Una ricerca scientifica dal titolo
‘Gli effetti dei programmi del Fondo Monetario Internazionale sulla
disuguaglianza’ ha recentemente confermato ciò che abbiamo sempre
sospettato: i Paesi in cui il Fondo mette il cucchiaio, finiscono per essere più disuguali.
Proviamo in questo contributo a capire meglio di cosa stiamo parlando
proponendo un’analisi delle logiche di intervento del Fondo Monetario
Internazionale (FMI), con particolare riferimento alle ingerenze nei
Paesi in via di sviluppo. Come vedremo, non si tratta di misure che
differiscono sensibilmente dalle ricette di politica economica imposte
ai Paesi più avanzati da altre strutture sovranazionali.
Il Fondo Monetario è un organismo di
carattere istituzionale il cui compito principale, ad oggi, è quello di
concedere prestiti agli Stati che si trovano di fronte ad una impellente
necessità di liquidità, o che abbisognano di una ristrutturazione del
debito estero. Fin dalla sua nascita, il FMI ha operato in più di 130
Paesi. La principale caratteristica dei prestiti forniti dal FMI è che
non avvengono incondizionatamente. Un Paese che riceve un prestito dal
FMI deve sottoscrivere un cosiddetto Piano di aggiustamento strutturale,
un documento attraverso cui si impegna a mettere pesantemente mano alle
proprie politiche macroeconomiche. Tali interventi si concentrano, da
un lato, su aspetti regolamentari, e riguardano la liberalizzazione di
alcuni comparti dell’economia, la flessibilizzazione del mercato del
lavoro e l’apertura ai mercati finanziari internazionali; dall’altro, il
Paese si impegna ad adottare misure volte a modificare i saldi di
bilancio del settore pubblico e del settore estero. In merito alle
finanze pubbliche, i piani del FMI prevedono la riduzione del deficit
pubblico (fino al raggiungimento del pareggio di bilancio), attraverso
l’aumento delle tasse, la privatizzazione di imprese a partecipazione
statale, i tagli alla spesa sociale e alle pensioni: in altri termini,
si tratta di misure di austerità fiscale. Per ciò che concerne i conti
esteri, l’FMI promuove l’aggiustamento degli squilibri commerciali
attraverso la flessibilizzazione del tasso di cambio, elemento che
dovrebbe ridurre il deficit estero favorendo l’export e riducendo
l’import. Per i Paesi in via di sviluppo che sono caratterizzati da un
importante disavanzo commerciale, flessibilizzare il cambio comporta
un’inevitabile svalutazione della moneta nazionale. Al riguardo, la
maggior parte della letteratura economica concorda sul fatto che il FMI
faccia principalmente gli interessi dei creditori piuttosto che dei debitori,
ed è per questo che le politiche di aggiustamento, combinate alla
liberalizzazione finanziaria, rappresentano una vera e propria scelta di
campo: riducendo la domanda interna attraverso la compressione dei
salari e della spesa pubblica, si riduce il reddito di quel Paese e si
frenano le importazioni. Minori importazioni significano maggiore
possibilità di ottenere un surplus commerciale, e di utilizzare i
relativi introiti per ripagare il debito contratto in valuta estera.
Nel complesso, gli interventi richiesti dal FMI possono tradursi in vere e proprie sciagure economiche e sociali. La riduzione del deficit pubblico comporta una minore crescita economica,
una riduzione dell’occupazione e un aumento della povertà e delle
disuguaglianze. Si tratta di un quadro analogo a quanto sta accadendo
nell’Unione Europea con le politiche di austerità.
Una situazione diversa si registra, tuttavia, per quanto riguarda il
tasso di cambio: nei Paesi meno sviluppati, un deprezzamento della
moneta si traduce generalmente in una riduzione del potere d’acquisto
dei salari, ossia in una perdita di benessere per i lavoratori e per le
classi meno abbienti. Detto in altre parole, nei Paesi in via di
sviluppo, caratterizzati da una struttura produttiva più limitata di
quella dei Paesi avanzati, politiche di riduzione del deficit estero
attraverso la svalutazione della moneta comportano, generalmente, un
aumento delle disuguaglianze. Inoltre, qualora tra le prescrizioni del
FMI trovi spazio anche l’abolizione dei controlli sui flussi di
capitale, questi Paesi si vedono costretti a pagare un tasso di
interesse più alto per attirare capitali dall’estero, altro elemento che
contribuisce a peggiorare la distribuzione del reddito favorendo
profitti e rendite, penalizzando i salari ed esacerbando le
disuguaglianze.
Per quanto riguarda le cosiddette
‘riforme strutturali’ previste dai piani del FMI, si tratta
principalmente di interventi sul funzionamento del mercato del lavoro
che favoriscono l’adozione dei contratti a tempo determinato,
l’eliminazione di forme di salario minimo o dei sussidi di
disoccupazione e la riduzione dei costi di licenziamento. La
precarizzazione del lavoro peggiora la posizione dei salariati,
livellando verso il basso sia le retribuzioni sia le condizioni di
lavoro. Anche in questo caso, si tratta di ricette che conosciamo molto
bene in quanto centrali nel progetto di integrazione europea: tanto in
Europa quanto nei Paesi a capitalismo meno avanzato, il modello di crescita basato
su flessibilità del lavoro, compressione dei salari e ricerca della
competitività sui mercati esteri si traduce in una contrazione della
domanda interna (principalmente, quella per consumi) che, a sua volta,
contribuisce alla recessione, alla disoccupazione e alla povertà.
Anche la privatizzazione delle imprese
pubbliche prevista nei piani del FMI (ma, alla stessa stregua, nel
contesto europeo) dà luogo a diversi fenomeni regressivi: in primo
luogo, alle privatizzazioni fanno generalmente seguito casi di
‘ristrutturazione aziendale’ che prevedono massicci licenziamenti; in
secondo luogo, a differenza di un’azienda pubblica, un’impresa
privatizzata dovrà prevedere la realizzazione di un profitto, elemento
che si scarica sul prezzo finale del bene o del servizio, a tutto
discapito del consumatore. Anche in questo caso, le privatizzazioni
finiscono per essere pagate dalle fasce più deboli della comunità:
privatizzando comparti dell’economia si riduce la fetta di prodotto che i
lavoratori riescono ad accaparrarsi. È evidente che si tratta di un
complesso di misure, quelle promosse dal FMI, volte ad indebolire la
classe lavoratrice nel suo complesso. Tagli nel settore pubblico e
privatizzazioni si traducono in massicci licenziamenti che aumentano la disoccupazione e
riducono la forza dei sindacati: una perdita di potere contrattuale
che, a sua volta, riduce la capacità di negoziare salari più alti nel
comparto privato.
Alla luce di questa analisi veniamo ad
una ovvia conclusione: le ricette del FMI nei Paesi in via di
sviluppo non sono aggiustamenti inevitabili, né scelte squisitamente
tecniche. Questi interventi contemplano un preciso progetto politico e
ideologico. La costruzione di uno specifico fondo internazionale,
formalmente nato per ‘fornire assistenza’ ai Paesi in via di sviluppo,
diventa il principale volano dell’imposizione di politiche neoliberiste.
Non è un caso che tra il personale del FMI siano presenti i più ligi
sostenitori delle politiche di libero mercato. Inoltre, Paesi come gli
Stati Uniti svolgono un ruolo tutt’altro che minoritario nel dettare
l’agenda del FMI. È altresì noto che gran parte dei finanziamenti del
FMI sono utilizzati nei Paesi debitori per permettere ai ricchi di
sottrarre ricchezze dal Paese e introdurle nei paradisi fiscali o negli
Stati Uniti, come è avvenuto recentemente in Argentina e Zambia.
Eccoci dunque giunti a prendere
contezza del fatto che quello del FMI si rivela essere un compito non
troppo diverso da quello che, nel palcoscenico nostrano, è affidato
all’Unione Europea (ricordiamo infatti i terribili esiti per la Grecia
degli interventi della cosiddetta Troika, composta da FMI,
Commissione Europea e BCE): austerità, tagli al welfare,
privatizzazioni, precarietà e moderazione salariale rappresentano la cifra del disegno politico europeo.
Anche in questo caso, un progetto tutt’altro che tecnico ma unicamente
politico: un modello che genera povertà e miseria, e che finisce
inevitabilmente per inasprire le disparità tra Paesi e per ampliare le
già inaccettabili disuguaglianze all’interno delle singole economie.
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