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16/03/2021

L’anniversario immobile: quel 16 marzo 1978


Gli anni passano, gli anziani muoiono, i genitori diventano nonni e i bambini a loro volta padri e madri. Cade il Muro di Berlino e poi anche l’URSS, distruggendo (temporaneamente) l’immagine stessa del “socialismo” (non a caso qualificato come “reale” per salvaguardare in qualche misura l’ideale dalla non entusiasmante forma brezneviana).

Poi arrivano guerre e altre crisi, il capitalismo entra in una spirale senza via d’uscita (da 14 anni, non da ieri mattina), e infine una pandemia globale che non solo non passa ma mostra – non troppo paradossalmente – la superiorità di altri “socialismi”, capaci di contenere le perdite umane ed economiche, trovare vaccini e tornare alla normalità mentre l’Occidente affonda o al massimo ristagna.

Solo una cosa – una “narrazione” non a caso – prosegue da 43 anni quasi senza innovazione nel canovaccio fondamentale: le fantasie sul sequestro di Aldo Moro.

In questo mondo separato il tempo non passa mai. I processi vengono celebrati ma le loro conclusioni ignorate (a volte persino dagli stessi inquirenti, come accadde a Ferdinando Imposimato). I protagonisti vanno in carcere, scontano la condanna, escono, muoiono al loro volta (di vecchiaia, è il caso di sottolineare). Le cazzate dei dietrologi raccolgono ormai denunce per l’inveterata abitudine ad inventarsi fatti e circostanze che coinvolgono persone estranee ma pervicacemente viventi.

Niente da fare. La “narrazione” resta la stessa.

Così, nel 43° anniversario, non ci sembra necessario andare a scovare qualcosa di nuovo per sostenere la verità storica. Basta magari quella piccola “chicca” pubblicata solo un anno fa, che ricostruiva “la trappola” tesa da Aldo Moro al Pci con il secondo “governo delle astensioni” guidato da Giulio Andreotti.

Giusto qualche ritocco per precisare meglio alcuni temi che le nuove generazioni potrebbero trovare interessanti ed esplicativi.

*****

Una ricostruzione tutta politica, con molti elementi sconosciuti perfino ai protagonisti di quel momento decisivo della vita politica italiana. E non poteva essere altrimenti, visto che “i protagonisti” erano tutti soggetti, individuali e collettivi, che stavano combattendo ognuno per far vincere la propria “soluzione” alla crisi che si trascinava da un decennio.

Certo, i “dietrologi” di parte Pci hanno monopolizzato a lungo una autentica narrazione fantasy in cui praticamente tutto il mondo – dagli USA alle Br, da Andreotti all’URSS – concordavano nell’opporsi al “governo di solidarietà nazionale” che lo stesso Pci raccontava come “compromesso storico”.

Questa ricostruzione, fatta rigorosamente con i diari e i ricordi dei collaboratori di Moro, Zaccagnini, Berlinguer, ecc., fissa un quadro decisamente diverso. Il governo Andreotti bis, monocolore Dc, che vide poi l’esordio quella stessa mattina del 16 marzo 1978, era un cazzotto in faccia al Pci, sferrato personalmente da Aldo Moro, d’accordo con l’ambasciatore statunitense d’allora, Gardner.

Questo elemento è rilevante sul piano politico, perché proprio la presunta “opposizione statunitense” al dialogo tra Pci e Dc funziona da “spiegazione a monte” o assioma per giustificare poi la cascata di ricostruzioni dietrologiche piene di personaggi “indecifrabili”, interessi “occulti”, domande cui nessuno può rispondere.

Per esempio, ogni personaggio in odor di Cia (e ce ne sono stati a bizzeffe, in quella vicenda, dal lato del governo) in quella narrazione diventa automaticamente uno che cospira contro il Pci e/o la liberazione di Moro. Anche se proprio la “fermezza” del Pci fu elemento decisivo per la conclusione tragica del sequestro.

Lo scopo di quel governo e quell’accordo, esplicito, era logorare il più possibile il Pci – uscito vincitore, con consensi quasi alla pari dei democristiani, dalle elezioni politiche del 20 giugno 1976 – e poi andare di nuovo alle urne, facendo pagare ai “comunisti” il prezzo della collaborazione nelle “politiche dei sacrifici” e nella repressione dei movimenti, a partire da quello del ’77.

Qui non c’è nessun mistero, è la normalità della politica. Ti costringo in mille modi a condividere scelte colpiscono gli interessi materiali della tua base sociale, e quindi creo le condizioni per il tuo ridimensionamento.

Il “piano” di Moro, come accade nelle vere tragedie, andò avanti indipendentemente da lui, in primo luogo grazie all’ottusità suicida del gruppo dirigente del Pci, che dismise qualsiasi critica alla gestione del potere e “si fece Stato” senza avere una sola giustificazione, o “contraccambio”, per una scelta che soltanto un anno dopo lo portò a rompere l’alleanza, andare a nuove elezioni e perdere, come previsto, gran parte dei consensi.

In realtà il “partito della fermezza” fu nutrito soprattutto dalle ambizioni personali di gran parte del gruppo dirigente democristiano, che aveva smarrito il suo migliore stratega, e non paradossalmente dal risentimento “piccista” nei confronti dello stesso Moro, che aveva confezionato la “trappola” del secondo monocolore senza variazioni.

Sul piano strategico, già la scelta di perseguire un “compromesso storico” con Dc e Psi era un rovesciamento dei presupposti storici del Pci e il modo concreto in cui gli ormai ex comunisti accettavano lo status quo occidentale fino all’”ombrello della Nato”. Sul piano tattico, ossia politico immediato, era anche una figura da fessi, che buttava via a gratis decenni di “accumulo delle forze” e di rinunce sostanziali alla trasformazione sociale.

Comprensibile, dunque, che i vertici del Pci abbiano cercato una “narrazione” tale da nascondere sia il passaggio nel campo imperialista sia la parte dell’utile idiota fatta nella trattativa sulla formazione dei due governi Andreotti di “solidarietà nazionale” (il primo dall’estate 1976, il secondo dal 16 marzo 1978).

Di sicuro era difficile sceglierne una più infame. Quella “narrazione” ha descritto per tanti decenni il Pci come “vittima” di una lista inestricabile – e guai districarla! – di “nemici oscuri”, tutti attivi contro un suo ormai imminente “ingresso al governo”... che proprio Moro aveva escluso in via di principio, d’accordo con gli Usa.

La cosa più sorprendente, in fondo, è che quella narrazione venga ripetuta sempre uguale nonostante il Pci non esista più e i suoi dirigenti ancora in vita facciano di tutto per cancellare il ricordo d’aver avuto quella tessera. Serviranno storici molto ironici per dar conto scientificamente di questo “mistero”...

Buona lettura.

*****

«Quel mercoledì ero stato quasi tutta la serata col presidente. I comunisti contestavano che il governo era stato fatto col bilancino, assecondando le pretese di tutte le correnti Dc. Moro era convinto che non si potesse fare altrimenti, che solo a quelle condizioni la Dc poteva accettare che i comunisti entrassero nella maggioranza. A un certo punto mi disse: “Il Pci deve sapere che può essere solo così”».

Tullio Ancora, consigliere di Aldo Moro, incaricato di tenere i rapporti con Botteghe Oscure[1], racconta in questo modo l’ultima sera di libertà del Presidente della Dc nello studio di via Savoia 88, base operativa della sua corrente, dove si riuniva con i suoi fedeli collaboratori. Un appartamento di 240 metri quadri, sette stanze e sei armadi blindati nei quali conservava documentazione di varia natura, anche dossier – si scoprì dopo la sua morte – di proprietà dello Stato (e che, dunque, non dovevano trovarsi lì). Fascicoli che decenni dopo richiesero mesi di lavoro alle Commissioni incaricate della stesura di un inventario.

Tullio Ancora aggiunge: «Andammo avanti a lavorare fino alle 22. L’ultimo incarico che mi diede Moro, a tarda sera, fu di avvertire Berlinguer che, al di là delle perplessità, quella lista la dovevano accettare così com’era, altrimenti saltava il governo. Mi incontrai con Barca di notte, ma prima di quel messaggio a Berlinguer, all’indomani, arrivò la notizia del rapimento e dell’uccisione della scorta»[2].

Congedato Ancora, Moro si attardò ulteriormente rimanendo a parlare con il suo collaboratore Nicola Rana: «Io e l’onorevole Moro la sera del 15 siamo rimasti a chiacchierare all’uscita di via Savoia fino alle 23-23.30 proprio perché Moro diceva: “Rana, mi raccomando, domani, non appena finiamo...”. Avevamo le tesi di laurea da discutere il 16 mattina, ragion per cui Moro aveva deciso di fare un passaggio alla Camera, di sentire il discorso di Andreotti e poi per le 11 di essere all’università, dove avevamo 12 allievi da laureare»[3].

Secondo alcune testimonianze, intrattenersi fino a tardi nello studio di via Savoia era per Moro una consuetudine. Anni dopo Francesco Cossiga rivelò che questa sua abitudine era un modo per tenersi lontano dalle tensioni familiari[4], ma quella sera del 15 marzo la famiglia non c’entrava nulla, era in ballo il futuro del nuovo governo monocolore guidato da Andreotti. I segnali di forte insofferenza che stavano montando tra i dirigenti comunisti preoccupavano il dirigente democristiano perché avrebbero potuto ripercuotersi in parlamento, privando il nuovo esecutivo del voto di fiducia del Pci.

Incontro nella notte

Anche Luciano Barca[5], che nelle settimane precedenti aveva preso parte a due incontri riservati tra Moro e Berlinguer, ha raccontato quel che avvenne quella lunga sera. A mezzanotte squillò il telefono di casa. All’altro capo del filo c’era Ancora che voleva vederlo subito nonostante l’ora tarda. I due abitavano vicino e si vennero incontro a metà strada.

Barca prese appunti tenendo il foglio su un cofano d’auto[6]: «Moro è preoccupato delle riserve che sono state formulate dal Pci alla lista del governo e fa appello a Berlinguer affinché non si riapra il dibattito che faticosamente i gruppi parlamentari Dc hanno appena chiuso. […] Decido che è inutile svegliare Berlinguer (che tra l’altro non ama parlare per telefono e in sedi non proprie: tutti i miei resoconti e tutte le discussioni sulle risposte da dare hanno avuto come unica sede il suo ufficio di Botteghe Oscure, spesso con la partecipazione di Bufalini o Natta) e batto a macchina l’appunto per consegnarglielo al mattino»[7].

L’incontro del mattino non ci fu, quel messaggio giunse a Berlinguer molto più tardi. La notizia dell’azione di via Fani modificò radicalmente la situazione. Racconterà Berlinguer: «Mi trovavo nella sede del gruppo comunista alla Camera, nella stanza dell’onorevole Natta, quando, intorno alle 9 e un quarto entrarono per darci la notizia prima il giornalista Angelo Aver, di “Paese Sera”, e immediatamente dopo l’onorevole Di Giulio. Entrarono successivamente altri compagni, altri collaboratori. Dopo una brevissima consultazione, decidemmo di recarci immediatamente a Palazzo Chigi dove trovammo che erano già convenuti o stavano convenendo numerosi esponenti politici e ministri. In quel momento, nelle stanze di Palazzo Chigi c’era una certa confusione»[8].

Fu dunque la circostanza eccezionale del rapimento, come si può leggere nelle parole di Giorgio Napolitano tenute in apertura della riunione di Direzione del 16 marzo, che spinse il Pci a tralasciare ogni riserva sulla composizione del governo e votare la fiducia: «Nella riunione di emergenza avvenuta stamane, poco dopo le 10 tra il Presidente del Consiglio Andreotti ed i Segretari dei partiti dell’arco democratico, si è convenuto di accelerare all’estremo tutto l’iter della fiducia per fare in modo che il governo la ottenga entro la nottata dai due rami del Parlamento, per esplicare i suoi compiti gravi e delicati con pienezza di poteri. [...] Berlinguer farà un intervento molto breve, sotto i 30 minuti concordati, nel quale darà risalto alle questioni dell’emergenza, quella più generale e quella di punta ora, e farà appello alla solidarietà democratica»[9].

Si trattò di una improvvisa accelerazione politica che nel giudizio di alcuni storici è la prova di come in quei giorni si produsse «un’adesione comunista, per molti versi definitiva, alle istituzioni della democrazia italiana»[10].

Una valutazione analoga venne anche da Mario Moretti, che nel libro intervista con Rossanda e Mosca riconobbe la propria sorpresa davanti al livello di integrazione istituzionale ormai raggiunto dal Pci. I brigatisti, sbagliando, ritenevano che l’operazione Moro avrebbe suscitato una crisi difficilmente gestibile all’interno del Pci, favorendo uno scollamento tra i vertici del partito e una base che aveva mostrato segni di insofferenza di fronte alla strategia del compromesso storico[11].

Anche Moro – racconta sempre Moretti – all’inizio della sua prigionia «sta a vedere quel che succede, esattamente come noi. E quel che succede è sorprendente, sconvolgente. Anche lui ha bisogno di pensarci. [Per questo rimarrà] prima sorpreso, poi incredulo, sconcertato, irritato. Sempre lucidissimo però [...] convinto che il blocco si smuoverà da quella chiusura solo se la Dc avrà un’iniziativa, si muoverà per prima. E comincia la sua battaglia politica con il suo partito»[12].

L’intransigenza di Moro e la rabbia cupa del Pci

L’ingresso del Pci nella nuova maggioranza di governo, dopo la difficile parentesi del «governo delle astensioni»[13], era stato pagato con un alto prezzo politico proprio a causa della rigida posizione di Moro. Negli ultimi giorni che precedettero il 16 marzo: «si chiarì che nel nuovo esecutivo non sarebbero mai stati inseriti né esponenti di altri partiti [...] né “tecnici di area”, come richiesto dai repubblicani, malgrado i tentativi in questo senso di Andreotti»[14].

Dopo estenuanti trattative, la lista dei ministri era stata resa pubblica alle 21.00 di sabato 11 marzo. Alle 17.00 il presidente del Consiglio incaricato si era recato al Quirinale per sciogliere la riserva, ma c’erano volute ancora tre ore di negoziato per riempire le ultime caselle. Nonostante gli impegni assunti durante le trattative il monocolore democristiano si riproponeva senza novità: una tradizionale compagine suddivisa rigorosamente per correnti, secondo criteri del passato: 13 dorotei, 7 fanfaniani-forlaniani, 6 morotei, 6 forzanovisti, 4 basisti, 4 andreottiani, 3 del gruppo Rumor-Gullotti, 1 per Colombo: il «ministero delle anime morte» titolava un editoriale de «la Repubblica» il giorno dopo[15].

Non una delle richieste avanzate dal Pci, che pure lo stesso Andreotti, con Zaccagnini, avevano appoggiato, era stata accolta e ciò per una precisa volontà di Moro, che per garantire l’unità della Dc e fare fronte ai veti del Psdi aveva corretto la lista dei ministri reintroducendo nomi di esponenti politici democristiani per nulla graditi ai comunisti.

Una sorpresa amara per Botteghe Oscure, che troppo presto aveva dato per vinta la partita. Completamente spiazzato apparve, infatti, il commento positivo di Natta apparso su «l’Unità» del 12 marzo, dato al giornale prima che venisse diffusa la lista ufficiale dei ministri: «Pur nei limiti del monocolore, noi abbiamo ritenuto l’opportunità della presenza di personalità indipendenti di prestigio e della corrispondenza della compagine governativa alla esigenza di impegno, di capacità operativa e di coerenza con lo sforzo eccezionale e con la solidarietà occorrenti. Mi sembra anzi che questa sia la garanzia prima di un rapporto corretto e positivo tra governo e maggioranza, tra indirizzo ed esecuzione»[16].

Di fronte al fatto compiuto, il commento di Chiaromonte fu ben diverso: «Una lista desolante. Pochissimi cambiamenti, e di non grande peso politico. Alcuni trasferimenti da un ministero all’altro, peraltro incomprensibili nelle loro motivazioni. La maggioranza dei ministri confermata: anche quelli, come Donat Cattin e Bisaglia[17], ostili apertamente e combattivamente alla politica di solidarietà democratica. Nessun tecnico indipendente al di fuori di Ossola, che faceva già parte del precedente governo. A molti sembrò una sfida ai comunisti e alla nuova maggioranza parlamentare»[18].

Tra i tecnici indicati dal Pci, non c’era il nome di Luigi Spaventa, economista, eletto in parlamento come indipendente nelle liste del Pci[19]. Le valutazioni positive di Natta furono tanto più imbarazzanti perché «l’Unità» pubblicò sotto al suo intervento la lista dei ministri con un commento molto severo: «Ancora una volta la Democrazia cristiana si è dimostrata incapace di superare la logica delle correnti, le pressioni e le pretese dei gruppi, e di far corrispondere la scelta e la collocazione degli uomini a esigenze generali di qualificazione e di organicità dell’azione di governo nell’interesse del Paese»[20].

Quelle parole mettevano a nudo l’ingenuità della strategia comunista e la cosa divenne ancora più rimarchevole alla luce dei commenti apparsi nei giorni successivi sugli altri quotidiani: un fondo di Scalfari su la Repubblica del 16 marzo descrisse i malumori nel Pci: «dirigenti furibondi, negoziatori messi sotto accusa [...] militanti delusi», e chiamò in causa il complesso di inferiorità del Pci riguardo alla propria legittimazione: «I comunisti sono stati talmente cauti da aver consentito, in nome della cautela, la nascita di uno sgorbio ministeriale»[21].

La reazione dei dirigenti di Botteghe Oscure è descritta come «aspra» da Giuseppe Fiori nella sua biografia di Berlinguer: «Pajetta telefona ad Andreotti e gli parla severamente. È subito riunita la segreteria comunista con i presidenti dei gruppi. Si discute vivacemente. È anche espressa l’opinione che a questo nuovo governo (ma si ironizza sul nuovo) debba negarsi il voto favorevole. In tutti c’è ripensamento e dubbio»[22].

Pecchioli ricorda che quella sera «Berlinguer era furibondo. Raramente aveva preso tanto male qualcosa». Pajetta era per la rottura. In ogni caso – riferisce Natta – «pensavamo ad un discorso di Berlinguer molto duro e molto critico»[23]. La scelta comune, però, è di «lasciare che a pronunziarsi sia la Direzione dopo aver ascoltato Andreotti in Parlamento»[24].

Secondo Finetti l’intervento d’autorità di Moro avrebbe creato dissapori con Zaccagnini, «che infatti, quella sera, abbandona il suo ufficio dissociandosi da Moro e ventilando le dimissioni da segretario»[25]. Un attrito che avrebbe suscitato nei vertici del Pci l’attesa «di una presa di distanza da Moro» del segretario della Dc e di Andreotti.

Gianni Gennari, molto vicino a Zaccagnini nei giorni del sequestro, ha confermato l’insofferenza e il forte dissenso di Zaccagnini per le scelte di Moro e non solo la sua volontà di dimettersi dal ruolo di segretario: «Mi disse più volte che non era contento di come erano andate le cose per la soluzione politica di quella crisi di governo. Neppure era convinto della composizione del nuovo governo Andreotti che proprio la mattina della strage si era presentato alla Camera. Anche un recente “rimpasto” degli organi di partito – di cui pure era lui il segretario – non lo aveva soddisfatto... Avevano combinato tutto Moro e Andreotti. Lui aveva preso la decisione, quindi, e me lo disse chiaro, di dare le dimissioni da segretario. Dunque se le Br non avessero rapito Aldo Moro, Benigno Zaccagnini, appena varato il governo Andreotti con il Pci nella maggioranza si sarebbe dimesso da segretario della Dc. Per la cronaca lo ha scritto una volta anche Enzo Biagi, nero su bianco, mai smentito da qualcuno... Zac voleva tornare a Ravenna, a fare il pediatra. Era stanco di quella politica, che aveva voluto anche lui, ma di cui troppe cose, troppe persone, troppe vicende concrete non gli piacevano. Lo aveva detto anche a Moro, e negli ultimi giorni qualche colloquio non era stato del tutto normale. Zaccagnini era inquieto, e ne aveva detto le ragioni precise: inascoltato, nel partito di cui pure era segretario e nel governo... Ma le Br rapirono Moro, e lui fu costretto a restare. In quelle condizioni le sue dimissioni divennero impossibili»[26].

Finetti aggiunge anche un retroscena: «Scalfari in quelle stesse ore parte all’offensiva di Moro accusandolo di essere lui a celarsi dietro il nome in codice ‘Antelope Cobbler’ della lista delle tangenti della Loockhed, pubblicando in terza pagina un articolo intitolato, Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro presidente della Dc»[27].

A dire il vero questa informazione apparve anche su altri quotidiani, come il Corriere della Sera, La Stampa e Il Giorno. Il numero de la Repubblica, comunque, venne immediatamente ritirato dalle edicole dopo la notizia del sequestro e sostituito con una edizione straordinaria nella quale non troverà più posto l’articolo che chiamava in causa Moro [28].

Tratto da Brigate rosse, dalle Fabbriche alla campagna di primavera, DeriveApprodi 2017

Note

1) La testimonianza della sua attività come emissario delle diplomazia segreta con il Pci si può leggere in T. Ancora, Enrico, perché senza scorta; in Enrico Berlinguer, a cura di R. Di Blasi, pp. 110 e segg., Editrice l’Unità, Roma 1985.

2) I due passaggi sono tratti da «Avvenire», 7 maggio 2008, Moro e il Pci, un’amicizia travolta dal rapimento, intervista di A. Picariello a Tullio Ancora e Enrico, perché senza scorta, cit. p. 111.

3) Audizione di Nicola Rana, CM2 Martedì 16 febbraio 2016.

4) «Se Moro ti incontrava alle dieci di sera eri fottuto perché ti teneva a discorrere fino a mezzanotte pur di non tornare a casa presto. Lui tornava a casa all’una e si faceva un uovo al tegamino», in L’uomo che non c’è, intervista di Claudio Sabelli Fioretti a Francesco Cossiga, Aliberti editore 2007. Anche Nicola Rana in CM2, audizione del 16 febbraio 2016, fece un accenno ai problemi familiari: «Quel giorno, il 15 marzo, era accaduta soltanto una cosa che teneva la preoccupazione di Moro. C’era stata una lite.[…]  Il presidente Moro era preoccupato per alcune questioni familiari, per un litigio che era intercorso proprio quella giornata tra la signora Chiavarelli e la figlia Anna. C’era stato un fortissimo litigio».

5) Parlamentare e membro della Direzione del Pci, esperto di politica economica, incaricato dal segretario del Pci E. Berlinguer di tenere i contatti con l’entourage di Moro.

6) La scena è raccontata in questo modo da G. Fiori in, Vita di Enrico Berlinguer, cit. pp. 352-353.

7) L. Barca, «Gli incontri segreti con Moro», in Enrico Berlinguer, Edizioni l’Unità, 1985, p.107.

8) Commissione Moro 1, audizione di Enrico Berlinguer, vol. 5, p. 350.

9) FG, APC, microfilm 7805, verbale Direzione del 16 marzo 1978, numero 8, fogli 3-4.

10) A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., p. 14.

11) M. Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, intervista con Rossana Rossanda e Carla Mosca, Anabasi, Milano (prima edizione) 1994, pp. 144-146.

12) Ibid.

13) Giuseppe Fiori riassume così il bilancio del Pci sull’accordo di programma a cui aveva preso parte in cambio della propria «non sfiducia»: «Una scatola vuota; peggio un recipiente dove la Dc mette poco del pattuito e parecchie sue convenienze. In Parlamento rimanda, sabota, snatura punti del programma sui quali s’era raggiunta l’intesa dopo trattative estenuanti: la riforma sanitaria, l’equo canone, i patti agrari, il sindacato di polizia, i nuovi poteri degli enti locali. I singoli ministri agiscono senza considerazione alcuna per i partiti dalla cui astensione derivano il potere, e lo si vede nelle nomine pubbliche, spesso scandalose, sempre di bottega»; G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, cit., p. 341. Opinione condivisa anche da Francesco Barbagallo che scrive: «Il Pci usciva molto provato dalla esperienza governativa del 1977. In mancanza di provvedimenti riformatori sul terreno dello sviluppo, del Mezzogiorno, dell’occupazione e dell’organizzazione del lavoro, era diventato bersaglio della protesta giovanile, del disagio operaio, della delusione degli strati intermedi e intellettuali»; F. Barbagallo, «Il Pci dal sequestro di Moro alla morte di Berlinguer», in L’Italia Repubblicana nella crisi degli anni 70. Sistema politico e istituzioni, a cura di G. De Rosa e G. Monina, Rubettino, Soveria Mandelli 2003, p. 80.

14) A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., p. 34. Egli cita in particolare una nota riservata di Luciano Barca a Berlinguer e Chiaromonte del 5 aprile 1978 in FG, APC, microfilm 7804, f. 0016.

15) «la Repubblica», 12 marzo 1978.

16) «l’Unità», colloquio con Alessandro Natta, Mettere a frutto le maggiori possibilità di rinnovamento, 12 marzo1978.

17) Il primo all’Industria, il secondo alle Partecipazioni statali.

18) G. Chiaromonte, Le scelte della solidarietà democratica. Cronache, ricordi e riflessioni sul triennio 1976-1979, Editori riuniti, Roma 1986, p. 100. L’espediente dei «tecnici indipendenti» doveva celare, in realtà, il coinvolgimento nel governo di ministri graditi al Pci.

19) A rivelare la circostanza è l’ambasciatore statunitense Gardner che riporta il contenuto di un colloquio con Amintore Fanfani del 18 dicembre 1977, R.N. Gardner, Mission Italy, cit., p. 179.

20) «l’Unità», 12 marzo 1978.

21) E. Scalfari, La firma di Natta non vale una messa, «la Repubblica», 16 marzo 1978.

22) G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, cit., p. 352.

23) C. Valentini, Berlinguer, Editori riuniti, Roma 1997, p. 285.

24) G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, cit., p. 352.

25) L’episodio sembra trovare, tuttavia, una smentita indiretta nelle parole di Moro presenti nella sua ultima lettera a Zaccagnini del 5 maggio 1978, non consegnata, dove scrive: «Essendoci lasciati in ottima intesa la sera del martedì», intendendo il giorno prima di mercoledì 16 marzo.

26) Teologo, consigliere di Berlinguer per gli affari religiosi, predispose il testo della lettera ai cattolici Italiani, inviata il 7 ottobre del 1977 al vescovo di Ivrea, Monsignor Bettazzi. La testimonianza di Gennari su Zaccagnini è apparsa su «La Stampa», 15 luglio 2012.

27) U. Finetti, Caso Moro, trent’anni di mistificazioni, in «Critica sociale», 13 marzo 2008.

28) «la Repubblica», 16 marzo 1978 (edizione ordinaria).

Fonte

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