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04/04/2020

La “cura di sé” al tempo del Coronavirus. Ripartiamo da Foucault (e dagli antichi)

In questi giorni di emergenza dovuta alla diffusione del Coronavirus, l’intera società ha accettato di isolarsi in casa e di sospendere le sue normali condizioni di vita, sottoponendosi volontariamente alle direttive imposte dal governo, senza che ci fossero proteste e opposizioni.

Tutto ciò è dovuto semplicemente al fatto che l’imposizione giunta dall’alto, dal potere, in questo caso, corrisponde con la “cura di sé”. Le direttive del potere, in questa particolare congiuntura, non sono arrivate sotto forma di un’astrazione legata alla semplice privazione della libertà personale come può accadere, ad esempio, in uno stato totalitario o sotto una dittatura. Esse coincidono, bensì, con la salute pubblica, con la cura di sé cui è tenuto ogni cittadino nel rispetto verso se stesso e verso gli altri.

L’obbligo di tenere una certa distanza dalle altre persone, il divieto di assembramenti, la chiusura dei locali pubblici e, di conseguenza, l’impossibilità di incontrare amici, parenti e ogni persona lontana alla quale siamo legati da qualsiasi affetto, non viene fatto passare come l’ordine astratto di uno stato totalitario ma come un obbligo sociale per preservare la vita di tutti. Un obbligo sociale che va a coincidere con la “cura” e la “cultura” di sé di cui parla Michel Foucault nel terzo volume della sua Storia della sessualità. Ora, curiosamente, l’obbligo della “cura di sé” va a coincidere con modalità di coercizione e controllo come la presenza dell’esercito nelle strade, i posti di blocco, i controlli di polizia pervasivi e diffusi. Va a coincidere, sostanzialmente, con una militarizzazione della vita quotidiana e con le stesse pratiche che una ipotetica dittatura potrebbe mettere in atto per limitare la libertà individuale, per evitare possibili rivolte: l’esercito per le strade, il divieto di assembramento ‘sedizioso’, la chiusura di locali pubblici come caffè, ristoranti, bar. Una situazione che ci potrebbe far pensare che stiamo vivendo un clima da ‘carboneria’ e da società segrete; di esempi storici ce ne sono a bizzeffe, dai tempi di Mazzini e della “Giovine Italia” fino a quelli del fascismo.

Adesso, le modalità di coercizione e di controllo stanno però invadendo una sfera privata come quella legata alla “cura di sé”, stanno scavalcando le sovrastrutture esterne del controllo di tipo moderno per introiettarsi nella stessa sfera culturale. Se Marcuse notava che la società industriale avanzata si era diffusa in modo pervasivo fra gli individui, all’interno della loro cultura, producendo una vera e propria “coscienza infelice” e generando quello che egli denomina “uomo a una dimensione”, adesso, è la sfera del controllo che rompe gli schemi tradizionali allargandosi anche alla sfera privata e culturale. Le dinamiche del controllo si sono appropriate della “cultura di sé”. Ciò che era intimo, privato, diventa un affare di stato e allora, se non usciamo di casa, diventiamo quasi difensori della patria.

Il controllo pervasivo del potere si è appropriato quindi di un concetto prevalentemente moderno come “patria”, diffondendo a spron battuto la necessità di coesione nazionale contro il nemico virus, tirando in ballo anche il concetto di “guerra” (“siamo in guerra con il virus”) e quello di “eroe” (i medici e gli operatori sanitari sono “eroi”). Oggi meno che mai c’è bisogno del concetto di “patria”, di chiusura nazionale; c’è bisogno, invece, di solidarietà internazionale e intercontinentale; non c’è bisogno del concetto di “guerra”, che suona come una becera giustificazione di tutte le possibili limitazioni alla libertà personale (in stato di guerra vengono soppressi i diritti dei cittadini e poi ricordiamoci che le guerre le scatenano gli uomini, non i virus); non c’è bisogno, infine, neppure del concetto di “eroe” (come scrive un medico in una lettera aperta ai suoi colleghi, “non permettere a nessuno di chiamarti eroe perché non si trasforma una categoria di professionisti, con i loro diritti e i loro doveri, con le loro famiglie, con esigenze sovrapponibili a quelle di ogni altro lavoratore, in un improbabile esercito di martiri o di missionari”).

Il controllo diffuso, adesso, cerca di convincerci che la cura e la cultura di sé possano coincidere con la presenza dell’esercito e dei controlli di polizia, anche per mezzo dei droni e della tecnologia digitale. Cerca di fare in modo che tali “misure eccezionali” diventino endemiche e pervasive in futuro, che continuino a sussistere per una qualche furba e illogica strategia di potere. Appropriandosi della scienza medica, il potere pretende di dominarci in modo più capillare: non è il potere politico che decide le misure eccezionali – ci viene detto – ma la medicina. Esse sono una diretta conseguenza del responso dei medici e degli scienziati. Se, quindi, Foucault osserva che in epoca moderna, per mezzo della “clinica”, il potere medico si allargava ad altre sfere dell’esistenza, adesso è il potere tout court che, per esercitare il suo controllo, intende appropriarsi della scienza medica. E alla scienza medica, per la nostra salute, non possiamo davvero ribellarci.

Foucault, nel terzo volume della sua Storia della sessualità, intitolato appunto La cura di sé, nota poi che la “cultura di sé”, diffusa nel mondo ellenistico e romano, va a coincidere con l’arte dell’esistenza, la téchne tou bíou (letteralmente, “arte della vita”). Quest’ultima è dominata dal principio in base al quale bisogna “aver cura di se stessi”, principio radicato nella cultura greca fin da tempi molto antichi. Basti pensare che Platone, nell’Apologia di Socrate, presenta la figura di Socrate, di fronte ai suoi giudici, come un maestro della cura di sé: “è la divinità che l’ha mandato per ricordare agli uomini che devono preoccuparsi non già delle loro ricchezze, non già del loro onore, bensì di se stessi e della loro anima”. Quindi, questo tema della cultura di sé consacrato da Socrate è diventato “un principio di portata quasi generale” e “ha impregnato di sé molti modi di vivere” fino a costituire “anche una pratica sociale, dando luogo a rapporti interindividuali, a scambi e comunicazioni e perfino, a volte, a istituzioni; ha promosso, infine, un certo modo di conoscenza e la elaborazione di un sapere”. Successivamente, nella cultura romana, Seneca, nelle Lettere a Lucilio, ricorda che “l’uomo che ha cura del corpo e dell’anima (hominis corpus animumque curantis) e che per mezzo di loro si fabbrica la sua felicità, raggiunge il culmine dei suoi desideri e si trova in uno stato perfetto, in quanto il suo animo non è più agitato e il suo corpo è senza dolore” (Lettere a Lucilio, 66, 45). Del resto, sempre secondo Seneca, alla cura di sé appartiene anche l’otium, il tempo cioè, che viene sottratto al negotium, al lavoro e alla fatica quotidiana, un tempo dedicato a noi stessi, fatto di piacere, di studio, di letture, di svariate attività ludiche. È interessante andare a leggere cosa scrive Foucault riguardo a tale tempo di otium nella cultura antica:

Non si tratta di un tempo morto: esso è popolato di esercizi, di compiti pratici, di attività diverse. Occuparsi di se stessi non è una sinecura. Comprende i trattamenti del corpo, i regimi dietetici, gli esercizi fisici praticati con moderazione e il soddisfacimento sia pure misuratissimo dei bisogni. Vi sono le meditazioni, le letture, gli appunti che si prendono dai libri o dalle conversazioni ascoltate, e che si rileggono in seguito, il ripensamento di verità già note ma che occorre introiettare ancor meglio (M. Foucault, La cura di sé, p. 54).

Quando mai un’arte dell’esistenza, una téchne tou bíou che, ai giorni nostri, diviene cura di sé come autoprotezione dal contagio di un terribile virus, può essere imposta dall’alto manu militari? Un’imposizione che appare, in una società “liquida” e digitalizzata come la nostra, orrendamente moderna e che assomiglia alle modalità di contenimento della peste messe in atto nel XVII secolo e che lo stesso Foucault descrive in Sorvegliare e punire (qui su Codice Rosso: La città appestata di Michel Foucault). Come nota lo studioso francese, lo schema della disciplina d’eccezione, temporanea e transitoria, come la chiusura e il controllo di una città appestata, si è progressivamente trasformata nella disciplina-meccanismo del panoptismo, il controllo diffuso adottato entro le strutture di coercizione (carceri, manicomi, riformatori). Cioè, nel corso della modernità, grazie a una “trasformazione storica”, quei meccanismi temporanei di controllo si sono trasformati in normali e duraturi: “l’estendersi progressivo dei dispositivi disciplinari nel corso dei secoli XVII e XVIII, la loro moltiplicazione attraverso tutto il corpo sociale, la formazione di ciò che potremmo chiamare all’ingrosso la società disciplinare” (M. Foucault, Sorvegliare e punire, p. 228).

Fermo restando che la nostra società non è più quella descritta da Foucault, c’è comunque il rischio che la pervasività del controllo continui anche dopo lo stato di eccezione, anche dopo l’emergenza. Sulle nostre vite – già sottoposte a un pervasivo controllo digitale per mezzo di tanti strumenti cui volontariamente consegniamo le nostre sfere più intime, come i social o i mezzi di comunicazione – il controllo potrebbe quindi farsi più pervasivo ancora, secondo modalità spettrali e inconsistenti (il controllo facciale, lo smart working, l’utilizzo di droni, il tracciamento degli spostamenti per mezzo del cellulare ecc.). La “cura di sé”, come autoprotezione dal virus, dovrebbe perciò configurarsi anche come una autoprotezione dal virus del controllo pervasivo che, grazie ad uno stato di eccezione, rischia di radicarsi nelle nostre vite. Un’autoprotezione che è anche una ferma e decisa resistenza quotidiana la quale dovrebbe rappresentare una resistenza culturale all’onnipresente virus del potere.

Riferimenti bibliografici:

Michel Foucault, La cura di sé. Storia della sessualità 3, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2001.

Id., Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, trad. it. Einaudi, Torino, 1998.

Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. Einaudi, Torino, 1993.

Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, trad. it. Einaudi, Torino, 1967.

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