L’annuncio poteva sembrare quasi un sussulto di vita, un colpo di coda verso un nuovo orizzonte di lotta, il rientro del conflitto nella gestione del rapporto di lavoro da parte dei maggiori sindacati confederali del paese.
«Se non si allunga il blocco dei licenziamenti, sarà sciopero generale», avevano tuonato i segretari di Cgil, Cisl e Uil, quasi in una reminescenza di cosa significhi fare davvero sindacato, ossia organizzare i lavoratori e le lavoratrici per la conquista di diritti e benefici economici (e non per la sottomissione ai voleri dei padroni).
Diritti e benefici che devono essere spuntati nei confronti dei “datori di lavoro” (sarebbe più corretto scrivere “di salario”), tanto più vero quanto più grande è l’impresa, i quali a differenza della vulgata imposta dai mezzi di comunicazione hanno interessi opposti a quelli dei lavoratori. Dunque, ogni ipotesi di concertazione – che è cosa ben diversa dalla negoziazione – è un tradimento degli interessi della parte del Lavoro.
Ma la spada dello sciopero ha volteggiato sulla testa del governo per qualche giorno appena, salvo poi rientrare prontamente nel fodero alla prima briciola lanciata dall’esecutivo con il Decreto agosto. Un “bluff” in piena regola, perché la manovra messa in campo dal “Conte bis” è l’ennesima di un percorso decennale che ha piegato qualsiasi figura sociale del paese ai piedi di Confindustria.
I sindacati non hanno neanche raggiunto l’obiettivo minimo, e unico, a cui aspiravano, ossia prorogare il blocco dei licenziamenti fino al termine del 2020. Il pressing di Bonomi invece ha convinto il governo a sforbiciare la proroga di quasi sette settimane, fissandola al 16 novembre, asciugando inoltre la platea a quelle imprese che ancora beneficeranno della Cassa integrazione.
Le reazioni dei confederali? Le misure «sicuramente vanno nella direzione da noi rivendicata» la Cgil, «passo avanti sui licenziamenti» la Cisl, «non è passata la logica del licenziamento libero» la Uil. Asfaltati e pure contenti, rientrato (si fa per dire) lo sciopero, che assume allora il valore infimo di una parola lanciata a caso per tenere una facciata di conflittualità verso i propri iscritti.
Non può sorprendere allora che il numero degli stessi è in caduta libera da anni a questa parte (che forse una regolamentazione certa sulla rappresentanza non convenga più neanche a loro?), sicuramente a causa di una struttura produttiva che rende meno semplice organizzare i lavoratori parcellizzati in mille mansioni, ma soprattutto perché se questa è la linea organizzativa, meglio farsi i fatti propri (reazione regressiva) o far crescere un percorso indipendente con le rappresentanze di base (reazione progressiva).
Per non svelare il trucco, Landini, Furlan e Bombardini rilanciano per la data del 18 settembre, una “mobilitazione” per una riforma fiscale all’insegna della progressività, per il rinnovo dei Ccnl, per uno straordinario piano di assunzioni e di investimenti.
Tuttavia questa lista della spesa non è compatibile con quanto i segretari stessi hanno firmato almeno nell’ultimo decennio assieme alle associazioni padronali, come il sostegno all’“Europa” del ricatto del debito (quella che non ti permette di fare investimenti o il rientro del pubblico dell’economia) e dell’austerità (che salassi i salari), la decentralizzazione contrattuale (che subordina la funzione dei Ccnl) o l’abbassamento del costo del lavoro (che è in contraddizione con la progressività fiscale).
Mentono sapendo di mentire. È stato così anche sul “bluff” dello sciopero generale.
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