Come era prevedibile, ieri il premier tunisino Elyes Fakhfakh
ha rassegnato le dimissioni dopo che il partito islamista Ennahdha
ha ritirato il sostegno al governo. In un comunicato Fakhfakh, in carica
come primo ministro dallo scorso 20 febbraio, ha detto che ha
presentato le sue dimissioni al presidente Kais Saied “in modo da
trovare una via d’uscita alla crisi e impedire peggiori difficoltà al
Paese”. Il comunicato dell’ormai ex premier giungeva ieri a
distanza di poche ore dalla mozione di sfiducia contro di lui presentata
da Ennahdha per un presunto caso di conflitto d’interesse. Lo
scorso mese un parlamentare indipendente aveva infatti pubblicato
alcuni documenti che dimostravano come il premier avesse azioni nelle
compagnie che avevano vinto appalti pubblici dal valore di 15 milioni.
La magistratura ha aperto immediatamente una indagine a riguardo e il
ministro dell’anti-corruzione ha istituito un comitato di controllo per
indagare meglio la questione. Salito sul banco degli imputati,
Fakhfakh ha sempre negato qualunque reato, affermando che aveva già
venduto le azioni che aveva nelle compagnie. L’ingegnere classe
1972, ex manager di Total ed esponente del partito di centro-sinistra
Ettakatol, aveva quindi promesso che si sarebbe ritirato qualora gli
inquirenti avessero trovato prove della sua colpevolezza. Ma non c’è
stato bisogno di aspettare la conclusione delle indagini: il suo destino
aveva già da giorni le ore contate.
La tensione è altissima nel Paese lacerato da una forte crisi economica aggravata dagli effetti della pandemia di Coronavirus.
Secondo alcune fonti tunisine, sarebbe stato proprio il capo dello
stato Saied a chiedere formalmente a Fakhfakh di fare un passo indietro
per il presunto conflitto d’interesse. Nella giornata di ieri Ennahda –
insieme al partito Qalb Tunis e altri deputati indipendenti – aveva
depositato in parlamento la mozione per sfiduciare il premier e per fare
un nuovo nome alla guida del prossimo governo. Mossa che però non ha
avuto il successo sperato dato che non ha raggiunto per 4 voti la
maggioranza necessaria per essere implementata. Il problema è
che allo stato attuale nessuno schieramento politico sembra avere i
numeri necessari per governare e pertanto, secondo la Costituzione
tunisina, spetta al capo dello Stato di intervenire per evitare un
pericoloso vuoto politico in un momento cruciale per il paese.
Da un lato, infatti, c’è la crisi economica scatenata dalla
pandemia di Covid-19 che porterà a una durissima recessione di 6 o 7
punti percentuali del Prodotto interno lordo (in autunno
potrebbero esserci 200 mila disoccupati in più) acuendo un disagio
socio-economico che sta già avendo gravi ripercussioni a livello securitario,
con lo schiera l’Esercito nelle regioni meridionali
per sedare i disordini. Dall’altro lato, c’è il conflitto
libico che destabilizza anche la Tunisia oggetto di ingerenze
esterne sempre più manifeste.
Da giorni Ennahda stava esercitando pressioni sul governo di
Fakhfakh. Secondo alcuni commentatori gli obiettivi del partito
islamista erano almeno tre: avere una maggiore presenza all’interno del
governo, ottenendo più posizioni degli attuali 9 ministri su 32;
ottenere denaro e risarcimenti per le vittime dei regimi di Habib
Bourguiba e Zine el Abidine Ben Ali; indebolire il premier Fakhfakh e al
tempo stesso rafforzarsi.
Se il primo ministro dimissionario è stato sempre in una posizione di debolezza, non se la passa meglio Ennahda.
La formazione ha voluto imporre il negoziato per avere una posizione
più forte nelle consultazioni che dovrebbero portare alla scelta di un
nuovo capo di governo. Un atteggiamento che, scrivono alcuni media
locali, non sarebbe piaciuto al presidente della Repubblica Saied che
avrebbe accusato la formazione di Ghannushi di essere una setta e di
complottare ai danni del Paese per i suoi interessi. La Tunisia è di fronte ad un impasse politico perché nessuna partito ha i numeri per ottenere la maggioranza. Il fronte anti-Ennahda guidato da Abir Moussi, presidente del Partito destouriano libero,
ha raccolto 73 firme per avviare la destituzione di Ghannouchi dalla
presidenza del parlamento, ma non ha i 109 voti necessari per portare a
termine il processo.
In questa situazione sarà determinante il ruolo del capo
dello Stato tunisino, in cima alla classifica nelle intenzioni di voto
alle elezioni presidenziali della Tunisia, stando a quanto rivela un
sondaggio di opinione condotto dall’ufficio di ricerca Sigma Conseil e
pubblicato dal quotidiano “Al Maghreb”. L’attuale presidente
della Repubblica ha ottenuto il 58,7 per cento delle preferenze degli
intervistati. Nettamente distanziata al secondo posto Abir Moussi, del
Partito destouriano libero, con il 10 per cento, seguita dal leader del
partito Qalb Tounes, ex candidato presidenziale (sconfitto al
ballottaggio da Saied) e magnate dei media Nabil Karoui con l’8,4 per
cento.
Ma il dato da sottolineare è proprio l’exploit del Partito
destouriano libero che, secondo lo stesso sondaggio, vincerebbe le
elezioni legislative con il 29 per cento dei voti. Un sostegno crescente
che ha un significato politico importante: i destouriani sono infatti i
“benalisti”, ovvero coloro che non nascondono affatto nostalgie per il
regime di Ben Ali. Un regime che è stato abbattuto con le
proteste del 2011 che hanno dato l’inizio alle “rivolte” nel mondo
arabo. Un dato che è ancora più inquietante se si pensa che l’esperienza
tunisina, rispetto a quella degli altri paesi arabi interessati dalle
cosiddette “primavere arabe”, è stata l’unica “successo”.
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