La vertiginosa intro dell’organo, i rimbombi del basso come
colpi di cannone e quell’assurdo, lunare Moog ad avvolgere la voce
spettrale, rifratta dall’eco, di un Jim Morrison più sciamanico che mai.
Mentre l’euforia della Summer of Love sta sfumando in un autunno
foriero di malinconie e ripensamenti, i Doors guastano definitivamente la festa ai figli dei fiori. Strange days have found us.
Strani giorni di smarrimento e desolazione, per un presente listato a
lutto - la guerra del Vietnam, gli omicidi di John F. Kennedy e Martin
Luther King, i rigurgiti del Ku Klux Klan – e per un futuro denso di
angosciose incognite. Addio California dreaming, la musica è finita, non resta che spegnere la luce (“When The Music's Over”).
C’era una volta a Hollywood
“Strange
Days” esce il 25 settembre 1967, nove mesi dopo l’Lp d’esordio,
l’epocale bestseller che ha annunciato al mondo il verbo di Jim Morrison
e compagni. Bisogna battere il ferro finché è caldo – fanno capire i
discografici, che vogliono fare dei Doors la risposta americana alla
British Invasion dei Beatles.
E al Sunset Sound Recorders di Hollywood, Los Angeles, non badano a
spese: in cabina di regia c’è ancora il produttore del debutto, Paul A.
Rothchild, ma tutto è più curato e sofisticato. Il disco viene inciso
con gli strumenti più moderni, la registrazione passa da quattro a otto
piste e fa la sua comparsa, per l’appunto, un avveniristico
sintetizzatore Moog.
Anche musicalmente l’evoluzione è tangibile: il sound
tipico della band californiana si fa ancor più oscuro e morboso,
oscillando tra radici blues e aromi psichedelici, venature jazz e
adrenalina rock. Se “The Doors” aveva schiuso le porte della percezione di huxleyana
memoria attraverso una serie di cerimoniali lisergici e baccanali
collettivi, “Strange Days” è più intimamente psichedelico: come un
viaggio introspettivo diretto a scandagliare i recessi più bui della
mente. La chitarra di Robby Krieger accumula tensione riff dopo riff,
la batteria di John Densmore è tribale e marziale, mentre i giri delle
tastiere di Manzarek suonano ancor più ipnotici. C’è poi l’ingresso di
un ospite al basso, Doug Lubahn, a quel tempo membro di un’altra band
della Elektra, i Clear Light. Anche i testi di Morrison si fanno più
personali e decadenti, narrando storie di quotidiana alienazione e
solitudine, sapientemente drammatizzate dalle sfumature del suo
baritono: lugubre negli episodi più apocalittici, dimesso e contrito, al
limite del sussurro, nei momenti più confidenziali.
Stravaganza è la parola d’ordine, sin dalla copertina, che – per precisa volontà del frontman,
già preoccupato della sua immagine inflazionata - non ritrae la band,
bensì alcuni giocolieri e artisti di strada, immortalati dal fotografo
Joel Brodsky a Sniffen Court, un vicolo storico della 36esima Strada a
Manhattan, davanti a una locandina del gruppo, con tanto di etichetta a
ricordare il titolo del disco. Ma strange è un aggettivo
polivalente, che assume anche il significato di “straniero”, “diverso”,
“ostile” e “allucinato”, a seconda dei risvolti narrativi di un disco
che è nel suo complesso un inno all’anticonformismo, all’attitudine
incompromissoria a non allinearsi mai.
I giorni dell’alienazione
Dieci
brani per appena 35 minuti di musica: è un menù conciso e perfettamente
a fuoco, quello dell’opera seconda della band californiana. A partire
proprio da quel memorabile abbrivio. Non si sa cosa sia più epico, nella
title track: se il vorticoso Vox Continental di Manzarek in
apertura, il ruggito del Moog (suonato da Morrrison con l’aiuto di Paul
Beaver), la profezia desolata del cantante, la chitarra in overdrive
di Krieger o il prepotente basso di Lubahn che va a intrecciare gli
splendidi giri che dominano la base. Fatto sta che “Strange Days” resta
uno dei capolavori definitivi dei Doors, nonché uno dei loro brani più
moderni e preveggenti. Si narra che a ispirarlo fu una visita del gruppo
nella febbrile New York di Andy Warhol, e non si stenta a crederlo: il
raffronto con i coevi Velvet Underground non è certo fuori luogo.
Sentirsi
perduti, estraniati, infelici è la condizione che accomuna anche le due
“girl” del disco. Le cadenze morbide da ballata di “You’re Lost Little
Girl”, cullata dalla voce calda di Morrison e dai ricami della Gibson di
Krieger (qui anche al primo assolo del disco, in salsa quasi flamenco),
si infrangono su quell’andatura sinistra, meccanica da cabaret noir,
che svela la natura ambigua e scabrosa della canzone. Anche “Unhappy
Girl” - malinconica e vivace al tempo stesso, con le venature
psichedeliche delle tastiere, i riff di Krieger in slide e il piano bass
di Manzarek - muove da premesse maliziose per sfociare in
un’esortazione a liberarsi dalla prigionia del proprio corpo e nuotare
nel fiume del mistero (“Don’t miss your chance/ To swim in mystery/ You
are dying in a prison/ Of your own device”). Ed è una donna anche la
destinataria dell’invocazione di “Love Me Two Times”, uno dei loro
travolgenti numeri blues-rock, sospinto dal drumming forsennato
di Desmore e dal clavicembalo di Manzarek, che accompagna un Morrison
selvaggiamente sensuale al grido di “Love me two times, I’m goin’ away”
(testo di Krieger, ispirato ai soldati americani desiderosi di essere
“amati due volte” prima di partire per il Vietnam). Doveva essere la
nuova “Light My Fire” - con tanto di assolo centrale di tastiera a
richiamarla - ma i suoi contenuti osé ne pregiudicheranno i passaggi in
radio, per la disperazione di Rothchild.
Ma la canzone-manifesto del disco, assieme alla title track, è “People Are Strange”, con il suo splendido refrain,
eterno inno al senso di emarginazione e alienazione metropolitano:
“People are strange when you’re a stranger, faces look ugly when you’re
alone”. Scritta in pochi minuti da Morrison dopo una gita con Krieger
sulle colline di Santa Monica culminata in un tramonto in cima al Laurel
Canyon, è lisergica e struggente, teatrale – con quella cadenza
vaudeville - e colma di malinconia blues, con lo splendido arpeggio del
chitarrista e il piano honky-tonk da saloon di Manzarek ad
assecondare il canto sconsolato del Re Lucertola. Poco più di due minuti
di pura magia sonora, appena screziata di psichedelia grazie agli
arabeschi dell’organo.
Venice Beach al chiaro di luna
Jim
Morrison e Ray Manzarek si erano conosciuti alla scuola di cinema
dell’Ucla, a Los Angeles. In breve tempo erano diventati amici,
infervorati d’arte e di notti lisergiche. Nell’estate del 1965 si
ritrovano sulla spiaggia di Venice. Morrison rivela all’amico che non è
più partito per New York, ma ha deciso di restare, per scrivere canzoni.
Una di queste è “Moonlight Drive”. Jim gliela canta a occhi chiusi,
seduto sulla sabbia. E Ray capisce che insieme possono formare un
gruppo. Due anni dopo, quella canzone finisce su “Strange Days”, con
tutto il suo carico di ammaliante desolazione. Un sogno a occhi aperti,
al chiaro di luna, che cela un altro invito a prendere il largo, a
evadere dalla soffocante giungla metropolitana: “Let’s swim to the moon/
Let’s climb through the tide/ Penetrate the evening that the city
sleeps”. L’acqua metafora di liberazione, dunque, ma anche – forse – del
desiderio di farla finita, con quei riferimenti macabri ai “pesci come
amici” e alle “perle al posto degli occhi”. Gli intarsi blues della
chitarra “bottleneck” di Krieger, con continui riff in saliscendi, uniti al ritmo sghembo, suscitano un senso di straniamento irresistibile.
Ma
a dar forma al caleidoscopio cangiante di “Strange Days” sono anche i
brani apparentemente minori. Come l’allucinazione psichedelica di “Horse
Latitudes”, con quell’organetto impazzito a correre dietro al
farneticante spoken-word del cantante, alle prese la storia di
una nave che, costretta a disfarsi del proprio carico, getta in mare
anche i cavalli; o come la progressione rock di “My Eyes Have Seen You”,
con un altro repentino ribaltamento d’umore di Morrison sottolineato
dal bruciante assolo di Krieger e dal giro di basso di Luhban; o ancora
quella “I Can’t See Your Face In My Mind” dalle sornione atmosfere
lounge, appena turbate dal canto suadentemente minaccioso del leader,
con il basso che lascia il posto alla marimba suonata da Manzarek e con
delicati inserti di slide guitar e tastiere.
La musica è finita
Un
capitolo a parte lo merita il gran finale. Undici minuti per un nuovo
soliloquio psicotico del Re Lucertola, annunciato da una intro
da antologia: i languori jazz dell’organo, l’urlo di Morrison, la
frustata distorta della chitarra, ad anticipare il lungo viaggio
costellato di immagini misteriose e metafore bibliche (“annullate il mio
abbonamento alla Resurrezione”; “prima di sprofondare nel grande
riposo, voglio sentire l'urlo della farfalla”, “la notte persiana”) che
prende quota sulla lunga improvvisazione Krieger-Manzarek, per poi
affievolirsi quando Morrison inizia a declamare i suoi versi e per
culminare nel raggelante coro all’unisono di “We want the world and we
want it now!” (“Vogliamo il mondo e lo vogliamo ora!”) che scatena la
sarabanda finale e l’altro climax morrisoniano (“When the music’s over/
Turn out the lights/ The music is your special friend, dance on fire as
it intends, music is your only friend, until the end”). Un crescendo
melodrammatico modellato – come ammesso anche da Krieger - sulla
struttura di “The End”, ma dagli esiti differenti: se il rituale edipico
dell’esordio sfociava in un orgasmo tribale e liberatorio, qui tutto
implode in un deliquio onirico che non lascia scampo. La musica è
l’unica ragione di vita, quando questa finisce, non resta che “spegnere
la luce”: la più inquietante profezia di quanto sarebbe accaduto a Jim
Morrison quel terribile 3 luglio del 1971.
Pur agguantando la
terza posizione nelle classifiche americane, “Strange Days” deluderà le
smisurate attese di Rothchild. Tutta colpa – a suo dire – della mancanza
di un singolo rompighiaccio alla “Light My Fire”, che impedì di
raggiungere e superare il successo del disco d’esordio (n.2 Billboard).
Eppure, più passano gli anni più si sedimenta – almeno in chi scrive –
la convinzione che si tratti di un disco ancor più maturo e profondo del
debutto. Nelle sue dieci canzoni è racchiuso il senso più autentico
della missione musicale dei Doors: una band di rock psichedelico
sperimentale, capace però di graffiare con un appeal pop di
straordinario impatto. E nei suoi testi, in quell’autunno dello
scontento di Mr. Morrison, si può ravvisare l’altro lato, quello più
oscuro e malato, della grande stagione acida californiana, dell’Età
dell’Acquario e della ribellione giovanile. Un concentrato di
allucinazioni, paranoie e confessioni angosciate che resterà uno dei
ritratti musicali più potenti e suggestivi dell’America dei Sixties. Il
suo spirito visionario non sfuggirà a una regista attenta come Kathryn
Bigelow, che, quasi trent’anni dopo, ne riprenderà il titolo per il suo
omonimo kolossal fantascientifico.
Strange days have found us.
“Strani giorni ci hanno scovati”. Come se pensassimo di poter farla
franca, di sfuggire in qualche modo al nostro destino. Era l’istantanea
di un’epoca, è diventata una cupa profezia per tutti gli anni a venire.
Fonte
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