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01/01/2021

Il postribolo della Rai

C’è una trasmissione che va in onda dopo il Tg2 della sera. Ha un titolo pretenzioso: si chiama Post, nome che ammicca alla stampa made in Usa ma anche ai post, quelli che si “postano” sui social.

Avrebbe la pretesa di approfondire, in realtà sprofonda nella più smaccata e bieca propaganda, in perfetta sintonia con il modo di informare del Secolo d’Italia, che fu il fogliaccio del Msi, dalle cui fila proviene, appunto, il direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano.

Nella puntata del 30 dicembre, però, si è capito che Post è l’abbreviazione di postribolo. Sia detto senza offesa né riferimento di tipo sessuale alla signora Manuela Moreno, che ha già i suoi problemi, che cominciano dal fatto che non si capisce se conduce o è la valletta, per finire che è sempre vestita male.

Bisognerebbe anche dire qualcosa su quel “non mettetevi troppo comodi” (??) con cui apre il programma e quel “noi facciamo le domande” che è una colossale bugia. Ma non ne vale la pena, dal momento che la prima affermazione suona come un modo grottesco di fingere di fare giornalismo scomodo.

Mentre la seconda è apodittica, per quel penoso suo modo di fare interviste che è proprio il contrario di ciò che annuncia, per il semplice motivo che lei non rivolge domande, semmai dà risposte col punto interrogativo, come si fa in genere quando le interviste sono combinate.

Ma, tornando alla puntata di ieri, le vette dell’indecenza sono state tutte scalate nell’arco dei venti minuti del programma.

Erano ospiti quattro direttori di testate giornalistiche italiane: Maurizio Molinari per Repubblica; Claudio Cerasa per Il Foglio; Mario Sechi per l’Agi; e ovviamente l’ineffabile Gennaro Sangiuliano che aveva l’aria di chi dice “vedete, anch’io sono un direttore di giornale”.

La povera Moreno, nell’introdurre il suo direttore, lo ha presentato come “appassionato di storia”, manco fosse un quiz a premi della tv ai tempi di Mike Bongiorno. Tanto più che qui di “allegria!” proprio non ce n’è stata manco per sbaglio; solo cose ridicole.

Come quando Sangiuliano, il padrone di casa, s’è sbrodolato addosso una paio di strampalate analisi su quando il mondo era diviso tra Patto Atlantico e blocco sovietico, dimostrando che lì è rimasta la sua visione del mondo, quella che, appunto, ha tollerato il neofascismo come utilizzabile in funzione anticomunista.

O quando Molinari ha ripetuto la sua pappardella sulla necessità dell’atlantismo come antidoto anticinese.

E il povero Cerasa, nel tentativo di produrre un pensiero laterale, che è l’ambizione di Il Foglio, si è messo fuori gioco, dicendo cose che la povera Moreno non ha capito e dunque ha lasciato cadere.

Sechi, l’unico presente in studio, era talmente compiaciuto di sé, e forse anche delle procaci forme dell’intervistatrice, che ha arrotato qualche brano di ragionamento, cadenzato dal suo inconfondibile accento sardo.

Insomma: è andato in onda un guazzabuglio di affermazioni estemporanee sul futuro, tra guerra alla pandemia e guerra economica alla Cina, dipinta come il nuovo pericolo pubblico numero uno del futuro della nostra economia.

I fatti dimostrano che non c’è stato né un dibattito, né un confronto, né un approfondimento: ognuno ha fatto una marchetta per sé, la propria testata, cioè il posto di lavoro e relativi prestigio e stipendio. Marketing, insomma.

Come volevasi dimostrare, quel programma è un postribolo in cui gli ospiti vengono invitati a fare marchette. Che però paghiamo noi col canone, che si chiama tassa di possesso, tanto per sottolineare che ci hanno ormai del tutto spossessato del servizio pubblico televisivo.

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