Si è conclusa tra il 27 ed il 28 maggio
scorsi la Doppia Sessione, principale appuntamento politico annuale in
Cina, che prevede il quasi contemporaneo svolgimento della Conferenza
Politico-Consultiva del Popolo, massimo organo consultivo del Paese, e
dell'Assemblea Nazionale del Popolo, massimo organo legislativo
nazionale.
Le indicazioni e le
decisioni che i due consessi erano chiamati a proporre e mettere nero su
bianco, soprattutto l'Assemblea, vero e proprio Parlamento nel sistema
politico del Paese asiatico, erano molto attese dagli osservatori di
tutto il mondo, in particolare per comprendere i provvedimenti che la
Cina avrebbe messo in campo per il rilancio dell'economia in questa
difficile fase di ripresa e per conoscere le soluzioni alla crisi di
Hong Kong, dopo le violente proteste dello scorso anno e i tentativi di
replicarle anche in questo primo semestre, già denso di difficoltà a
causa dell'emergenza sanitaria.
Nel
pieno della pandemia e delle polemiche tra Pechino e Washington, dopo le
accuse di inizio maggio da parte di Donald Trump e Mike Pompeo, che
avevano imputato alla Cina e all'OMS di aver nascosto rischi e
dimensioni dell'epidemia scoppiata tra dicembre e gennaio nella città di
Wuhan, il primo ministro Li Keqiang, nella conferenza stampa di
chiusura del 28 maggio, pur in assenza di una previsione precisa sul PIL
per quest'anno (incertezza che aveva fatto agitare i mercati nei primi
giorni della Doppia Sessione), ha spiegato che la Cina «sta assumendo
misure calibrate per rafforzare la crescita», dicendosi «fiducioso sul
raggiungimento degli obiettivi di sviluppo». Insomma, anche in questo
durissimo 2020, ci si attende un numero col segno positivo, sebbene
piuttosto distante dal range indicato cinque anni fa per la fase di "nuova normalità" (6-6,5%) e comunque inferiore al 6,1% del 2019.
«Sforzi
maggiori» sono stati menzionati anche per la stabilizzazione del
mercato del lavoro, venendo incontro ai settori maggiormente colpiti
dalle restrizioni dovute all'emergenza Covid-19, anzitutto commercio e
turismo. Pechino non si è limitata ad iniettare, attraverso la sua banca
centrale (PBoC), liquidità sui mercati finanziari, come fatto a metà
febbraio con 300 miliardi di yuan tra finanziamenti a un anno ed
operazioni di pronti contro termine, o a tagliare il tasso sui prestiti a
medio termine a un anno dal 3,25% al 3,15%. Il governo ha messo in
campo anche una serie di misure fiscali, sulla scia della più vasta
riforma strutturale dell'offerta avviata nel 2015, mirate a ridurre la
tassazione per le micro, piccole e medie imprese, in particolare quelle
innovative.
L'obiettivo dichiarato da
Li Keqiang per quest'anno è quello di provare a raggiungere una media
di 10.000 nuove «entità di mercato» (aziende, esercizi ecc. ...)
registrate al giorno. Un traguardo che apparirebbe mastodontico per
qualsiasi altro Paese, ma che in Cina, viste le dimensioni, risulta
assolutamente possibile, sebbene ambizioso in questa congiuntura. Basti
pensare che nel triennio 2014-2016, in media, nel Paese asiatico erano
sorte ogni giorno 12.000 nuove imprese, mentre il dato aveva addirittura
superato quota 15.000 nel primo quadrimestre del 2017.
In
ogni caso, la prospettiva di medio termine resta quella al 2021,
centenario della fondazione del Partito Comunista Cinese, anno in cui è
fissato il primo grande traguardo della Cina di Xi Jinping: il
raggiungimento di una moderata prosperità generalizzata, ovvero lo Xiaokang,
per utilizzare il termine confuciano già recuperato in chiave moderna
da Deng Xiaoping nel 1979. Si tratta di un passaggio fondamentale nel
lungo percorso di sviluppo cominciato all'alba degli anni Ottanta con
l'attuazione della politica di riforma e apertura, che dovrà aprire la
strada ad ulteriori riforme sino al 2049, centenario della fondazione
della Repubblica Popolare, nel quadro della cosiddetta Nuova Era.
Un
articolo del presidente cinese, previsto in pubblicazione nelle
prossime ore all'interno dell'11° numero della rivista bimestrale Qiushi,
mette in luce proprio la costruzione di una società moderatamente
prospera in tutti i suoi aspetti, a partire dall'attenzione che la leadership,
sin dal 18° Congresso del PCC (2012), ha dedicato all'aspirazione della
popolazione ad una migliore qualità della vita, come anticipato oggi da
Xinhua. L'agenzia stampa cinese, riassumendo il testo di Xi, sottolinea
che «in generale, la Cina ha già fondamentalmente raggiunto
l'obiettivo» e che «i risultati hanno persino superato le aspettative».
Permangono ancora «alcune aree di fragilità [...] che devono essere
consolidate con sforzi adeguati». Richiamando il paradigma di sviluppo
del Paese nella Nuova Era, incentrato sul primato della qualità
(esistenziale, manifatturiera, ambientale ecc. ...), l'articolo di Xi
ribadisce che «i criteri per una società moderatamente prospera in tutti
i suoi aspetti dovrebbero includere non solo indicatori quantitativi ma
anche un'attenta valutazione degli attuali standard di vita e del senso
di soddisfazione della popolazione».
Imprescindibile
dallo sviluppo economico e sociale c'è la questione della
riunificazione nazionale, che richiama le crisi di Hong Kong e Taiwan. Un Paese, due sistemi
è l'emblematico modello pensato da Deng Xiaoping negli anni Ottanta sia
per Hong Kong, restituita da Londra nel 1997, che per Macao, ex colonia
portoghese, restituita alla Cina nel 1999, ma anche per Taiwan. Con
l'isola, ancora "ribelle", è in atto un dialogo per la riunificazione
sin dal 1992, specie con il Kuomintang e alcune forze della coalizione
pan-blu, oggi però interrotto dalla governatrice Tsai Ing-wen, leader
del Partito Democratico Progressista e della coalizione pan-verde di cui
è a capo.
In generale si tratta di
ferite ancora sanguinanti, residui di squarci aperti nel corpo
martoriato del Celeste Impero tra il XIX e il XX secolo, quando la Cina
fu dapprima aggredita dalle potenze coloniali europee, che costrinsero
l'ormai indebolita Dinasta Qing a firmare numerosi trattati di
spoliazione territoriale, definiti "ineguali" e mai accettati dai
cinesi, come ad esempio quello di Nanchino (1842), la Convenzione di
Pechino (1860) e la Convenzione per l'Estensione Territoriale (1898),
che assegnarono, in tre diverse fasi, all'Impero Britannico l'isola di
Hong Kong, la Penisola di Kowloon e tutti i territori insulari e
peninsulari circostanti, i cosiddetti Nuovi Territori, pari all'86%
della superficie dell'attuale regione amministrativa speciale di Hong
Kong.
Nei decenni successivi la Cina
fu poi invasa, più volte, dal Giappone imperiale, che occupò anche la
stessa Taiwan per cinquant'anni (1895-1945). Poco dopo la fine della
Seconda Guerra Mondiale, il Paese fu colpito anche dagli Stati Uniti
che, alleati del Kuomintang di Chiang Kai-shek, mobilitarono le loro
forze per impedire che le milizie di Mao Zedong e Zhu De avessero la
meglio nell'ultimo atto di un'estenuante guerra civile protrattasi, a
più fasi, sin dal 1927. Sforzi vani, guardando agli esiti della storia,
ma non del tutto, considerando il sostegno politico e militare che
ancora oggi - nonostante il diritto internazionale sancisca dal 1971 il
principio di Una sola Cina - Washington garantisce a Taiwan,
perpetuando la sopravvivenza di quello che è, a tutti gli effetti, un
suo protettorato a poche miglia dalle coste della Cina continentale.
Con
la legge sulla sicurezza nazionale approvata la scorsa settimana
dall'Assemblea, Pechino mette dunque un punto sulla questione di Hong
Kong, alla luce degli incidenti, delle violenze e dei disordini che per
mesi hanno messo a repentaglio la stabilità sociale, la legalità e
l'incolumità fisica dei cittadini, non di rado aggrediti dai
manifestanti più violenti solo per aver espresso idee ed opinioni
diverse. Hanno fatto il resto le richieste di sostegno delle frange più
estremiste, munite persino di bandiere americane e britanniche, al
governo degli Stati Uniti e la risposta di Donald Trump, con la firma,
nel novembre scorso, del cosiddetto Hong Kong Human Rights and Democracy Act, un'ingerenza ovviamente intollerabile per Pechino.
Oggi,
alla luce dell'approvazione di questa criticata legge, lo stesso Trump
ed il suo segretario di Stato Mike Pompeo dicono di ritenere tramontato
lo status speciale di Hong Kong, confondendo evidentemente il concetto
di autonomia con quello di indipendenza. Premesso che quella attuale è
una programmata fase di transizione cinquantennale (1997-2047) e non uno
status eterno, il modello Un Paese, due sistemi - viene da sé - non potrà mai trasformarsi in un fantomatico modello Due Paesi, due sistemi. Questione di sovranità, più che di "sovranismo".
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento