Quando ero studente universitario, prima di diventare un insegnante, ero solito frequentare non le lezioni che mi interessavano di più, ma quelle che mi davano qualcosa in più. A volte provavo a frequentare altri corsi, pur di rinomati studiosi a livello nazionale e internazionale, ma la noia mi coglieva implacabilmente.
Poi ho scoperto che le lezioni migliori erano svolte da persone che erano passate da scuola, cioè che avevano prima insegnato a scuola. E non ero solo io ad accorgermene, ma erano anche molti colleghi universitari. Del resto, un mio caro professore universitario sosteneva che occorresse passare dalla scuola prima di giungere alla cattedra universitaria.
Con questo caso di vita personale non si vuole istituire nessun parallelismo automatico tra la qualità della docenza universitaria e quella scolastica. (Molti docenti sono bravi perché hanno una retorica spiccata esercitata sul lavoro del conferenziere). Si vuole piuttosto sottolineare la qualità (o una qualità) importante del lavoro di insegnamento scolastico: la relazione.
L’insegnamento non è mera predisposizione e organizzazione del sapere da trasmettere (che, va detto, è insostituibile e non va confusa col nozionismo da settimana enigmistica), ma è anche cura dell’apprendimento.
Andrebbe specificato che il lavoro dell’insegnante si svolge (o dovrebbe svolgersi) attraverso tre funzioni:
– la funzione insegnamento propriamente detta: riguarda i contenuti e la loro modalità di organizzazione, elaborazione e infine trasferimento (quindi non è un lavoro passivo, come intende una certa critica alla logica depositaria dell’istruzione);
– la funzione relazionale: la più difficile e spesso pochissimo curata;
– la funzione intellettuale (o politica o pedagogica): questa è quella veramente trascurata, e consiste sulla capacità (e volontà) di interrogarsi sulle finalità dell’insegnamento disciplinare e sul valore sociale della formazione in generale.
Senza voler entrare in una articolata discussione in merito a queste tre funzioni, vorrei però sottolineare che la funzione intellettuale è quella che di fatto è stata espropriata (alienata, si sarebbe detto un tempo) al docente.
Hanno oggi gli insegnanti una visione generale propria della scuola, della formazione, delle sue finalità collettive e politiche? A parte uno sparuto gruppo di insegnanti (magari comunisti, magari semplicemente critici), oggi gli insegnanti condividono la visione neoliberale dell’insegnamento che affida al mercato la definizione di una tale visione, che si riassume in una magica parola: competenza, ossia capacità e disponibilità a risolvere problemi della realtà (ossia della realtà del lavoro nel mondo capitalistico).
Che la nozione di competenza non sia di origine pedagogica, ma derivi dal mondo del lavoro, è poco noto. E questo è già un dato del livello di spoliazione culturale e intellettuale dell’insegnante.
Ma oltre a ciò, va sottolineato che l’orizzonte di senso è dettato dalla linea europea, di quella UE che mirava ad essere la “più grande economia della conoscenza del mondo”. Tutta la storia dell’educazione della modernità, tutta la grande riflessione filosofica, pedagogica (dentro la quale il marxismo ha svolto la sua bella parte), è oggi ridotta a questo gretto e ristretto obiettivo economicistico.
Potrà sembrare un discorso da vecchio umanista, ma è un dato della modernità borghese tutt’ora vigente la distinzione tra pubblico e privato (tra citoyen e bourgeois), tra il formalismo dei diritti civili e le disuguaglianze reali tra gli individui. E dovrebbe essere noto che il prototipo antropologico dell’individuo nel capitalismo è l’homo oeconomicus.
Ecco, la scuola nel capitalismo, massimamente nella sua versione neoliberista, è fondata proprio su questo modello di individuo, la cui razionalità, la cui finalità sta nel raggiungimento del fine privatistico dell’utilità personale. E la società che ne viene fuori è un campo aperto dove atomi si contrappongono e si scontrano gli uni contro gli altri (la metafora non è mia, ma del filosofo francese François Lyotard). Del resto Margaret Thatcher sosteneva che la “società non esiste”, avviando così quella trasformazione neoliberista della politica che avrebbe investito tutto l’occidente capitalistico.
Una visione non economicistica della formazione dovrebbe rinunciare consapevolmente al modello di uomo che sta oggi a fondamento delle contemporanee politiche scolastiche, da cui poi discendono le prassi didattiche e le figure di insegnante necessarie a questo scopo.
Per contro, una scuola che abbia alla base una visione di essere umano completo, e non spezzettato nelle competenze, non ridotto al lato privatistico della sua individualità, al lato cioè borghese, deve immaginare, volere e lottare per una completezza dell’essere umano, cioè deve volere una scuola umanista (e non nel senso di “letterato”, per intenderci).
Ed era proprio questo l’orizzonte entro cui si muoveva la variegata riflessione pedagogica rivoluzionaria, a partire dal pensiero di Marx, fino a Gramsci e oltre. Ma rimane ovvio che volere una scuola di questo genere significa anche volere una società diversa, fuori dall’orizzonte capitalistico e dalla sua antropologia.
Da qui discende l’importanza della funzione relazionale del lavoro dell’insegnamento. Quanto si è detto all’inizio di questa riflessione non può intendersi senza capire che l’insegnamento non è mera trasmissione (ammesso che possa esistere indipendentemente dalla relazione), ma è cura dell’apprendimento, ed essa non può non avvenire in presenza, perché la specificità di ogni singolo studente ha bisogno di essere coltivata, formata e sviluppata in un orizzonte collettivo di relazioni umane e di pensiero.
Non si formano atomi, né lavoratori, ma esseri umani, il cui fondamento non sta in un singolo, ma in quella che veniva chiamata da Marx essenza di genere (traduco così, un po’ impropriamente forse, il concetto di Gattungswesen), cioè l’umanità come prodotto storico dell’autosviluppo degli essere umani associati. Quando si spezzetta l’essere umano in funzioni da lavoro, in competenze, non si fa altro che maciullare l’umanità in potenza a cui può giungere ogni singolo in quanto parte attiva di questo sviluppo collettivo.
L’insegnamento non è l’impartizione di un compito da eseguire, non è la stesura di un algoritmo, proprio perché non si tratta di far eseguire compiti (magari di realtà...), ma di accompagnare gli studenti ad appropriarsi del mondo, della sua storicità, del suo sviluppo, delle sue relazioni contraddittorie e delle sue prospettive generali. Ad appropriarsi della propria umanità (se è chiaro cosa intendiamo con Gattungswesen).
Ora, la didattica a distanza non è solo fredda, per quanto male necessario in questo periodo, ma è proprio inadeguata a questo tipo di scuola. Non si tratta di giudicare il mezzo, ma il fine. E se si pensa che la formazione debba essere una grande piattaforma di tutorial (utili, certo, se voglio imparare, che so, a sostituire una ram in un computer, cioè a impadronirmi di una frazione infinitesimale all’interno di un processo lavorativo più grande), allora la didattica a distanza può essere il suo strumento idoneo.
Ma se la formazione trascende l’appropriazione di porzioni scollegate di procedure, di pratiche, di competenze, e mira a un orizzonte più ampio di formazione e sviluppo umano, allora questo tipo di scuola non va bene. Non è solo la didattica a distanza a dover essere messa in discussione, ma il modello di scuola, di formazione e di essere umano che vi sta alla base a dover essere messo in discussione.
Non sarebbe il momento, vista la crisi che il modello neoliberista di società sta vivendo, di provare a riprendere questa discussione, almeno tra comunisti e quanti vogliono provare a superare questo ordinamento sociale?
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