di Alberto Negri per il manifesto
Sull’assassinio del ricercatore l’Italia è a un bivio. La verità ci è stata sbattuta in faccia dai procuratori di Roma con un quadro probatorio e di ambiente che lascia pochi dubbi.
Adesso tutti sappiamo, tutti siamo entrati con il racconto dei giudici nella stanza n. 13 della Sicurezza Nazionale egiziana dove Giulio Regeni è stato incatenato, seviziato, torturato e ucciso.
Abbiamo i nomi dei responsabili: ce li ha detti pubblicamente davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta l’indagine del procuratore Michele Prestipino e del sostituto Sergio Colaiocco. Nei loro confronti, definiti «irreperibili« perché le autorità egiziane ne hanno sempre nascosto gli indirizzi, ci sono «elementi di prova univoci e significativi».
Nonostante l’omertà mafiosa del regime egiziano e del generale Al Sisi, la giustizia italiana è andata avanti e ha trovato prove e testimonianze: ora dobbiamo decidere, davanti all’evidenza, cosa fare. Si tratta di una decisione politica della massima importanza perché è in gioco la giustizia, ma anche la credibilità internazionale del nostro Paese.
Sull’assassinio di Giulio Regeni l’Italia è a un bivio. La verità ci è stata sbattuta in faccia dai procuratori di Roma con un quadro probatorio e di ambiente che lascia pochi dubbi: le autorità egiziane ovviamente sanno perfettamente chi è stato e perché.
In questi quattro anni dalla morte di Regeni l’Egitto ha avuto tutto il tempo per fare giustizia ma non ha mosso un dito: per primo proprio il generale Al Sisi. Anzi è stato fatto di peggio, con depistaggi continui: a cominciare dall’autopsia, le cui conclusioni («morte per emorragia cerebrale») dovevano accreditare un incidente stradale mai avvenuto, per proseguire con il ritrovamento del suo cadavere denudato (utile a sostenere la pista del movente sessuale), fino alla cruenta messa in scena che doveva accollare la responsabilità della fine di Giulio a un banda di rapinatori del Cairo, che altro non erano che innocenti fucilati a freddo dai servizi egiziani per simulare un conflitto a fuoco.
Il Cairo ha avuto un comportamento criminale, dall’occultamento all’invenzione delle prove, a omicidi in serie: in un eventuale processo Regeni va alla sbarra il regime del generale, difficile circoscriverlo soltanto agli imputati. Per questo non lo vogliono e proteggeranno sempre i mandanti, gli autori materiali e anche l’ultima ruota del carro coinvolta in questa barbarie.
Ma oggi la responsabilità su cosa fare è sulle nostre spalle. Ci sono soltanto due strade: continuare come in questi anni il balletto vergognoso con il generale Al Sisi, oppure prendere misure significative nei confronti di una dittatura che conta su una solida protezione internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti. Era così con Trump e sarà così con Biden, non illudiamoci.
La responsabilità è tutta nostra e siamo soli, non possiamo aggrapparci al cinismo della Francia e alla Legione d’onore appena appuntata da Macron sul petto di Al Sisi. Certo sappiamo bene che da quando Al Sisi è salito al potere con un sanguinoso colpo di stato nel 2013, contro il governo dei Fratelli Musulmani del presidente Morsi, la Francia ha venduto 16 miliardi di euro di armi all’Egitto, tra navi da guerra, missili, cannoniere e caccia Rafale.
Ma non basta. Nell’agosto 2013, dopo i massacri delle piazze Rabaa e Nahda del Cairo in cui morirono oltre mille persone, il numero più alto di manifestanti uccisi in una sola giornata nella storia moderna dell’Egitto, il Consiglio degli affari esteri dell’Unione europea decise, con l’unanimità degli stati membri, di sospendere l’esportazione in Egitto di forniture che avrebbero potuto essere usate per la repressione interna.
In realtà, un rapporto di Amnesty International mette in evidenza che i blindati francesi sono stati usati con esiti mortali per stroncare il dissenso interno.
Ma siamo noi adesso che dobbiamo decidere se continuare a vendere armi a un regime che ha torturato, ucciso, occultato le prove, mentito e che ha spudoratamente preso in giro i governi, le autorità giudiziarie, di polizia e soprattutto una famiglia e un’opinione pubblica che adesso chiedono giustizia.
Siamo noi che abbiamo appena venduto due fregate italiane che valgono 1,2 miliardi di euro e all’orizzonte ci sono opzioni per altre quattro fregate, venti pattugliatori, 24 caccia Eurofighter e altrettanti addestratori M-346. Una partita da 10 miliardi di euro.
Siamo che noi che con Fincantieri, azienda statale, volevamo sponsorizzare il salone militare Edex, rinviato soltanto per il Covid, un diretto sostegno alla politica di Al Sisi nel Mediterraneo e in definitiva anche a quel “Patto di Abramo” tra Israele e le monarchie del Golfo, dalle quali il Cairo è sponsorizzato a colpi di miliardi di dollari.
Siamo noi che con il governo Renzi abbiamo sdoganato in Europa al Sisi: è stato lui a chiamarlo «grande statista» e lo ha continuato a difendere anche in questi giorni davanti alla commissione parlamentare su Regeni.
Questi siamo noi. Quelli che vendono le armi ma che vorrebbero avere giustizia, e che corteggiano i dittatori ma vorrebbero fare bella figura con l’opinione pubblica. Con la vicenda tragica di Giulio Regeni siano costretti a guardarci allo specchio. E non è un bel vedere.
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