Per la terza volta ci ha colpito l’analisi di Maurizio Novelli, del fondo di investimento svizzero Lemanik, che con grande disinvoltura elenca problemi del capitalismo attuale senza troppi giri di parole né rassicurazioni consolanti per i non addetti ai lavori.
Il titolo, anche stavolta su Milano Finanza, è decisamente “acchiappesco”: Perché è il momento di vendere Usa allo scoperto.
Le “vendite allo scoperto” sono una tecnica di mercato finanziario con cui si vendono titoli (azioni, bond statuali o aziendali, prodotti derivati, ecc.) che non si possiedono. Come si fa? Ce li si fa “prestare” a termine prefissato, con la garanzia di restituirli al prezzo che avranno a quella scadenza.
Di fatto, una volta avuti li si vende massicciamente al prezzo di oggi, quindi si provoca un’offerta esagerata di quei titoli sul mercato, dunque un abbassamento drastico del loro prezzo in modo da restituirli avendoci guadagnato la differenza tra il prezzo attuale e quello futuro abbassato scientemente.
Speculazione pura, certo, ma dagli effetti molto reali.
Ma perché un finanziere svizzero (di lingua italiana) è pronto a speculare su titoli statunitensi di ogni tipo manco fossero i CCT italiani ai tempi della lira?
È qui l’interesse dell’analisi: gli Stati Uniti, i loro mercati finanziari e la loro economia “nazionalistica”, sono alla frutta. Stanno in piedi solo per l’iperattività della Federal Reserve che però, stampando moneta, non può far altro che sostenere i mercati finanziari (Wall Street), mentre l’economia reale (Main Street), travolta disastrosamente dallo scoppio della pandemia quando era già sotto pesante stress, annaspa per una lunga seri di ragioni strutturali.
Fino a tirare una conclusione che nessuno pensava possibile fino a qualche mese fa:
“Quello che sembra ormai evidente è che, se il mondo cerca delle soluzioni per uscire dalla profonda crisi economica scatenata dalla pandemia, non dovrà guardare all’America né tantomeno al QE delle Banche Centrali ma alla Cina e all’Europa, mercati dove al momento tutti sembrano decisamente sottopesati, ma che sono le uniche aree dell’economia mondiale da dove possono avviarsi veri cambiamenti strutturali, ormai inevitabili, che hanno la potenzialità di cambiare veramente le prospettive negative nelle quali siamo attualmente avvolti.”
Al di là delle formule specialistiche (“mercati sottopesati”, ossia con valutazioni di borsa inferiori al valore reale o comunque fin qui poco considerati dagli “investitori”), è quasi un de profundis per la capacità egemonica Usa addirittura sul piano finanziario. Dove avevano avuto fin qui imitatori (Londra, Francoforte, Hong Kong, Shanghai, Tokyo), ma non competitori.
Le stilettate – o le informazioni – che fornisce Novelli sono numerose. Intanto i dati macroeconomici che stanno girando “non sono per niente affidabili, perché tutta l’economia mondiale ha subito una distruzione profonda sia nella produzione che nei consumi e per circa due/tre mesi i dati economici non sono stati neppure rilevati a causa della chiusura degli uffici governativi di statistica”.
I ragionamenti fatti dagli “esperti” di Sole24Ore, Repubblica, Corriere, ecc, sono insomma costruiti sulla fantasia. Al massimo su “stime”, che presto dovranno essere drasticamente riviste sulla base di dati veri.
Altri due handicap formidabili per gli yankee sono il continuo aumento dei contagi (che minaccia seriamente la possibilità stessa di una “ripresa”) e le imminenti elezioni.
Sul primo punto c’è poco da aggiungere, visto che si va avanti a colpi di record sopra i 40.000 al giorno. Sul secondo, invece, è interessante la sottolineatura per cui, pur essendo Joe Biden un vecchio trombone dell’establishment assolutamente vicino a Wall Street, la sue mosse – subito dopo la probabile vittoria di novembre, quindi dalla fine di gennaio in poi – saranno fortemente condizionate dalla “sinistra del partito”, a sua volta condizionata dai possenti movimenti di massa che vanno assumendo numeri e contorni davvero inattesi. E “preoccupanti”, per un finanziere svizzero...
Insomma, crisi economica strutturale, mercati finanziari “sopravvalutati” e coesione sociale saltata costituiscono un mix irrisolvibile da una leadership politica incapace (Trump) o paralizzata da interessi e veti incrociati (Biden).
Il risultato che interessa l’investitore professionale è chiaro: “Si accentua dunque lo scontro frontale tra Wall Street e Main Street e credo che le possibilità che la finanza possa continuare a beneficiare di una protezione impropria a scapito dell’economia reale siano ormai molto basse.”
Ma se gli Usa non sono più in grado continuare a “proteggere i propri mercati finanziari” (per quanto ciò sia improprio secondo le regole basiche del capitalismo neoliberista), allora gli investitori debono andarsene di lì e cercare “occasioni più allettanti”.
In un mondo ormai quasi compiutamente “tripolare” sono Cina ed Unione Europea i possibili campi di atterraggio dei capitali volatili.
Interessante, anche qui le motivazioni concrete, al di là delle retoriche liberali.
La Cina ha un vantaggio competitivo impagabile, in una fase di grandi sconvolgimenti del vecchio ordine capitalistico: “la capacità di creare nuova domanda per consumi e investimenti in un potenziale mercato di oltre 3 miliardi di consumatori.”
Non solo “moneta a volontà”, ma domanda – ossia acquirenti dotati di salari e redditi sufficienti a soddisfare bisogni non solo “vitali”, ma ad ampio spettro – e investimenti nella produzione di nuova ricchezza (non solo in Borsa, insomma).
L’Unione Europea è a metà del guado. Quella che c’è stata finora – ingessata nell’austerity ordoliberista di matrice tedesca – non avrebbe alcun interesse. La continua deflazione salariale, il sacrificio della ricerca scientifica per “tagliare le spese”, il modello export oriented, l’inesistenza di politiche economiche, industriali, fiscali e finanziarie comuni (moneta unica e vincoli di bilancio non bastano anzi sono una pietra al collo) ne fanno da tempo la tomba della domanda globale. Se aumentano le disuguaglianze – tra Paesi e fasce di popolazione – i consumi qui cadranno ancora.
Se invece dovesse prender forma concreta il nuovo “progetto franco-tedesco”, allora si aprirebbe uno spiraglio da cui far entrare un po’ di capitali. Ma le “riforme da fare” – a Bruxelles, prima che negli Stati membri – sono davvero radicali.
“A questo punto si aprono le trattative politiche per rendere fattibile il progetto d’intervento e, nonostante ci vorrà del tempo, non ci saranno alternative, dato che sia l’Olanda sia la Finlandia sono i più grandi beneficiari in termini di PIL della partecipazione all’euro.
È certamente probabile che il progetto richiederà una perdita della sovranità di politica economica nella gestione delle risorse erogate ai singoli Paesi, ma è comunque inevitabile che chi chiede risorse (anche a fondo perduto) deve rinunciare a qualcosa, pena l’aumento dello spread o peggio il rischio di default.
Se passa il piano Merkel-Macron l’euro entra nella fase 2, è cioè la fase che i mercati chiedevano da tempo:
1) l’emissione di debito Ue (Eurobonds), 2) maggiore integrazione fiscale, 3) irreversibilità dell’euro.”
Ecco qui le ragioni della “svolta” tedesca in materia di “condivisione del debito”, anche se in modo molto parziale, ultra-condizionato e di dimensioni probabilmente insufficienti ad affrontare la gravità della crisi.
Niente piagnucolii sulla “solidarietà”, sull’”aiutare i Paesi in difficoltà” e scemenze politiche buona per i talk show. L’architettura attuale della Ue non regge. Soprattutto non è rispondente agli interessi dei grandi investitori in fuga (o che stanno per andarsene) dagli Usa.
Gli olandesi, gli austriaci e gli altri “ultrarigoristi” che non contano un picchio dovranno farsene una ragione.
Qual è il nostro interesse di fronte ad un’analisi del genere? Se la crisi è sempre un’occasione da sfruttare – come illustra generosamente Novelli – non è il caso di restare a guardare. Rimboccarsi le maniche, trascurare gli imbecilli che berciano, e muovere un conflitto sociale intelligente, informato, consapevole delle forze in campo e degli obbiettivi che si vogliono raggiungere.
Buona lettura.
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Perché è il momento di vendere Usa allo scoperto
Le difficoltà dell’economia reale rimangono appese tra i rischi derivanti da un continuo aumento dei contagi negli Stati Uniti, che mette a rischio il recupero, e le ormai imminenti elezioni. I dati macro forniti non sono per niente affidabili. E da Cina ed Europa arrivano importanti novità.
di Maurizio Novelli – Milano Finanza
Mentre i mercati finanziari hanno già effettuato la cosiddetta “V – Shape Recovery”, le difficoltà dell’economia reale rimangono appese tra i rischi derivanti da un continuo aumento dei contagi negli Stati Uniti, che mette a rischio il recupero, e le ormai imminenti elezioni USA di novembre.
I dati macro che vengono forniti non sono per niente affidabili , perché tutta l’economia mondiale ha subito una distruzione profonda sia nella produzione che nei consumi e per circa due/tre mesi i dati economici non sono stati neppure rilevati a causa della chiusura degli uffici governativi di statistica. Quindi, mentre tutti cercano di sottolineare la positività nei rimbalzi degli indicatori recentemente pubblicati, forse pochi sanno che questi dati non sono stati neppure rilevati e sono stati semplicemente stimati.
Le difficoltà oggettive di poter avere a disposizione dei dati macro abbastanza precisi per i prossimi mesi sono già evidenti a tutti gli economisti e quindi sappiamo che quanto viene pubblicato ora sarà sottoposto a pesanti revisioni ed è quindi poco significativo per capire cosa succede veramente in questi mesi.
Sebbene sia certo che l’economia mondiale abbia interrotto la contrazione, non è chiaro di quale entità sia il recupero attualmente in corso. È quindi importante concentrare l’attenzione sui probabili scenari economici che potremmo fronteggiare dopo le elezioni in America che, allo stato attuale, sembrano profilare un cambio di amministrazione con possibili ripercussioni sulla politica economica degli Stati Uniti.
Non si può trascurare il fatto che una vittoria dei Democratici alle prossime elezioni USA produrrà un importante spostamento a sinistra come mai prima è avvenuto nella storia dell’America, con evidenti ripercussioni su Dollaro e mercati finanziari.
Sebbene Joe Biden sia il candidato ufficiale, non si può certo ignorare che Bernie Sanders e Elizabeth Warren esprimono delle correnti di pensiero all’interno del dibattito politico del Partito Democratico che spostano decisamente a sinistra la campagna elettorale.
In questo momento Wall Street è quindi impegnata in una colossale campagna di marketing per sostenere Trump a tutti i costi e tutte le previsioni macroeconomiche delle case d’investimento americane hanno subìto nelle ultime settimane un improvviso (e poco credibile) cambiamento.
Infatti in poche settimane siamo passati da previsioni di lento e fragile recupero economico a prospettive particolarmente euforiche di un recupero completo del danno subito dal Covid entro fine anno, recupero che francamente sembra alquanto improbabile.
Tutto questo contrasta in modo eclatante con le previsioni di IMF e Banca Mondiale ma anche della stessa FED, scenari che continuano ad evidenziare percorsi di recupero lenti e difficoltosi e che si complicano per il fatto che la gestione dei contagi in America è decisamente scappata di mano.
Se Trump perde le elezioni si profila all’orizzonte una cancellazione dei benefici fiscali per le società quotate, un aumento dell’imposta sui capital gain e un maggiore intervento dello Stato nell’economia.
Si accentua dunque lo scontro frontale tra Wall Street e Main Street e credo che le possibilità che la finanza possa continuare a beneficiare di una protezione impropria a scapito dell’economia reale siano ormai molto basse.
Molti esponenti repubblicani stanno abbandonando Trump e le rivolte di piazza negli Stati Uniti preannunciano il cambiamento in arrivo. Nel frattempo le case di investimento Usa preannunciano ai mercati lo scenario della pronta ripresa economica per indurre gli investitori a rimanere investiti in un sistema che dovrà fronteggiare l’impatto di una crisi economica che inizia solo adesso e che sarà particolarmente difficile da superare.
Come già detto in precedenti note mensili, la parte più facile (stampare moneta) è già finita e ora inizia la fase del deleverage e dei default, con tutte le ripercussioni del caso sulla tanto attesa V- Shape Recovery, che al momento rimane un miraggio già prezzato dai mercati e dalla macchina speculativa di Wall Street.
Occorre inoltre considerare che per il momento ci troviamo in una situazione di stand by per i default sul credito al consumo, sui derivati garantiti da mutui, asset o crediti commerciali (MBS, ABS e CMBS). Al momento infatti tutto questo debito beneficia di una sospensione dei pagamenti delle rate per tre mesi e molti analisti si chiedono cosa accadrà quando tale periodo sospensivo giungerà a scadenza, dato che nel frattempo la disoccupazione è salita al 15%-17%.
Ma le recenti frenate del mercato azionario USA sembrano preannunciare il rischio di un cambio di governance piuttosto che il timore di una nuova impennata dei casi da Covid (che comunque rimangono un freno alla ripresa). In ogni caso sembra ormai evidente che gli Stati Uniti appaiono totalmente allo sbando, con una totale mancanza di gestione della pandemia, un’economia in crisi e le elezioni alle porte.
Tutte le speranze del Paese sembrano appese all’indice Dow Jones ma è proprio questo eccesso di finanza nel sistema che ha reso tutto più fragile e molto più difficile da gestire: puoi salvare l’indice di borsa ma l’economia reale non ne avrà benefici.
Si preannuncia ormai strutturale l’ipotesi di una disoccupazione al 20% per almeno due/tre anni e con un’economia impegnata a ridurre l’eccesso di debito accumulato nel settore privato (corporate e consumatori), che sarà dunque sottoposto ad un lungo deleverage alla ricerca di un punto di equilibrio più sostenibile.
La Cina si prepara a gestire il decoupling dall’economia americana (“disaccoppiamento”, ossia riduzione delle correlazioni tra i due sistemi, NdR) e ad abbandonare il dollaro al suo destino. Il progetto cinese di creare un area di libero scambio in Asia (Comprehensive Agreement for Trans-Pacific Partnership e il Regional Economic Parnership) apre la strada ad un ridimensionamento degli Stati Uniti sui mercati asiatici.
Già oggi l’interscambio commerciale dell’Asia con la Cina è pari al 47% di tutti gli scambi commerciali tra questi paesi e anche il Giappone ne farà parte. Il fatto che il Giappone voglia partecipare a questo accordo pone seri dubbi sulla tenuta del dollaro come divisa di scambio in quest’area, dato che i cinesi imporranno l’utilizzo del renmimbi per tutti gli scambi commerciali con la Cina.
Il Giappone ha già ora il 40% circa del suo export verso la Cina ed è il paese che ha più riserve di dollari al mondo. Il progetto citato si trova già in una fase molto avanzata e riguarda un’area di oltre 3 miliardi di persone e mette la Cina al centro di tale mercato, che in prospettiva, diventerà la più importante area di libero scambio del mondo (si veda il working paper: East Asia decouples from the United States, Peterson Institute for International Economics – Petri/Plummer. June 2020).
Per completare il progetto, occorre considerare che la Cina ha già iniziato a ridisegnare la propria politica economica per spostare la crescita più sui consumi interni che sull’export. D’altronde, la guerra commerciale in corso con gli Stati Uniti aveva già determinato un cambio di indirizzo e difficilmente lo scontro tra Usa e Cina potrà recedere con il cambio di amministrazione.
Si delinea quindi uno scenario di medio periodo molto interessante per le opportunità d’investimento globali e per l’economia mondiale, che era ormai totalmente ripiegata su un modello americano non più sostenibile e eccessivamente dipendente dalla leva finanziaria.
Mentre tutti si scannano per comprare un mercato ormai sostenuto solo dalla FED, dall’altra parte del mondo si aprono spazi di manovra che non dipendono solo da quanto QE fanno le Banche Centrali, ma dalla capacità di creare nuova domanda per consumi e investimenti in un potenziale mercato di oltre 3 miliardi di consumatori.
Altro punto piuttosto interessante e che, anche in questo caso, è attualmente poco considerato dagli investitori è il piano Merkel-Macron per una nuova fase di integrazione UE. L’annuncio del piano, accompagnato da un nuovo intervento di acquisto della BCE sul mercato dei titoli di stato dell’area euro, manda un segnale molto forte a tutti coloro che ritengono tale progetto irrealizzabile.
Innanzitutto occorre sottolineare che la BCE non aveva un motivo per raddoppiare gli interventi di QE nel momento in cui aveva appena iniziato a fare quelli deliberati il mese precedente. Il segnale è di natura politica e manda un avvertimento forte a tutti coloro che credono alla reversibilità dell’euro (compresa la Corte Costituzionale Tedesca). Francia e Germania sono determinati a salvare i Paesi periferici e per la prima volta si schierano contro i loro alleati storici: Olanda e Finlandia in testa. È la prima volta che accade e non dovrebbe essere sottovalutato.
A questo punto si aprono le trattative politiche per rendere fattibile il progetto d’intervento e, nonostante ci vorrà del tempo, non ci saranno alternative, dato che sia l’Olanda sia la Finlandia sono i più grandi beneficiari in termini di PIL della partecipazione all’euro.
È certamente probabile che il progetto richiederà una perdita della sovranità di politica economica nella gestione delle risorse erogate ai singoli Paesi, ma è comunque inevitabile che chi chiede risorse (anche a fondo perduto) deve rinunciare a qualcosa, pena l’aumento dello spread o peggio il rischio di default.
Se passa il piano Merkel-Macron l’euro entra nella fase 2, è cioè la fase che i mercati chiedevano da tempo:
1) l’emissione di debito Ue (Eurobonds);
2) maggiore integrazione fiscale;
3) irreversibilità dell’euro.
Mentre il consenso si concentra solo sui QE delle Banche Centrali, che ben poco possono fare per la crescita dell’economia, il mondo si prepara ad uno strutturale cambiamento che non depone a favore degli asset americani (dove peraltro tutti sono long).
Se i due progetti in corso, il Trans-Pacific Partnership e l’emissione di Eurobonds, dovessero andare in porto, ci saranno i seguenti impatti strutturali:
1) spostamento del baricentro della domanda globale dagli USA all'Asia;
2) ridimensionamento del ruolo del dollaro e aumento del ruolo del renminbi in Asia;
3) aumento dei flussi di capitale d’investimento verso le economie e i mercati emergenti;
4) l’emissione degli eurobonds aumenterebbe il flusso di capitali verso l’eurozona e produrrebbe ulteriore debolezza del dollaro;
5) Asia ed Eurozona diventano una credibile alternativa ai mercati finanziari USA (peraltro sopravvalutati) in un mondo tripolare.
Puntando su questi inevitabili trend strutturali, l’allocazione del Global Strategy Fund di Lemanik si posiziona già strategicamente al ribasso sul dollaro vs uro (- 25%), al ribasso sui listini USA (-18%), in particolare Russell 2000 e SPX, e al rialzo su emerging market Equity (+ 6%). Al momento l’esposizione netta sui mercati azionari è comunque allo scoperto -15%. Le attuali posizioni long su EM sono destinate a salire al 15%-20% in prospettiva futura, sfruttando eventuali debolezze, mentre i momenti di forza degli indici USA vengono utilizzati per incrementare gli short su Russell e SPX.
Il futuro riassetto degli equilibri valutari mondiali e lo spostamento del baricentro di domanda in Asia possono creare incertezza sulla divisa di riserva mondiale e continuare a spingere al rialzo dell’Oro, dove siamo sempre long 15% e con target a fine anno verso l’area 2000 dollari all’oncia.
Le nostre posizioni al rialzo sui US Treasuries a 10/30 anni sono al momento al 15%, ma è ovvio che l’ipotesi di cedimento del dollaro pone le basi per un potenziale ritorno dell’inflazione negli Stati Uniti e quindi intendiamo progressivamente ridurre le posizioni su questa asset class prima delle elezioni USA.
Sebbene la FED sarà attiva nell’impedire qualsiasi rialzo dei tassi sulla parte lunga della curva US, riteniamo che le opportunità di investimento in un mercato nazionalizzato si siano ormai esaurite dopo il forte movimento al rialzo dei bonds governativi in Europa e negli Stati Uniti e anche in questi mercati si delinea uno scenario molto simile a quello dei titoli di stato giapponesi.
Quello che sembra ormai evidente è che, se il mondo cerca delle soluzioni per uscire dalla profonda crisi economica scatenata dalla pandemia, non dovrà guardare all’America né tantomeno al QE delle Banche Centrali ma alla Cina e all’Europa, mercati dove al momento tutti sembrano decisamente sottopesati, ma che sono le uniche aree dell’economia mondiale da dove possono avviarsi veri cambiamenti strutturali, ormai inevitabili, che hanno la potenzialità di cambiare veramente le prospettive negative nelle quali siamo attualmente avvolti.
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