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Lunedì 10 agosto il governo libanese si è dimesso a fine giornata, sei giorni dopo l’esplosione che ha devastato il porto ed il centro di Beirut ed al terzo giorno consecutivo di proteste popolari.
L’esecutivo uscente con a capo Hassan Diab era in carica da gennaio dopo le dimissioni di Saad Hariri lo scorso ottobre che erano state provocate da inedite mobilitazioni popolari per la storia recente del Libano.
Lo scorso sabato il premier nel tardo pomeriggio aveva promesso che lunedì avrebbe chiesto “elezioni anticipate”, chiarendo che sarebbe potuto rimanere in carica “per due mesi” cioè il tempo necessario affinché le forze politiche si fossero accordate per tale fine.
Ma l’effetto domino delle dimissioni “a catena” di vari ministri, la pressione popolare e le non poche interferenze straniere hanno spinto per la scelta delle dimissioni “in toto”, aprendo una fase di “vuoto politico” in una situazione sull’orlo della bancarotta economica e con classe dirigente delegittimata.
Per comprendere la situazione che si sta sviluppando nel “Paese dei Cedri” è indispensabile capire come questa sia diretta conseguenza di un modello di sviluppo al capolinea, di un sistema politico che ha portato il Libano ad essere uno “Stato Fallito”, con il concorso dell’Occidente così come delle petrol-monarchie del Golfo.
Il sistema politico di stampo confessionale sostanzialmente tuttora vigente sorto dopo la Seconda Guerra mondiale sulle ceneri del colonialismo francese, è stato costruito più in una logica di spartizione di potere tra notabili delle comunità principali, piuttosto che sulla necessità di dare rappresentanza a tutte le componenti della popolazione del complesso mosaico etnico-confessionale libanese.
Questa configurazione politico-istituzionale è giunta fino a noi, ma la sua intrinseca fragilità – in soldoni legata ad una divisione tripartita del potere tra le oligarchie cristiano-maronite, la borghesia sunnita, e la fascia alta della componente sciita – non ha mai retto alle tempeste della Storia degli ultimi 70 anni.
Il Libano è un Paese che ha conosciuto una sanguinosa guerra civile durata più di 15 anni, un mai terminato conflitto contro Israele, un scontro fratricida come “la guerra nei campi” tra formazioni della resistenza palestinese, ed una crisi come quella siriana che l’ha pesantemente condizionato.
Il corso parzialmente differente che sembrava potesse prendere il Libano dopo la vittoriosa resistenza al tentativo di invasione israeliana nel luglio del 2006 è stato infatti ben presto affossato dalle impellenti necessità belliche contro la marea montante dello “jihadismo” che ne circondava i confini – al picco della crisi siriana – e rendeva alcune zone transfrontaliere oggetto delle incursioni e dei taglia-gole provenienti dalla Siria.
Il contrasto di questa situazione ha impegnato non poche energie, nel mentre giungevano nel Paese circa un milione di profughi siriani.
L’UE e tutta la comunità internazionale chiudeva un occhio sul loro trattamento, e silenziava ogni critica al Paese, per contenere quel flusso di profughi che lei stessa aveva contribuito a creare con il tentativo di destabilizzazione della Siria.
I circa trent’anni che hanno caratterizzato la storia economica libanese dalla fine della guerra civile sono stati la quint’essenza del ciclo economico neo-liberista per quei Paesi della “periferia subordinata” ai differenti poli imperialisti del Sistema-mondo.
Gli esecutori locali più importanti di queste politiche sono stati Hariri padre e figlio, entrambi esponenti della borghesia sunnita legata ai sauditi, o Riad Salamé per 27 anni a capo della Banca del Libano.
Lo sviluppo immobiliare turistico e di lusso, insieme alla speculazione finanziaria legati ai flussi di capitale dall’estero – sia dagli investitori internazionali che dalle rimesse degli immigrati – sono stati i settori di punta del “miracolo libanese”.
Questo “sviluppo di ricchezza fittizia” si è svolto nella totale assenza di investimenti industriali, energetici ed infrastrutturali, che ha portato alla dipendenza dalle importazioni dall’estero praticamente su tutto.
Il maggiore fattore d’attrazione sono stati i tassi d’interesse garantiti agli investitori, molti più alti della media, una politica fiscale regressiva che non colpiva le grandi ricchezze ed una stabilità monetaria dovuta all’agganciamento della Lira libanese al Dollaro dal 1997, nonostante l’intrinseca debolezza della propria economia. Ultimo tassello di questo quadro una parte della classe lavoratrice, nel settore delle costruzioni, agricoltura e servizi era ridotta ad uno stato semi-schiavistico.
L’assenza di un vero e proprio “Stato Sociale” trans-confessionale e la gestione di un settore pubblico solo in funzione clientelare hanno reso ancora più fragile il “sistema Paese”.
Di questo sistema si sono agevolate le élite e una ristretta classe media – ora di fatto scomparsa – che si è illusa di potere mantenere livelli di consumo ed uno stile di vita “all’occidentale”.
La componenti storicamente “ai margini”, come quella palestinese – che vive nei campi profughi ed è esclusa dai più elementari diritti – ed i siriani giunti o “stabilizzatisi” in Libano (storica mano d’opera stagionale nel settore agricolo e edilizio), così come gli immigrati che lavoravano nei servizi, non ne ha tratto giovamento.
Lo Stato è diventato un “rentier” per agevolare le operazioni di speculazione immobiliare – come nel centro di Beirut – La Banca Centrale ha giocato a fare l’allibratore.
Il meccanismo, al netto di tutte le contraddizioni, ha retto fino al 2011 per poi incrinarsi, e l’economia è entrata in stagnazione nel 2017, da lì in poi la discesa verso il precipizio con i flussi di denaro dall’estero che sono velocemente diminuiti grippando definitivamente il motore dell’economia basata su una ricchezza fittizia, una borghesia parassitaria e “compradora”, ed un ceto politico strutturalmente corrotto.
Saltata la mediazione “clientelare” che aveva garantito un minimo di ridistribuzione sociale, dall’autunno scorso è venuta meno anche la pace sociale.
Con una crisi economica sistemica, il Libano si è trovato ad essere l’anello più debole di una catena di interessi internazionali che i suoi governanti hanno favorito. La pandemia ha accelerato tutto questo e la recente esplosione gli ha dato il colpo di grazia. I “Padrini” del Paese che l’avevano scaricato, ora vogliono imporre le propie condizioni da strozzini per le tanto auspicate “riforme strutturali”: una cura più letale della malattia.
La svalutazione della Lira libanese, l’iper-inflazione, la drastica riduzione della possibilità finanziaria, la scarsezza di materie prime sono state le conseguenze che si sono abbattute sulla sua popolazione polverizzando la classe media e abbassando le condizioni di vita dei più: metà dei libanesi vivono ora sotto la soglia di povertà.
Questa situazione non può che portare ad un trattamento “alla Greca” da parte della comunità internazionale, o alla rottura con un modello di sviluppo ed il conseguente abbozzo di un alternativa di “sganciamento” da quelli che sono stati fino qui i tutori del Paese dei Cedri.
L’Unione Europea – attraverso la Francia – cerca di “giocare d’anticipo” rispetto a ciò che sta divenendo sempre più un suo competitor: gli Stati Uniti.
Allo stesso tempo l’Unione vuole anticipare gli effetti della partnership strategica sino-iraniana destinata ad avere ricadute a cascata su tutta la regione rafforzando l’asse della resistenza della “mezzaluna sciita” tra cui Hizbullah. Una parte dell’esecutivo “sotto-traccia” stava lavorando proprio ad un maggiore relazione con la Cina e le varie istituzioni finanziarie ad essa legate, incontrando un certo nervosismo dei diplomatici statunitensi ed una certa apprensione da parte Francese.
Allo stesso tempo l’UE deve contrastare la politica “neo-ottomana” della Turchia che estende la sua area di interessi dal Maghreb al Corno d’Africa fino alle coste del Mediterraneo orientale e che entra sempre più in frizione con quella che un tempo sembrava essere il suo “naturale” approdo: l’UE.
Il “Grande Gioco” del neo-colonialismo dell’Unione Europea è ampio e difende i suoi interessi vitali dal Sahel in Africa a quella che era la sua storica area d’influenza in “Medio Oriente” contro avversari agguerriti ed è disposta a tutto per acquisire posizioni e non perdere punti di forza.
Il Libano è uno dei tasselli fondamentali di questo gioco, forse la prima tappa di una “nuova guerra fredda” a più sfidanti che prende forma sullo sfondo dell’acuirsi dello scontro tra differenti poli sulle ceneri dell’egemonia nord-americana in “Medio Oriente”.
Le aspirazioni dell’Unione Europea trovano una possibilità di realizzazione attraverso il ri-ancoraggio della Francia alla comunità cristiano-maronita francofila come testa di ponte per imporre di fatto un suo nuovo “mandato” nel Paese dei Cedri.
La repentina visita di Macron in Libano dopo le esplosioni, e la co-presidenza della video-conferenza internazionale insieme all’ONU la scorsa domenica – a cui l’Iran tra l’altro non ha partecipato – ci raccontano di questo nuovo protagonismo e della voglia di rinsaldare un legame storico che una parte della comunità cristiano-maronita vede come una sorta di ripristino dell’“età dell’oro”.
Allo stesso tempo l’esplosione di martedì è una “occasione” imprevista per imporre al Paese le ricette da tempo auspicate da parte delle istituzioni finanziarie internazionali in cambio di aiuti e mettere ancora più in ginocchio il Libano, dopo che la visita del ministro degli esteri francese Jean-Yves Drian il 23 luglio scorso aveva avuto gli stessi obiettivi.
Si tratta di ristabilire in Libano una nuova gerarchia tra le oligarchie che hanno governato dopo la guerra civile, magari ridimensionando, senza estrometterlo, il ruolo di quella “borghesia sunnita”, giocando la carta di una mai dismessa politica settaria e clientelare su cui si strutturava il suo punto di forza nel periodo coloniale. Questa perpetuazione della strategia del “divide et impera” viene fatta a discapito di tutte le altre comunità del mosaico etnico-confessionale libanese, ed è un gioco tremendamente pericoloso nella polveriera libanese che ha conosciuto una sanguinosa guerra civile.
Allo stesso tempo si vuole depotenziare le forza della Resistenza – in primis Hizbullah, il Partito Comunista Libanese e le forze palestinesi – obiettivo su cui convergono anche USA, Israele e monarchie del golfo.
Da sabato sono iniziate le legittime proteste di piazza che qualche “apprendista stregone” potrebbe sfruttare come da copione in tutte le “rivoluzioni colorate” per imporre la propria agenda.
Il Libano vive una crisi a più livelli dagli esiti quanto più incerti, in cui una rottura dei vecchi equilibri potrebbe portare a soluzioni molto differenti.
È l’ennesimo esempio di come l’attuale sistema di sviluppo e la classe politica che l’ha sostenuto non garantiscono nulla alle classi subalterne se non il caos, sfruttabile per imporre condizioni di esistenza ancora peggiori ed un definitivo svuotamento della sovranità popolare, magari travestendola da “democratizzazione”.
Da tempo sosteniamo che nella fase crepuscolare del capitalismo, “l’alba” euro-afro-mediterranea possa essere una prospettiva in grado di tutelare la sovranità popolare nei singoli paesi e sviluppare una cooperazione fruttuosa tra i popoli, al posto di un sistema politico dove vecchie e nuove potenze coloniali affondano il proprio “tallone di ferro” e giocano al “caos costruttivo” sulle spalle dei popoli e delle classi subalterne del Continente.
Rete dei Comunisti, 11/10/2020
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