trattati europei, occorre saccheggiare
qua e là le risorse che andrebbero destinate a finalità sociali. Il
risparmio pensionistico è diventato una vera e propria ossessione,
trattandosi di un monte di risorse a cui attingere (alla faccia di
pensionati e pensionandi) di enorme entità. Risorse che invece di essere
dedicate al benessere di chi ha lavorato per una vita intera sono
invece offerte come contributo alla famelica macchina dell’austerità,
che ogni anno divora diritti sociali e tempi di vita con il solo ed
unico fine di proseguire sulla strada della mastodontica redistribuzione
del reddito dal basso verso l’alto.
In una prospettiva e in un’ottica
redistributiva opposte, il ripensamento radicale del rapporto tra tempi
di vita e tempi di lavoro, assieme ad un ripensamento della qualità, del
senso e del riconoscimento economico e sociale del lavoro stesso, non
possono che essere i fondamenti di una società più solidale, più giusta e
più umana. Una società in cui un aumento della speranza di vita
non debba essere accolto con un brivido dai lavoratori alle soglie
della pensione, ma soltanto come un’ottima notizia per tutti.
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