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10/07/2020

Parlare ai nostri!

Mentre la carica virale sembra progressivamente scemare – prova il verticale crollo dei contagi fuori da ogni ragionevole dubbio – quella padronale sembra seguire una traiettoria inversamente proporzionale. Anche se a pagarne le conseguenze rimangono sempre “i soliti”, la straordinarietà della crisi del Coronavirus è stata proprio nell’aver colpito trasversalmente, almeno in un primo momento, l’intera società. Accanendosi economicamente sui ceti popolari, aveva comunque aggredito politicamente chi in quel momento teneva le redini del gioco: padronato, nell’accezione più ampia del termine, in primo luogo. La tipica situazione in cui, aldilà di tutti i limiti soggettivi, il repentino mutamento delle condizione oggettive apre nuovi e inediti margini di movimento. Purtroppo, come sappiamo, questi margini non sono stati così ampi, almeno per la sinistra di classe. La sostanziale mancanza di reattività di questa stessa sinistra ha determinato infatti la momentanea assenza, non diciamo di conflitto, ma di resistenza attiva (aldilà di singole e importanti, ma non incisive, vertenze) ai tentativi di Governo e Confindustria di gestire la crisi a loro favore.

Adesso, passati più di quattro mesi, assieme alla parola crisi si è dissolto anche lo stordimento del padronato e delle gerarchie europee. La prospettiva con cui bisogna misurarsi è dunque quella di una ripresa sostanziale delle politiche anti-popolari in questo paese con una classe dirigente in fase di ricomposizione e difficilmente toccata dai “movimenti di piazza” del populismo salviniano, o dalle macchiettistiche ipotesi reazionarie apparse in questi mesi.

Le tante vertenze che abbiamo visto nascere o ravvivarsi da mesi di assopimento – i lavoratori della sanità, i lavoratori della scuola, i lavoratori dello spettacolo per fare solo alcuni esempi – sono senz’altro un segnale positivo, di vitalità. Eppure sembrano destinati a rimanere isole vertenziali private di ogni possibilità di stringere legami e tessere la necessaria relazione con il resto della classe, del nostro blocco sociale. Sono insomma privi del crisma della generalizzazione. Oggi più che mai è necessario invece che ogni riflesso che questa crisi inedita segna sul corpo del nostro blocco sociale non sia lasciato cadere nel vuoto o maturare nell’isolamento vertenziale privo di sbocchi politici, e venga invece colto per il dato concreto, immediatamente generalizzabile, che contiene.

Casa, salute, scuola, lavoro in tutte le loro declinazioni sono contraddizioni che devono essere rese concrete agli occhi del pezzo di classe con cui, da troppo tempo, non riusciamo più a dialogare. La cronica necessità di nuovi stabili ad uso abitativo e di un nuovo piano di edilizia pubblica; la necessaria e ormai ineludibile assunzione di nuovo personale della scuola e personale docente in vista di una riapertura – avverrà mai? – che sembra impossibile senza un piano d’investimenti nella scuola; la disastrosa mancanza d’investimenti nel settore della sanità e l’artificiosa crisi di bilancio del SSN; il cronico aumento della disoccupazione, la cassa integrazione “fantasma” che da mesi tormenta i lavoratori e le centinaia di vertenze operaie in giro per il paese sono il campo di intervento per tutti coloro i quali non pensano che un altro autunno possa passare sotto il segno della pace sociale. Ma il tutto ad una condizione: che il massimo sforzo profuso in ognuna di queste contraddizioni sia speso in direzione della immediata generalizzazione di quelle vertenze, che diventi immediatamente una contraddizione politica.

Per tornare a parlare a quei pezzi di classe frammentata, a quei settori che da troppo tempo sono rimasti abbandonati e privi di sbocchi politici conflittuali insomma, per tornare a parlare ai nostri è necessario individuare vertenze concrete e reali che sostengano il battesimo del fuoco della possibile generalizzazione, che siano dunque effettivamente delle lotte di classe. Questa fase di stallo che trova il padronato intento a riorganizzare la controffensiva mentre le singole lotte, sebbene in fase di riattivazione, condannate all’auto(in)sufficienza della vertenzialità va spezzata. Soprattutto se si tiene un occhio rivolto all’autunno.

Per usare un’efficace metafora sismologica, infatti, dopo la “scossa” di febbraio del coronavirus ci troviamo in quella fase di sospensione in cui tutti i processi che subiranno una riattivazione – a patto che si verifichi il terzo momento – sono in fase di “accensione” lenta: la fase che precede l’arrivo dell’onda vera e propria in fenomeni come i maremoti. L’onda, neanche a dirlo, è la crisi economica che si prevede per l’anno a venire.

I dati delle previsioni, nella loro straordinarietà, per una volta parlano chiaro: la Commissione europea, nelle ultime stime aggiornate sulla probabile flessione del PIL nazionale ha parlato di un crollo dell’11,2% per il 2020, che risalirà al 6,1% per il 2021. E ancora – dato non secondario – l’Italia si attesterebbe come fanalino di coda nella crisi, e poi nella ripartenza: la Spagna dovrebbe perdere, infatti, il 10,9% mentre la Francia il 10,6%. Insomma, se le previsioni pessimistiche di chi dovrebbe essere ottimista dipingono un quadro a tinte così fosche, ci sono gli estremi per cominciare a guardare all’autunno non come a quello che verosimilmente non sarà, ovvero l’ormai mitico “autunno caldo”, ma almeno come alla fase in cui i processi di lotta che si sono accesi con la crisi pandemica giungano a maturazione e si generalizzino. Occorre fungere da agente coagulante di tutte quelle singole vertenze e delle varie lotte passibili di generalizzazione con l’obiettivo di innescare un processo in grado di generare mobilitazione e lotte di classe in cui agire: quel terreno senza il quale qualsiasi ipotesi organizzativa, ma anche di lotta politica conflittuale, non può che appassire.

In caso contrario nessuna fatalistica attesa della crisi economica ci salverà dalla marginalità politica e la fase a venire sarà l’ennesima conferma che al crollo delle condizioni materiali non corrisponde l’impennata di quelle politiche ma l’esatto contrario: la pace sociale.

La difficoltà, ovviamente, è nel declinare questo quadro nella concretezza dell’agire nella metropoli. Fare questo a Roma, ad esempio, la capitale politica e il centro del potere governativo vuole dire certamente guadagnare visibilità alle lotte e farlo in modo conflittuale, con l’unico strumento, laddove si presenti l’occasione, che garantisce un’accelerazione politica. Ma vuole dire anche, sopra ogni altra valutazione possibile, tornare a parlare a quel pezzo di proletariato che vive ai margini della metropoli e che è parte integrante del nostro blocco sociale di riferimento. Bisogna tener presente che per poter tornare a parlare ai nostri, nelle grandi metropoli come nella fabbrica, bisogna essere in grado di mescolare accuratamente la questione di classe con una questione sociale di più ampie proporzioni. Riportare nella contraddittoria società periferica dei contenuti politici, dunque generalizzabili, che parlino a quel pezzo di proletariato incattivito dalle sempre più difficili condizioni di vita e orfano di una qualsiasi ipotesi di rivalsa che parta dalle esigenze quotidiane e materiali. Costruire l’ipotesi di un Fronte unico che vada oltre l’autosufficienza per troppo tempo perseguita da certa sinistra e in direzione di un’unità sostanziale delle lotte vuole dire anche questo. Un secondo passo, dopo la giornata nazionale del 6 giungo, che partirà domani da Primavalle, un quartiere simbolo di questa metropoli.

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