Mentre la carica virale sembra progressivamente scemare – prova il
verticale crollo dei contagi fuori da ogni ragionevole dubbio – quella
padronale sembra seguire una traiettoria inversamente proporzionale.
Anche se a pagarne le conseguenze rimangono sempre “i soliti”, la
straordinarietà della crisi del Coronavirus è stata proprio nell’aver
colpito trasversalmente, almeno in un primo momento, l’intera società.
Accanendosi economicamente sui ceti popolari, aveva comunque aggredito
politicamente chi in quel momento teneva le redini del gioco: padronato,
nell’accezione più ampia del termine, in primo luogo. La tipica
situazione in cui, aldilà di tutti i limiti soggettivi, il repentino
mutamento delle condizione oggettive apre nuovi e inediti margini di
movimento. Purtroppo, come sappiamo, questi margini non sono stati così
ampi, almeno per la sinistra di classe. La sostanziale mancanza di
reattività di questa stessa sinistra ha determinato infatti la
momentanea assenza, non diciamo di conflitto, ma di resistenza attiva
(aldilà di singole e importanti, ma non incisive, vertenze) ai tentativi
di Governo e Confindustria di gestire la crisi a loro favore.
Adesso, passati più di quattro mesi, assieme alla parola crisi si è
dissolto anche lo stordimento del padronato e delle gerarchie europee.
La prospettiva con cui bisogna misurarsi è dunque quella di una ripresa
sostanziale delle politiche anti-popolari in questo paese con una classe
dirigente in fase di ricomposizione e difficilmente toccata dai
“movimenti di piazza” del populismo salviniano, o dalle macchiettistiche
ipotesi reazionarie apparse in questi mesi.
Le tante vertenze che abbiamo visto nascere o ravvivarsi da mesi di
assopimento – i lavoratori della sanità, i lavoratori della scuola, i
lavoratori dello spettacolo per fare solo alcuni esempi – sono
senz’altro un segnale positivo, di vitalità. Eppure sembrano destinati a
rimanere isole vertenziali private di ogni possibilità di stringere
legami e tessere la necessaria relazione con il resto della classe, del
nostro blocco sociale. Sono insomma privi del crisma della generalizzazione.
Oggi più che mai è necessario invece che ogni riflesso che questa crisi
inedita segna sul corpo del nostro blocco sociale non sia lasciato
cadere nel vuoto o maturare nell’isolamento vertenziale privo di sbocchi
politici, e venga invece colto per il dato concreto, immediatamente
generalizzabile, che contiene.
Casa, salute, scuola, lavoro in tutte le loro declinazioni sono
contraddizioni che devono essere rese concrete agli occhi del pezzo di
classe con cui, da troppo tempo, non riusciamo più a dialogare. La
cronica necessità di nuovi stabili ad uso abitativo e di un nuovo piano
di edilizia pubblica; la necessaria e ormai ineludibile assunzione di
nuovo personale della scuola e personale docente in vista di una
riapertura – avverrà mai? – che sembra impossibile senza un piano
d’investimenti nella scuola; la disastrosa mancanza d’investimenti nel
settore della sanità e l’artificiosa crisi di bilancio del SSN; il
cronico aumento della disoccupazione, la cassa integrazione “fantasma”
che da mesi tormenta i lavoratori e le centinaia di vertenze operaie in
giro per il paese sono il campo di intervento per tutti coloro i quali
non pensano che un altro autunno possa passare sotto il segno della pace
sociale. Ma il tutto ad una condizione: che il massimo sforzo profuso
in ognuna di queste contraddizioni sia speso in direzione della
immediata generalizzazione di quelle vertenze, che diventi
immediatamente una contraddizione politica.
Per tornare a parlare a quei pezzi di classe frammentata, a quei
settori che da troppo tempo sono rimasti abbandonati e privi di sbocchi
politici conflittuali insomma, per tornare a parlare ai nostri è
necessario individuare vertenze concrete e reali che sostengano il
battesimo del fuoco della possibile generalizzazione, che siano dunque
effettivamente delle lotte di classe. Questa fase di stallo che trova il
padronato intento a riorganizzare la controffensiva mentre le singole
lotte, sebbene in fase di riattivazione, condannate
all’auto(in)sufficienza della vertenzialità va spezzata. Soprattutto se
si tiene un occhio rivolto all’autunno.
Per usare un’efficace metafora sismologica, infatti, dopo la “scossa”
di febbraio del coronavirus ci troviamo in quella fase di sospensione
in cui tutti i processi che subiranno una riattivazione – a patto che si
verifichi il terzo momento – sono in fase di “accensione” lenta: la
fase che precede l’arrivo dell’onda vera e propria in fenomeni come i
maremoti. L’onda, neanche a dirlo, è la crisi economica che si prevede
per l’anno a venire.
I dati delle previsioni, nella loro straordinarietà, per una volta
parlano chiaro: la Commissione europea, nelle ultime stime aggiornate
sulla probabile flessione del PIL nazionale ha parlato di un crollo
dell’11,2% per il 2020, che risalirà al 6,1% per il 2021. E ancora –
dato non secondario – l’Italia si attesterebbe come fanalino di coda
nella crisi, e poi nella ripartenza: la Spagna dovrebbe perdere,
infatti, il 10,9% mentre la Francia il 10,6%. Insomma, se le previsioni
pessimistiche di chi dovrebbe essere ottimista dipingono un quadro a
tinte così fosche, ci sono gli estremi per cominciare a guardare
all’autunno non come a quello che verosimilmente non sarà, ovvero
l’ormai mitico “autunno caldo”, ma almeno come alla fase in cui i
processi di lotta che si sono accesi con la crisi pandemica giungano a
maturazione e si generalizzino. Occorre fungere da agente coagulante di
tutte quelle singole vertenze e delle varie lotte passibili di
generalizzazione con l’obiettivo di innescare un processo in grado di
generare mobilitazione e lotte di classe in cui agire: quel terreno
senza il quale qualsiasi ipotesi organizzativa, ma anche di lotta
politica conflittuale, non può che appassire.
In caso contrario nessuna fatalistica attesa della crisi economica ci
salverà dalla marginalità politica e la fase a venire sarà l’ennesima
conferma che al crollo delle condizioni materiali non corrisponde
l’impennata di quelle politiche ma l’esatto contrario: la pace sociale.
La difficoltà, ovviamente, è nel declinare questo quadro nella
concretezza dell’agire nella metropoli. Fare questo a Roma, ad esempio,
la capitale politica e il centro del potere governativo vuole dire
certamente guadagnare visibilità alle lotte e farlo in modo
conflittuale, con l’unico strumento, laddove si presenti l’occasione,
che garantisce un’accelerazione politica. Ma vuole dire anche, sopra
ogni altra valutazione possibile, tornare a parlare a quel pezzo di
proletariato che vive ai margini della metropoli e che è parte
integrante del nostro blocco sociale di riferimento. Bisogna tener
presente che per poter tornare a parlare ai nostri, nelle
grandi metropoli come nella fabbrica, bisogna essere in grado di
mescolare accuratamente la questione di classe con una questione sociale
di più ampie proporzioni. Riportare nella contraddittoria società
periferica dei contenuti politici, dunque generalizzabili, che parlino a
quel pezzo di proletariato incattivito dalle sempre più difficili
condizioni di vita e orfano di una qualsiasi ipotesi di rivalsa che
parta dalle esigenze quotidiane e materiali. Costruire l’ipotesi di un
Fronte unico che vada oltre l’autosufficienza per troppo tempo
perseguita da certa sinistra e in direzione di un’unità sostanziale
delle lotte vuole dire anche questo. Un secondo passo, dopo la giornata
nazionale del 6 giungo, che partirà domani da Primavalle, un quartiere
simbolo di questa metropoli.
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