Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

11/11/2019

Berlino, 30 anni dopo

Se i maestri sono in crisi, proprio mentre celebrano la storica vittoria sull’avversario numero uno (il socialismo, seppure nella sua versione più grigia, quella “reale”), è bene guardare con occhio clinico alle ragioni di tale crisi.

Che sono poi, nell’insieme, il normale funzionamento del modo di produzione capitalista.

Ancora una volta vi proponiamo un fulminante editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza, che impietosamente affonda il bisturi nel modello mercantilista tedesco. Un dispositivo di rapina all’interno (verso i propri lavoratori) e all’esterno (verso i paesi-partner dell’Unione Europea, e ovviamente verso i loro lavoratori) che va in crisi per aver avuto troppo successo.

Che non vuol dire aver avuto ragione, ma semplicemente essersi potuto “finalmente” sviluppare senza avversari; né come classe contrapposta (i lavoratori, appunto), né come “sistema economico e di valori” (il socialismo).

Chi mastica di dialettica capisce senza sforzi che il momento migliore dell’economia tedesca ed europea – perché di questo sostanzialmente si parla – coincida con il periodo pre-caduta del Muro. Quando, insomma, welfare e salari furono elargiti con generosità, magari anche a scapito dei profitti, che “furono ridotti, sì, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma solo per paura del Comunismo”.

Il capitalismo, insomma, rende meglio quando è sottoposto a una non volontaria “cura dimagrante”, a una condivisione degli utili che è poi diventata bestemmia dopo l’89. Ma anche in quelle condizioni non funzionava benissimo...

Dopo l’Anschluss della DDR e la facile imposizione a tutta l’Unione Europea delle regole più vantaggiose per sé, non troppo paradossalmente, quel meccanismo si è inceppato.

L’evoluzione tecnologica (fin lì spinta dalla concorrenza con il “socialismo reale” e soprattutto per contrastare la crescita salariale con la caccia al “plusvalore relativo”) si è arenata. Fare soldi, per “gli imprenditori” di qualsiasi dimensione, era diventato così facile da non richiedere troppi investimenti in ricerca e sviluppo.

Anche controllare il sistema finanziario continentale si è rivelato piuttosto facile, e questo ha convinto la branca tedesca (e francese) che sarebbe andata avanti così a lungo, se non per sempre.

Ma “Essere considerata un porto sicuro dai risparmiatori stranieri, continuare ad accumulare attivi commerciali sull’estero, avere le finanze pubbliche in perfetto ordine e dei cittadini che continuano a lavorare indefessi e a risparmiare senza sosta, non è bastato alla Germania per assicurare la stabilità delle sue istituzioni bancarie.“

Peggio. Quel modello mercantilista fondato su bassi salari e precarietà contrattuale (diritti zero, ricatto alto, consumi ridotti anche sotto il minimo vitale) ha distrutto – e continua a farlo – gli schemi riproduttivi della popolazione, anche in Germania, proprio come in Italia. “Una decrescita demografica spaventosa, che porterà la Germania ad un peggioramento continuo del rapporto tra le coorti degli anziani e quelle dei giovani, che peserà sempre più sulla produzione, sui sistemi previdenziali e su quelli sanitari”.

Qui è il caso di soffermarsi un attimo, serrare le dita della mano e prepararsi a scaricare un bel pugno in faccia a tutti quegli opinione maker da strapazzo, al soldo delle imprese, che parlano di “scontro generazionale” tra garantiti e non garantiti, sia a livello salariale che di prospettive pensionistiche (potete farlo anche con i “negriani”, naturalmente...). Tutti squallidi beoti che attribuiscono alle persone (lavoratori diventati anziani che non riescono più ad andare in pensione) la “colpa” di un sistema economico squilibrato che sta mettendo in dubbio la continuità della popolazione in Europa!

Come se fossero state scelte individuali egoiste e non condizioni economiche sistemiche...

Ma è sul piano finanziario, per chi ha la pazienza di seguire un attimo le argomentazioni più tecniche di questo articolo, che la Storia e la logica si prendono la sacrosanta rivincita su un “piano” che sembrava l’uovo di Colombo (o quella dell’asino che era stato addestrato a lavorare senza mangiare).

Il problema della Germania finanziaria oggi è infatti “troppi capitali, troppa liquidità, e troppo pochi investimenti nell’economia reale”. E nonostante questo sono proprio loro – la classe dirigente e dominante nella UE – a pretendere maggiori dosi di austerità. Che servirà soprattutto a rastrellare altri capitali (liquidi, infrastrutturali, produttivi, immobiliari, ecc.) dai paesi partner-allocchi, senza dover fare nulla e soprattutto senza risolvere il problema. Anzi aggravandolo.

Non c’è da stupirsi. È la trappola della liquidità, ed è un classico dei momenti in cui tutti i nodi della sovrapproduzione giungono al pettine.

C’è tutta l’acqua (finanziaria) che si vuole, ma “il cavallo non beve”...

Chi – paesi e classi sociali – non vuole morire d’inedia, per dissanguamento progressivo, deve attivarsi per rompere questo meccanismo. Non sarà facile, non sarà indolore. Ma è meglio che attendere la fine (“un Paese che si avvia alla scomparsa”) senza osare una qualsiasi resistenza.

*****

Berlino, trent’anni dopo

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

La complessa situazione economica e finanziaria della Germania, ed ancor più il nuovo e divaricante scenario sociopolitico che la caratterizza, sono il risultato non certo inatteso di una strategia tanto mal congegnata quanto assai pretenziosa, che tante contraddizioni ha ben nascosto per anni: da un ventennio almeno, si è arroccata nelle produzioni tradizionali delle auto, della manifattura meccanica e della chimica, deflazionando i salari per aumentare le vendite ed i profitti all’estero. Un mercantilismo di vecchio stampo.

Dopo la crisi del 2010, il rigore fiscale che ha imposto ai competitor europei serviva ad indurre recessioni assai preziose al fine di mantenere inalterato il vantaggio competitivo tedesco, mentre le sue banche ritiravano il più velocemente possibile gli impieghi dai Paesi a rischio di default sovrano o bancario. Il Bail-in ed il bail-out, come l’ESM, sono stati varati a sua convenienza. Anche il Fiscal Compact fu una proposta di marca tedesca, appoggiata dai francesi solo per finzione, non avendolo mai applicato. Ed anzi, Parigi è rimasta in procedura di infrazione per un intero decennio, senza rispettare neppure le ben più lasche prescrizioni del Trattato di Maastricht.

Nessun sistema regge però alla lunga, soprattutto in un contesto internazionale di relazioni aperte, quando si fonda su squilibri strutturali, quali che siano: un eccesso di risparmio accompagnato da troppi pochi investimenti in un contesto di tassi di interesse estremamente bassi o addirittura negativi, porta all’insofferenza dei risparmiatori, pregiudica la sostenibilità dei bilanci delle banche, di quelli delle assicurazioni e dei fondi di previdenza, e porta all’inflazione del valore degli asset immobiliari; i saldi commerciali strutturalmente attivi, fondati sulla deflazione salariale e sui differenziali territoriali e di status lavorativo, minano la stabilità sociale a medio termine e nel breve anche quella politica.

Essere considerata un porto sicuro dai risparmiatori stranieri, continuare ad accumulare attivi commerciali sull’estero, avere le finanze pubbliche in perfetto ordine e dei cittadini che continuano a lavorare indefessi e risparmiare senza sosta, non è bastato alla Germania per assicurare la stabilità delle sue istituzioni bancarie.

L’etica del lavoro intesa come impegno totalizzante, così come all’opposto la precarizzazione dei rapporti di impiego e l’instabilità della piccola imprenditoria, producono l’identico risultato negativo: una decrescita demografica spaventosa, che porterà la Germania ad un peggioramento continuo del rapporto tra le coorti degli anziani e quelle dei giovani, che peserà sempre più sulla produzione, sui sistemi previdenziali e su quelli sanitari.

Nel 2049, la popolazione tedesca sarà di appena 74 milioni di abitanti rispetto agli oltre 83 milioni di oggi, con una perdita superiore al 10%: un Paese che si avvia alla scomparsa. Mancheranno i giovani, e non solo i maschi come accadde dopo le due guerre mondiali. Difficile compensarli, perché la manodopera immigrata non è più gestibile come in passato, quando i “lavoratori ospiti” vivevano nei cantieri e nelle miniere senza famiglia, ritornando senza fiatare a casa, all’occorrenza.

Al contrario della Germania, la Francia passerà dagli attuali 66 milioni di abitanti ad oltre 71 milioni nel 2049: l’esperienza della settimana lavorativa di 35 ore, congiunta ad un robusto welfare familiare e ad una ancor solida salvaguardia della stabilità lavorativa, ha portato a risultati estremamente positivi in termini di equilibrio demografico e di sostenibilità pensionistica.

In Germania, ci sono tensioni insopprimibili sul versante finanziario: troppi capitali, troppa liquidità, e troppo pochi investimenti nell’economia reale. Dopo la crisi greca del 2010, in Germania sono affluite enormi risorse, come è testimoniato anche dall’aumento dei crediti nel sistema Target 2: il saldo attivo della Bundesbank è infatti passato dai 115 miliardi di euro del 2008 ai 915 miliardi del settembre scorso. Di converso, il saldo della Banca d’Italia ha cambiato di segno, passando da +23 miliardi a -468 miliardi di euro.

Ma non ci sono impieghi sicuri, a sufficienza: anche gli acquisti di Bund da parte della Bce nell’ambito del Qe, per complessivi 521 miliardi di euro a fine 2018, hanno contribuito alla rarefazione sul mercato di questo safe asset ed alla riduzione dei tassi di interesse. Inoltre, c’è stata la politica di riduzione del debito condotta dal governo federale, passato dai 2.192 miliardi di fine 2014 ai 1.974 miliardi di euro stimati alla fine di quest’anno. In totale, sono venuti meno sul mercato titoli per ben 739 miliardi di euro. La concorrenza sfrenata per ottenerli, ne fa crollare i rendimenti.

C’è un pro, ma anche un contro, dappertutto. I tassi di interesse sui Bund, negativi sulla grandissima parte delle emissioni, rappresentano un gran vantaggio per le finanze federali che rimborsano agli investitori una somma inferiore a quella prestata, riducendo il carico fiscale per il contribuente tedesco: le spese per interessi si sono abbattute dei due terzi, passando dai 69 miliardi di euro del 2008 ai 21 miliardi di quest’anno.

Lo sforzo fiscale è ancora più lieve, visto che il rapporto tra la spesa per interessi ed il totale delle entrate è passato dal 6,2% all’1,3%. D’altra parte, poiché oltre il 70% dei Bund è sottoscritta da non residenti, sono gli stranieri a pagare il costo dei tassi negativi. Questa riduzione dei tassi di interesse ha ampiamente contribuito al successo nella gestione della finanza pubblica, essendo già stati raggiunti i due obiettivi del Fiscal Compact, sia in termini di pareggio strutturale del bilancio che di rapporto debito/pil pari al 56,9% rispetto al tetto del 60%.

In Germania c’è dunque una trappola della liquidità, in piena regola. Un aumento degli investimenti pubblici infrastrutturali, che pure sarebbero necessari, avrebbe come controindicazione la necessità di utilizzare nuova manodopera straniera, che si è visto essere di difficile integrazione. Con un livello di disoccupazione (e di sotto-occupazione) sceso al 3%, c’è ben poco da fare. Erogare incentivi alle industrie esistenti, per aumentarne la produttività, contrasterebbe con un mercato europeo stagnante: è la domanda aggregata che manca.

Una forte spinta alla innovazione tecnologica nel settore delle auto, soprattutto nella trazione elettrica, porterebbe al write-off di investimenti enormi e di una indiscussa superiorità nella meccanica: sarebbe come chiedere al tacchino se è d’accordo ad anticipare il cenone di Natale.

Si dovrebbero piuttosto alzare i salari: ma accelerare ancora, dopo un aumento già registrato del 2,3% nel 2018 e con una inflazione all’1,2%, sarebbe una imprudenza. Salterebbero il controllo dei prezzi e tutta la strategia di deflazione salariale condotta con le riforme Hartz.

L’impoverimento sociale è una strategia da cui è difficile uscire, visto che compromette i profitti: questi furono ridotti, sì, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma solo per paura del Comunismo.

Il costo dei tassi a zero o negativi colpisce anche le famiglie tedesche, che tengono in media sotto forma di depositi bancari il 40% dei propri risparmi. Con i tassi negativi portati allo 0,50% dalla Bce sui depositi ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria, è stato stimato per le banche tedesche un costo annuo di 2,4 miliardi di euro l’anno, che ora viene gradualmente ribaltato sui risparmiatori: Berliner Volksbank e Deutsche Skatbank, insieme ad un’altra trentina di banche tedesche, hanno già iniziato a traslare il tasso negativo sui conti superiori ai 100 mila euro.

Gli impieghi bancari tedeschi, per essere remunerativi, devono quindi dirigersi all’estero, con tutti i rischi che ciò comporta in termini di cambio e di default del debitore: il ricordo dei prestiti improvvidi alle banche spagnole ed a quelle greche, salvate dall’ESM con i contributo di tanti Stati incolpevoli europei come l’Italia, così come quello degli acquisti di Mbs americane rivelatisi fallimentari, non è sufficiente a frenare questo flusso.

C’è ancora un altro rovescio della medaglia: le famiglie tedesche, insofferenti per i tassi sui depositi e sui Bund, cercano investimenti più remunerativi e fonti alternative di rendita, soprattutto nel settore immobiliare. Una scelta, questa, che si sta rivelando incompatibile con la stabilità dei prezzi pagati dalle famiglie per le proprie spese, e di conseguenza con quella dei salari.

In Germania, infatti, l’indice dei prezzi delle abitazioni, pari a 100 nel 2015, è arrivato a 115 nel settembre scorso. Anche gli affitti sono schizzati verso l’alto: nelle dieci principali città tedesche, l’aumento è stato del 50% tra il 2005 ed il 2018. A Berlino. I prezzi sono duplicati in un decennio: per fermarne la deriva, a giugno scorso se ne è stato discusso il blocco quinquennale, e ad agosto anche l'introduzione di un sistema di equo canone che va dai 3,42 ai 7,97 euro/mq a seconda della tipologia e dell’età dell’immobile: paradossalmente, quindi, proprio chi chiede la massima libertà sui mercati internazionali si trova a dover ricorrere a casa propria ai prezzi amministrati.

E pensare, poi, che Berlino fa ancora parte dell’elenco dei Land appartenenti all’ex-DDR, in cui si praticano salari minimi orari inferiori rispetto a quelli vigenti nei Land occidentali.

C’è un’altra contraddizione: il mantenimento di un elevato saldo commerciale attivo con l’estero, che da anni è superiore al 6% del pil mentre quello della Cina è sceso al 2%, è ottenuto contraendo la quota dei consumi interni e peggiorando le condizioni lavorative. Tra il 2005 ed il 2018 i consumi delle famiglie tedesche sono passati dal 63% al 51% del pil. Nel marzo 2018, rispetto a dieci anni prima, c’erano un milione in più di occupati marginali con prestazioni lavorative a tempo pieno, i cosiddetti mini-job remunerati con 458 euro medi mensili. I lavoratori marginali, quelli a salario legale minimo, sono arrivati così a quota 2,8 milioni, l’8,5% del totale dei posti di lavoro a tempo pieno. Considerando anche i mini-job a tempo parziale, si arriva ad un totale di 7,6 milioni su 32,7 milioni di occupati: nel complesso, in 15 anni, i mini job a tempo pieno e parziale sono aumentati del 35%.

L’insoddisfazione sociale si è riflessa anche sui risultati elettorali, con la Grande coalizione tra Cdu-Csu e Spd sempre meno autosufficiente: a destra, c’è la Afd che minaccia i Popolari, mentre a sinistra i Verdi e talora la Linke surclassano i Socialdemocratici. Si appanna così la leadership di Angela Merkel, che ha dominato la scena europea dello scorso decennio, ma le sue due eredi in politica non sembrano in grado di fare altrettanto: né Annegret Kramp-Karrenbauer alla guida della Cdu, né Ursula Von der Leyen da neo Presidente della Commissione europea.

Anche il posizionamento strategico del sistema produttivo tedesco si è fatto incerto. Non è il recente -0,1% del pil trimestrale tedesco che preoccupa, quanto la inattitudine ad affrontare le discontinuità e gli scenari che non siano la proiezione ed il perpetuo riproporsi del passato.

Il Kombinat nato a Bad Godesberg nel 1959 ha messo insieme tutti gli apparati della società tedesca: dai partiti ai sindacati, dalle banche alle grandi industrie. Ha fatto della Germania un panzer invulnerabile, ma inadatto alle nuove sfide. Al ricercato dominio in Europa, senza mai concedere vera solidarietà, si sostituisce ora il timore di un futuro che si stinge nell’incertezza globale.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento