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10/02/2020

La crisi alle porte, tra Sanremo e gli Oscar...

La crisi globale sta tornando con forza a preoccupare i centri decisionali che tengono sotto controllo le infinite variabili dell’economia. Per questo, probabilmente si parla tanto di “conseguenze economiche globali del coronavirus”, predisponendo un possibile capro espiatorio per il botto alle porte.

I segnali sono ormai numerosi: la crisi politica tedesca ne è forse l’espressione più evidente (pochi minuti fa Annegret Kramp-Karrenbauer, leader Cdu della cancelliera Angela Merkel, considerata la sua erede naturale, ha annunciato che non correrà alle elezioni federali del prossimo anno e ha deciso anche di lasciare al più presto la presidenza della Cdu), ma mente coscientemente chi ne volesse dare la colpa solo all’avanzata della destra neonazista e ai tentativi di “conciliazione” fatti in Turingia dalla stessa Cdu (e dai “liberal-liberisti” della Fdp).

Come sempre, infatti, una crisi politica segue una crisi economica e sociale. E la Germania è da anni “il vero malato d’Europa”, anche se si difende affondando i partner anziché cambiando qualcosa nel proprio modello.

Un segnale ancora più esplicito, ma conosciuto solo agli addetti ai lavori, arriva dai vertici della Commissione Europea, fin qui salda nelle proprie inspiegabili “convinzioni” sulla necessità di curare la crisi con massicce dosi di austerità (in macroeconomia si dice che si tratta di una politica “pro-ciclica”, che aggrava una situazione negativa con scelte suicide).

Pochi giorni fa il vice presidente esecutivo europeo Valdis Dombrovskis (un fisico, di formazione, che non si capisce per quale miracolo politico sia stato inchiodato alla poltrona di “commissario all’economia”), presentando la revisione della “governance economica” dell’Ue, si è lasciato andare a considerazioni impensabili fino a qualche settimana fa (e ancora “impensate” per gli opinion maker italici, da Cottarelli a Boeri, da Massimo Giannini a Mario Monti, ecc).

“Le nostre regole si sono evolute considerevolmente da quando sono state stabilite per la prima volta e hanno prodotto risultati positivi. Tuttavia, oggi sono percepite come troppo complesse e difficili da comunicare. Per questo motivo, non vediamo l’ora di discutere apertamente ciò che ha funzionato, ciò che non ha funzionato e come creare consenso per la razionalizzazione di tali regole e renderle ancora più efficaci”.

Già quando si comincia a distinguere tra decisioni “efficaci” e la loro “percezione” si ammette implicitamente che quelle misure sono odiate, e per motivi molto fondati. Ma fin qui, magari, si potrebbe anche far finta di nulla, perché è ovvio che una politica economica non possa sortire effetti uguali per tutte le classi sociali: per alcune saranno un vantaggio, per altre no. Ma chi se ne frega...

Il problema cambia – e radicalmente – quando quelle misure cominciano a dimostrarsi non solo “odiose”, ma soprattutto inefficaci. Insomma: sbagliate.

È stato il neo-commissario agli affari economici, Paolo Gentiloni, nella stessa occasione, ad ammetterlo: “è necessario avviare politiche di bilancio anticicliche, dati i crescenti vincoli che la Banca Centrale Europea deve affrontare. La complessità delle nostre regole rende più difficile spiegare ai nostri cittadini cosa sta dicendo ‘Bruxelles’, e questo è qualcosa che nessuno di noi dovrebbe accettare”.

Politiche di bilancio anticicliche, secondo la logica, sono le politiche opposte a quelle seguite fin qui.

Ma vi pare possibile che gli ordoliberisti al comando dell’Unione Europea possano riconoscere di non averci mai capito una mazza – come il povero Calenda ha dovuto ammettere – e quindi convertirsi al pensiero keynesiano? Ossia a mettere in cantiere investimenti pubblici, aumento dei salari, maggiore occupazione anche se “improduttiva” in termini di profitto (la cura del territorio non sarà mai oggetto di “investimenti privati”), più welfare, istruzione, ecc?

No. Certamente.

E infatti ancora una volta Dombrovskis cancella immediatamente la mezza proposta di “politiche anticicliche” tornando al vecchio e mortale tran tran “europeista”: “le regole fiscali europee condivise sono essenziali per la stabilità delle nostre economie e dell’area euro. Garantire la stabilità finanziaria è una condizione preliminare per la crescita economica e la creazione di nuovi posti di lavoro. Tale regolamentazione è fondamentale anche per creare fiducia tra gli Stati membri, essenziale per ulteriori progressi sull’approfondimento dell’Unione economica e monetaria”.

Se mantieni le stesse regole che ti stanno portando al disastro non puoi pensare di evitare il disastro. Soprattutto, non puoi vendere questa sciocchezza come un “aiuto” a ottenere risultati opposti. Ossia, con Gentiloni: “le politiche economiche in Europa devono affrontare le sfide di oggi, nuove rispetto a quelle di un decennio fa. La stabilità rimane un obiettivo chiave ma è altrettanto urgente sostenere la crescita e, in particolare, mobilitare gli investimenti necessari per affrontare il cambiamento climatico”.

Delle due l’una: o la stabilità o la crescita.

Per un quadro più dettagliato dello stato di confusione in cui versano i vertici europei consigliamo la lettura dell’ottimo Guido Salerno Aletta, ancora una volta molto preciso nel suo editoriale su Milano Finanza.

Buona lettura. Altrimenti affidatevi a Repubblica, Corriere e Tg vari. Saprete tutto su Sanremo e i migliori look della cerimonia dell’Oscar, vivendo spensierati nella sala da ballo del Titanic...

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L’euro, nel vaso di Pandora

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

Sono i numeri che inducono alla preoccupazione, ma nessuno sembra curarsene: l’economia italiana viene giù piatta, silenziosamente. L’ultimo trimestre del 2019 ha registrato un calo dello 0,3% congiunturale ed un rotondo zero di variazione tendenziale. Il 2019 si è chiuso a +0,2% mentre il 2020 è iniziato con un trascinamento negativo del -0,2%.

Non siamo praticamente mai usciti dalla crisi: il pil reale del 2019 è stato inferiore ancora di 54 miliardi di euro rispetto a quello del 2008. Il pil reale perduto da allora, se almeno avessimo mantenuto quel livello, ammonta alla astronomica cifra di 952 miliardi di euro.

Nel frattempo il debito pubblico è cresciuto di 686 miliardi di euro, passando dal 102% al 133% del pil, nonostante l’economia reale ne abbia finanziato il pagamento di interessi per 226 miliardi. Ci si indebita solo per finanziare la quota residua di oneri.

Anche il riequilibrio dei conti con l’estero, in attivo strutturale crescente dal 2013, non ha comportato alcun beneficio concreto, perché questo risparmio importato dall’estero non è stato investito nell’economia reale.

Tutta la politica di bilancio di questi anni si arrabatta intorno al disinnesco delle clausole di salvaguardia dell’Iva. Il pareggio strutturale cui si tende, che comporta un completo assorbimento fiscale dell’onere per interessi dell’ordine di almeno tre punti e mezzo di pil, ci porterebbe al collasso definitivo.

Le manovre fiscali che ci vengono imposte, dai Trattati e dai Mercati, sono tanto feroci quanto scioccamente recessive.

Il peggio potrebbe ancora venire. Già a settembre scorso, il rallentamento delle economie mondiali aveva avuto un riflesso negativo sul nostro export: su base annua, le variazioni più rilevanti riguardavano Stati Uniti (-10,5%), Spagna (-10,8%), Germania (-4,5%), Regno Unito (-8,7%) e Cina (-15,5%).

Un certo miglioramento, ma subdolo, è stato registrato sul fronte del lavoro: a dicembre scorso, rispetto ad un anno prima, l’occupazione è cresciuta dello 0,6%, con 136 mila unità in più.

Sono aumentati i lavoratori dipendenti (+207 mila unità), soprattutto permanenti (+162 mila), mentre gli occupati indipendenti sono diminuiti di 71 mila unità. Il numero dei disoccupati è calato di 143 mila unità, e ci sono 115 mila inattivi in meno. Il tasso di disoccupazione è sceso dal 10,4% al 9,8%.

Più occupati, ma con un reddito stagnante, significa che purtroppo i salari sono stati mediamente più bassi.

Anche a guardarsi intorno, viene lo sconforto: l’economia europea è in stagnazione. La decelerazione è desolante: si è passati dal 1,4% di inizio 2019 all’1,2%, per chiudere all’1%.

La Germania ha fatto peggio della media: il 2019 segna una crescita dello 0,6%, rispetto all’1,5% del 2018 ed al 2,5% del 2017. Si è piombato il suo modello, fondato sul surplus strutturale dei conti con l’estero, nonostante anche l’anno scorso sia stato pari al 7% del pil, un record assoluto nel panorama mondiale. Per i soli scambi commerciali, nel periodo gennaio-novembre l’attivo tedesco è stato di 208 miliardi di euro, di cui ben 137 miliardi nei confronti dei Paesi aderenti alla Ue e 78 miliardi verso l’Eurozona.

La Germania continua a vendere senza comprare, ma nonostante ciò rallenta visibilmente. L’effetto recessivo dipende dal bilancio pubblico, che l’anno scorso ha registrato un attivo di 38 miliardi di euro, una cifra pari all’1% del pil. Sono denari, pagati con le tasse, che non vengono rimessi in circolazione nell’economia tedesca. Una follia contagiosa.

Neppure a Bruxelles hanno le idee chiare sul da farsi: intanto, per togliersi dall’impaccio di presentare una proposta, è stata lanciata una consultazione pubblica sulla riforma del Fiscal Compact: l’Italia chiede flessibilità, almeno per gli investimenti, da innumerevoli anni. Ma la risposta è sempre stata la stessa: avete un debito troppo alto e le regole non si cambiano. Occorre capire come finanziare i giganteschi investimenti necessari per evitare i cambiamenti climatici: la scusa va presa al volo.

In realtà, sarebbe il caso di ripensare completamente la politica economica e sociale dell’Unione, prima che vada in frantumi, schiacciata com’è tra la Brexit, il riequilibrio commerciale americano e le tensioni nel Mediterraneo. Problemi della Cina a parte, ovviamente.

L’Italia cresce poco dal 1992, da quando la politica di bilancio ha puntato sul saldo primario attivo per finanziare gli interessi sul debito e questo non è altro che il cumulo degli interessi non finanziati dalle tasse. Più è alto l’attivo primario, meno cresce l’economia: invece di procedere sulla via del risanamento finanziario ci si avvita nella recessione e nella instabilità, perché il rapporto debito/pil è destinato inevitabilmente a peggiorare.

Visto che i tre quarti del debito pubblico è in mani italiane, significa che gli Italiani sono i veri cannibali di sé stessi.

Non è un caso che l’unica economia europea che è continuata a crescere regolarmente, in questi anni, è quella francese, che non ha rispettato né i vincoli di Maastricht né tantomeno quelli del Fiscal Compact, mantenendo il saldo primario del bilancio pubblico costantemente negativo: il deficit ha finanziato l’economia reale oltre a pagare completamente la spesa per interessi. Anche in Francia il rapporto debito/pil è cresciuto percentualmente come in Italia, ma lì il maggior debito pubblico ha finanziato la crescita economica. In Italia siamo sotto i livelli del 2007 ed il deficit finanzia solo se stesso.

Non c’è crescita economica per via della progressiva precarizzazione dei rapporti di lavoro, per una flessibilità che oscura gli orizzonti di vita dei giovani. La Germania ha fatto da battistrada, con le leggi Hartz, costringendo l’intero Continente a seguirla: ha una percentuale di disoccupazione al 3,2%, che nasconde livelli infiniti di miseria collettiva.

Dare la colpa agli anziani accusandoli di rubare il futuro ai giovani è una colossale sciocchezza: nessun sistema previdenziale a ripartizione può sostenersi se i contributi calano per via di retribuzioni sempre più misere e di un livello di disoccupazione tenuto volutamente alto per non alimentare la dinamica salariale. Ed i sistemi a capitalizzazione hanno bisogno di rendimenti positivi sulle obbligazioni: collassano con i rendimenti negativi decisi da una politica monetaria eccezionalmente espansiva, a meno di investire in asset a rischio.

In Italia, la competitività di prezzo delle merci, necessaria per favorire i profitti d’impresa e le esportazioni, ha cinesizzato i segmenti più deboli, le piccole imprese ed i lavoratori autonomi, costringendoli ad accettare condizioni sempre più dure fino al fallimento.

Ed il surplus sull’estero, non reimpiegato in investimenti, privati o pubblici che siano, comporta un impoverimento del tessuto produttivo, spremuto all’inverosimile. Senza innovazione, ma solo limando i salari, in pochi anni si è comunque fuori mercato.

L’obsolescenza tecnologica dell’Europa è terribile, non solo perché ha delegato all’Asia, al pari degli Usa, la produzione di massa della manifattura, degli apparati di telecomunicazione e di elaborazione informatica dei dati, ma in quanto ha rinunciato anche allo sviluppo delle piattaforme software. Dipendiamo da entrambi i competitori, consumiamo tecnologia, non solo sicurezza militare.

Nel settore delle auto elettriche stiamo scimmiottando l’America, che punta su queste solo per abbattere il valore dell’industria automobilistica tradizionale, di cui la Germania è la principale protagonista. Voler vendere auto tedesche a tutti i costi negli Usa, spiazzandone l’industria fino al tracollo, ha portato ad una reazione distruttiva. Il peggio deve arrivare, anche per noi che siamo subfornitori di componenti meccanici. In un’auto elettrica, il cui valore principale risiede nell’elettronica e nel pacco delle batterie, non abbiamo spazio.

Anche il nostro sistema bancario è al paradosso: fa utili spremendo le passività finanziarie, i depositi e le operazioni di pagamento, anziché profittare sull’attivo. Avendo ceduto i clienti, insieme agli Npl, ora non ha più neppure quel mercato. È sempre più una piattaforma tecnologica fungibile, à la carte: non ha clienti ma utenti, come nelle telecomunicazioni. Si cambia il conto in banca come l’abbonamento per lo smartphone, cercando dove i giga costano meno.

Inutile parlare della concorrenza fiscale e del dumping sociale, che in Europa rappresentano il fondamento del mercato interno: interi Paesi vivono di queste asimmetrie, dall’Irlanda al Lussemburgo, dall’Olanda al Belgio. Non parliamo dell’Austria, in cui il segreto bancario ha una tutela costituzionale, che non c’è più neppure in Svizzera.

Siamo un Continente in cui intere produzioni sono state trasferite ad Est, dagli pneumatici per auto all’abbigliamento per risparmiare sul costo del lavoro. È quello il sottoproletariato europeo.

Nella politica economica, in Europa abbiamo ribaltato gli obiettivi rispetto alle condizioni: una volta, i primi erano rappresentati dalla crescita dei redditi e dell’occupazione, e le seconde consistevano nella stabilità della moneta e nel pareggio dei conti con l’estero.

Con il Fiscal Compact si è sancito l’opposto: per assicurare la crescita nella stabilità, si calcolano sia l’output gap, ovvero la differenza tra il pil misurato e quello potenziale idoneo a mantenere la stabilità dei prezzi, che il Nawru, cioè la percentuale di disoccupazione idonea ad evitare una crescita inflazionistica.

L’inversione logica è completa: gli obiettivi sono rappresentati dalla maggiore competitività economica e dall’accumulazione finanziaria sull’estero, che si ottengono riducendo i salari attraverso un alto livello di disoccupazione.

La missione della Fed, come quella di tutte le altre grandi banche centrali, è ben diversa rispetto a quella prevista per la Bce ed applicata alle politiche di bilancio dal Fiscal Compact: massimizza la crescita economica e l’occupazione, a condizione di mantenere stabile la moneta.

Tutto si è fatto, sin dai tempi di Maastricht, per assicurare la stabilità della moneta. Questa è la “monetary dominance” celebrata da Mario Draghi nel suo discorso di commiato dalla Bce: è il fondamento dell’Euro e dell’Europa. E di questo, naturalmente, non si intende affatto discutere.

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