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06/06/2021

Lo sdoppiamento virtuale dello spazio pubblico

Con l’inizio del terzo millennio l’espansione del continente digitale planetario ha investito l’Italia e coinvolto nell’erosione progressiva dello spazio pubblico gran parte dei suoi cittadini.

Con “spazio pubblico” non intendo soltanto quell’insieme di luoghi aperti e reali, ovvero non virtuali, entro cui lo Stato dovrebbe garantire a tutti la libertà di esercitare apertamente i diritti di cittadinanza, d’informazione, di attività culturale e politica in tutte le varianti. Ancora prima, infatti, lo si dovrebbe considerare come uno spazio strategico per la maturazione e il consolidamento delle nostre abilità relazionali; delle capacità di progettazione comune, di collaborazione empatica e di operatività condivisa. Come una grande rete di luoghi immaginati, voluti e liberamente istituiti da aggregazioni sociali autonome e autogestite. Luoghi aperti, dunque, in virtù dei quali possano svilupparsi e assumere una forma storica i momenti di confronto e le forme sorgive della creatività e del mutamento sociale.

Nella seconda metà del Novecento gli spazi pubblici post-bellici avevano vissuto in questo Paese un importante scossone. Le deboli attrezzature associative istituite per via burocratica dallo Stato dovettero cedere il passo a nuove esigenze culturali portate avanti da un fermento generazionale e laico nato in alternativa anche ad altre istituzioni robustamente sostenute da enti religiosi o privati. Negli anni ‘60 e ‘70 si è data infatti una fioritura rigogliosa di energie istituenti e ha preso vita un vasto arcipelago di inedite associazioni culturali, formazioni politiche, fermenti sindacali, centri sociali e movimenti extra-parlamentari accomunati, pur nella loro varietà spesso conflittuale, a forti attese di progresso sociale.

Negli ultimi vent’anni, gran parte di questo processo si è tuttavia inaridito confluendo nella grande ragnatela di internet e nei suoi incanti; ragnatela che ha saputo presentarsi al mondo come un’offerta di libertà per tutti pur che fossero dotati di dispositivi mobili e avessero aperto profili e account nelle sue maglie. Abbiamo visto così un grande esodo verso le nuove community disseminate nello spazio virtuale messo a disposizione “gratuitamente” dalle piattaforme e sapientemente mitizzato dalle loro agenzie di marketing prodighe di allettanti inviti ad esplorare le sue meraviglie. Lentamente rispetto ad altre aree del mondo, ma velocemente per i tempi del rinnovamento sociale che caratterizzano i processi storici dell’Italia, molti cittadini hanno così aperto profili social su questa o quella piattaforma e trasferito lì gran parte delle loro pubbliche attività.

Non si può dire che questa migrazione, avvenuta in ordine sparso, sia stata accompagnata da una riflessione critica e matura. Al contrario la penetrazione delle imprese digitali planetarie è stata ingenuamente accolta come una gradita ventata di progresso e all’invito a trasferirsi “online” si è obbedito senza aver contezza di ciò che ne sarebbe conseguito. Confondendo il progresso tecnologico con il progresso sociale, sia lo Stato, sia un gran numero di cittadini hanno in tal modo attivamente contribuito al declino e alla degradazione degli spazi pubblici in lande virtuali dove la vita di relazione viene sempre più confusa con le pratiche di connessione. In poco meno di vent’anni, questo sdoppiamento digitale, infine, è riuscito a consolidare un nuovo contesto societario colonizzato dai padroni delle piattaforme entro cui gli attori mentre si illudono di agire vengono invece agiti. Dicendolo con un paradosso: ha generato un simil-spazio pubblico radicalmente privatizzato.

Le simulazioni del privato in veste pubblica

Naturalmente, in questa deriva del pubblico sulle piattaforme private, anche i cittadini hanno fatto la loro parte. La nascita e la crescita della politica digitalizzata e lo sconfortante conteggio dei “Mi piace” e degli “indici di gradimento” hanno ormai preso il sopravvento. Ai leader che lanciano slogan, proclami e anatemi dai balconcini virtuali, i militanti degradati a “follower”, ammiratori, rispondono riprendendo, ritwittando e moltiplicando pedissequamente i “meme” sui loro profili. Così, se per un verso ci capita di assistere allo scatenarsi di infuocate battaglie “virali”, per un altro dobbiamo constatare la chiusura progressiva dei luoghi d’incontro in presenza. Senza neppure rendersene conto l’attività politica pubblica, così vivace nel secondo Novecento, armi e bagagli si è infatti trasferita sulle piattaforme private delle Big Tech statunitensi e, sfidando il ridicolo, perfino sulla “Rousseau” di un’azienda nostrana. E tutto ciò ha dato vita a un curioso e grottesco paradosso: il travestimento del privato in veste pubblica.

Prendendo atto di questa deriva, e certo per spingerla ancora più in basso, alcuni commentatori hanno poi cominciato a sostenere che le piattaforme private come Facebook, Twitter, TikTok e via elencando svolgono, bontà loro, un vero e proprio servizio pubblico. Basterà al riguardo una sola citazione: “I social network americani sono servizi divenuti pubblici e globali che hanno ottenuto un successo straordinario senza precedenti. Aziende fondate e gestite da privati che rispondono agli azionisti: non appartengono né a chi le frequenta né ad organi statali. Una condizione peculiare con la quale bisogna fare i conti. È questa la differenza fra l’Internet decentralizzato dei primi tempi e il web dei social network” [1] Ora, che una piattaforma privata non sia uno spazio pubblico dovrebbe essere di per sé lapalissiano. Ma ci sono voluti il clamoroso scontro tra il presidente in carica al tempo dei fatti, Donald Trump, e Twitter e quello non meno significativo tra Facebook & Google e il Parlamento australiano per far lievitare almeno qualche dubbio. Vediamo dunque cosa possiamo apprendere da questi avvenimenti.

Da Capitol Hill all’Australia

La prima storia si è svolta a cavallo tra il 2020 e il 2021 negli Stati Uniti d’America. Riassumo anzitutto l’antefatto. Dopo un’infuocata campagna elettorale per il rinnovo della carica di Presidente degli Stati Uniti, gli organi di controllo istituzionali e le istanze competenti del Partito Democratico e del Partito Repubblicano hanno riconosciuto infine la vittoria a Joe Biden. Donald Trump, campione dei repubblicani e presidente ancora in carica degli Stati Uniti, tuttavia, contesta il risultato e, anzi, in modo esplicito accusa con veemenza il Partito Democratico di aver compiuto dei “brogli”. In seguito a queste accuse – non meglio documentate ma negli ultimi mesi della campagna elettorale già cucinate con insistenza e a fuoco lento come una probabile eventualità – egli si rifiuta di “concedere” al Partito Democratico la vittoria e di cooperare al passaggio rituale delle funzioni presidenziali e dei suoi segreti. La ritrosia di Trump inaugura così un “tempo sospeso” in cui il presidente sconfitto rimane in carica temporeggiando e Biden, pur essendo stato confermato vincitore dal Congresso USA, non ottiene, come stabilito dalla tradizione, il riconoscimento dal suo avversario. In questo tempo irrituale, il 6 gennaio 2021 gli eventi precipitano e un consistente numero di sostenitori di Donald Trump accerchia Capitol Hill, la sede del Congresso degli USA, e si spinge al suo interno occupandone per alcune ore uffici e locali. Questa irruzione avviene sotto gli occhi di mezzo mondo poiché in quel momento cruciale erano sul luogo giornalisti e televisioni di tutti i continenti. A sgombero avvenuto si contano sei morti e un certo numero di feriti – anche tra le forze di polizia – sull’identità dei quali tuttavia viene mantenuto un imbarazzato per non dire curioso e perdurante silenzio istituzionale.

Veniamo dunque a ciò che ci interessa. Sulla soglia dell’irruzione, all’acme della tensione, in un messaggio inviato ai manifestanti, ai 75 milioni di elettori che lo avevano votato e agli 89 milioni di follower dichiarati sulla piattaforma di Twitter, Donald Trump (@realDonaldTrump) ribadisce le sue posizioni sulla “vittoria rubata” dai democratici, inneggia apertamente alle buone ragioni dell’adunata in suo sostegno ed esprime tutto il suo “amore” per i manifestanti. Più blandamente, tuttavia, invita anche gli attivisti a tornarsene a casa per poter proseguire nei giorni a venire la loro sacrosanta iniziativa di lotta. In risposta a questo suo tweet, sostenendo che le parole del presidente avevano violato la “policy” del servizio, Mark Zuckerberg per la piattaforma di Facebook decide di bloccare temporaneamente il profilo di Trump e dichiara: “Il rischio di consentire al presidente di continuare a usare il nostro servizio in questo momento è semplicemente troppo grande. Per questo estendiamo il blocco che abbiamo deciso sui suoi account Facebook e Instagram a tempo indeterminato e per almeno le prossime due settimane, fino a quando una pacifica transizione di potere sarà completata” [2]. Quasi in contemporanea una analoga decisione viene presa dalla piattaforma Twitter che, in quel momento, sospende il profilo personale di Trump per 12 ore.

Donald Trump, ancora formalmente presidente degli Stati Uniti, risponde a questa mossa spostando i suoi messaggi sull’account presidenziale #POTUS, ospitato anch’esso sulla piattaforma Twitter. Ma Jack Dorsey, CEO di Twitter, con una ulteriore progressione, decide a quel punto di bannare “a tempo indeterminato” anche #POTUS adducendo come motivazione “il rischio concreto che (Trump) inciti alla violenza anche il prossimo 27 gennaio”; data in cui rumor insistenti, soprattutto sui “social”, annunciavano una nuova manifestazione pubblica dei sostenitori di Trump.

Ecco, ho riportato le prese di posizione di Facebook e di Twitter perché in qualche modo esse fanno emergere, oltre allo scontro tra repubblicani e democratici, tra seguaci di Trump e istituzioni politiche, anche una tensione la cui qualità specifica sembra destinata a proiettarsi ben oltre gli Stati Uniti. L’aperto conflitto tra l’esponente in carica di uno Stato e la coalizione di un certo numero di piattaforme digitali della Silicon Valley che si stringe in alleanza per togliergli visibilità e parola nel continente digitale ci offre infatti l’anteprima di uno scontro di potere che da allora abbiamo già visto riprodursi sempre più velocemente e in più varianti in molte altre parti del mondo: in Australia, in Uganda [3], nel Myanmar [4]; e i cui sintomi già si erano mostrati perfino in Europa [5].

Vediamo ora la seconda storia. Nel febbraio del 2021 il Governo australiano mette in discussione una proposta di legge intesa a obbligare le grandi piattaforme digitali a pagare i diritti agli editori per i link che conducono agli articoli pubblicati dai media australiani. In risposta a ciò, prima ancora che il Parlamento sia giunto a una decisione, Facebook e Google rendono invisibili i link di collegamento alle pagine dei giornali australiani bloccando in tal modo l’accesso degli utenti. In questo blocco restano ovviamente coinvolte anche un gran numero di “informazioni essenziali sui servizi sanitari e di emergenza” [6] che di quel motore di ricerca e di quella piattaforma abitualmente si servono. E questo, in tempo di Covid, rafforza la potenza del ricatto. A questo punto, commentando la vicenda, il premier australiano Scott Morrison, si fa portavoce delle “preoccupazioni che sempre più Paesi esprimono sul comportamento delle aziende Big Tech, società che pensano di essere più grandi e influenti dei governi e ritengono di essere al di sopra delle regole”. Al conflitto tra Big Tech e governi, già ben delineato nella prima storia, si affianca qui quello tra settori diversi del capitalismo e tra monopoli e imprese minori. Più precisamente: tra il capitalismo digitale emergente e i grandi (e piccoli) gruppi dell’editoria cartacea. Una contraddizione che ha in palio la marea di miliardi che vengono ogni giorno spesi in pubblicità. Contraddizione, tuttavia, che non ha faticato a trovare soluzione con gli accordi stipulati sia da Google che da Facebook con News Corp di Rupert Murdoch, il gruppo monopolistico più forte della carta stampata australiana (controlla il 70% delle testate) e con Seven West Media, a totale scapito naturalmente dei piccoli editori [7].

Le poche scene in cui ho riassunto i passaggi salienti della contraddizione in corso tra il dominio digitale delle grandi piattaforme e il potere politico degli Stati e di altri governi ci offre l’occasione di mettere meglio a fuoco anche la metamorfosi in atto nello spazio pubblico locale oggetto di questo scritto poiché non riguardano soltanto o principalmente ciò che è avvenuto negli USA, in Australia, in Uganda, nel Myanmar o in Spagna in un momento particolare della loro storia interna, ma proiettano il loro significato sull’intero continente digitale. Ci riguardano nella misura in cui gli account, le pagine e i profili che vengono aperti in qualsiasi parte del mondo su quelle piattaforme sono da esse gestiti – tenuti aperti, momentaneamente oscurati, oppure chiusi – in piena autonomia o comunque in accordo coperto con questa o quella fazione politica del potere politico locale che volta a volta maggiormente tutela i loro interessi economici e solo quelli.

Tre domande fondamentali

Tornando alla deriva privatistica dello spazio pubblico italiano cui ho fatto cenno nella prima parte di questo scritto e tenendo conto dei fatti sopra riportati penso che tre domande ce le dovremmo pur fare.

La prima: fino a che punto gli interessi privati dell’oligarchia digitale possono già oggi condizionare quelli di uno Stato?

La seconda: fino a che punto gli interessi di uno Stato sono ancora in grado di tenere a freno le ambizioni strategiche di Big Tech?

La terza: fino a che punto le piattaforme private svolgono effettivamente la funzione di un vero e proprio spazio pubblico?

Per bocca del suo portavoce Steffen Seiber, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha accennato una risposta definendo “problematica” la chiusura degli account sui social network del presidente americano. “È possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore, e non per decisione di un management aziendale” [8]. Il filosofo Massimo Cacciari, a sua volta, è entrato in argomento stigmatizzando come “inaudito” che imprenditori privati quali Dorsey e Zuckerberg, padroni delle reti, possano controllare e decidere se i messaggi circolanti in rete siano o meno osceni. Anche per lui, insomma, “dovrebbe esserci una forma di autorità politica che decide. Esattamente così come c’è l’Autorità per la concorrenza, per la privacy, che decide ‘questi messaggi in rete sono razzisti, sono sessisti, incitano alla violenza’ e così via.” [9]. L’economista Luigi Zingales, dopo aver definito l’esclusione di Trump dalle piattaforme di Facebook e di Twitter “una straordinaria limitazione della libertà personale, che può essere imposta solo dalle autorità legittime in seguito ad un giusto processo, non da compagnie private” ha ulteriormente precisato che questo “colpo di stato silenzioso non sarebbe stato possibile senza l’estrema concentrazione del settore digitale” [10].

Potremmo fare altri esempi ma ci possiamo accontentare perché i tre precedenti esprimono l’essenziale della discussione in corso tanto ricca di buoni propositi quanto, credo di poter dire, “fuori misura”. Posta su quel piano, infatti, la riflessione resta assai lontana dalla radice più profonda del problema. Non mette in discussione l’essenziale. Che non può essere ridotto all’arroganza monopolistica di queste imprese planetarie senza chiamare in causa la loro sostanza capitalistica. L’antitrust o l’Authority per la difesa della privacy non sono altro che pallidi palliativi, peraltro impotenti vista la radicalità dell’espropriazione di dati sensibili che aziende come Google, Microsoft, Facebook e Amazon da almeno vent’anni portano avanti disdegnando platealmente le tiratine d’orecchie dei benevoli Stati d’Occidente. Inoltre, se mai si potesse porre la museruola alla smisurata ambizione di addentare dati e di incrementare le posizioni di dominio dell’oligarchia digitale non per questo si riuscirebbe a incidere sul codice sorgente del rapporto di produzione capitalistico. Questa è da sempre l’illusione delle democrazie liberali e delle socialdemocrazie europee in tutte le versioni storiche che negli ultimi cento anni hanno assunto. Ed è da sempre anche una illusione sconfitta.

Ma l’obiezione può essere spinta perfino più a fondo. Essa non tiene conto, infatti, del mito originario su cui poggia il web. Quel mito autorevolmente rilanciato di recente da Tim Berners-Lee – l’inventore del WEB – quando, riferendosi alla legge poi approvata dal Parlamento australiano per far pagare a Google e a Facebook i collegamenti che consentono la visualizzazione delle notizie pubblicate dai media cartacei ha voluto ribadire il principio fondamentale del suo credo: la libertà assoluta di collegarsi senza alcun vincolo o pedaggio sul web; principio che se venisse anche solo scalfito, egli ha detto, farebbe precipitare il web nel disastro. Insomma, senza questa possibilità per chiunque di linkare liberamente “il web ne uscirebbe minato alla radice” [11]. Come si permettono dunque gli staterelli locali del pianeta e i sostenitori a vario titolo delle museruole d’insistere su questo punto? Secondo questa mitologia delle origini, apparentemente libertaria, imporre vincoli ai link di condivisione delle notizie comporterebbe una minaccia per i diritti degli avatar che popolano il continente virtuale e per l’immensa rete delle reti costituirebbe una malattia mortale. In effetti, come abbiamo visto in Australia il blocco dei link colpisce un po’ tutti ma sono anzitutto e soprattutto i frequentatori singoli delle piattaforme e i piccoli editori ad essere penalizzati perché i gruppi monopolistici tra loro trovano quasi sempre il modo di venire a patti stipulando accordi commerciali di reciproca convenienza. E, quando non li trovano, il pesce grosso si mangia con piacere quello più piccolo. D’altra parte, piaccia o non piaccia a Tim Berners-Lee, che i colonizzatori del web abbiano creato i più grandi monopoli mai esistiti sul pianeta e proprio da questa sua mitologia traggano gli argomenti per legittimare gli enormi profitti ricavati è un dato di fatto.

La malattia mortale del web in questa prospettiva non è portata dai governi che cercano in modo dopo tutto assai delicato di regolamentare in qualche maniera lo strapotere delle piattaforme, bensì è la radice capitalistica che fin dalla loro origine ne costituisce il codice sorgente. In una tale cornice la risposta alla terza domanda cammina sulla corda dei funamboli senza rete. Un solo passo falso e si va giù. La libertà di link e di parola sotto il monitoraggio permanente di algoritmi censori – e perfino di “moderatori di contenuti”, lavoratori umani a contratto precario – vista l’incertezza degli attuali algoritmi nel saper distinguere con chiarezza intenzioni e significati attribuiti alle parole dei post, ai messaggi e alle immagini, dagli iscritti alle piattaforme e dagli inserzionisti, ricorda molto la condizione carceraria dove per far fronte alla censura i detenuti più presenti a sé stessi nel migliore dei casi finiscono per imporsi consapevolmente l’autocensura permanente. In entrambi i casi, del resto, la comunicazione avviene in un contesto obbligante e, francamente, sottoporre la propria parola al carceriere, agli algoritmi censori di Google-Facebook-Twitter o ai loro “moderatori di contenuti”, non fa proprio alcuna differenza. Ciò che agli uni o agli altri non nuocerà verrà lasciato libero di circolare, ciò che invece in qualche modo verrà ritenuto nocivo genererà conseguenze. Ma rispetto al carcere la sorveglianza delle piattaforme è anche peggiore. Esse, infatti, si approprieranno comunque di tutti i dati in esse riversati. D’altra parte, è anche vero che attualmente la quasi totalità della comunicazione politica avviene ormai proprio su quelle piattaforme ovvero all’interno di quella che potremmo chiamare l’area di sorveglianza e di tolleranza della “grande élite” digitale. Il che ci chiede di spendere ancora due parole sull’Intelligenza artificiale.

Intermezzo: dalle grandi élite alla Intelligenza Artificiale

Nel 1956, Charles Wright Mills, in un saggio sociologico molto acuto [12] cercò di mettere in evidenza il modo in cui le forze motrici del capitalismo industriale – oligarchie digitali, finanziarie, militari e politiche – intrecciavano le loro relazioni strategiche in luoghi non dichiarati e sovranazionali. In quei luoghi le “grandi élite del potere” maturavano i loro confronti e le loro decisioni invisibili; i contenuti forti della loro azione egemonica. Inutile dire che quel metalivello di ingegnerizzazione delle dinamiche sociali restava coperto allo sguardo dei cittadini e per chi poteva avere accesso a quei confronti non era conveniente farne parola altrove.

Anche ai nostri giorni le “grandi élite” del capitalismo digitale planetario continuano a intrecciare relazioni indicibili tra sé e con governi o Stati ma, a differenza degli anni in cui scriveva Mills, la catena di comando trova oggi nuove linee di occultamento e si disperde in quel complesso sistema che l’etichetta Intelligenza Artificiale indica e nasconde.

Tanto per evitare equivoci di ascendenza heideggeriana va chiarito allora che di quel complesso l’oligarchia digitale ha saldamente in pugno i brevetti e il monopolio delle intenzioni oggettivate nei dispositivi. L’Intelligenza artificiale, debole o forte che sia, in altri termini, non manifesta un “dominio della tecnica” ma trasmette, come sempre è stato nelle società capitalistiche, gli interessi e le intenzioni dei magnati di Big Tech e dei loro azionisti. I dispositivi sistemici dell’Intelligenza artificiale, intendo dire, non stanno affatto rendendosi autonomi dalla gestione umana. All’origine della loro operatività troviamo ancora, come sempre, matematici, informatici, ingegneri sociali e, prima ancora, consigli di amministrazione, azionisti e padroni (parola abbandonata ma più che mai attuale).

Detto questo, è anche vero però che il grado di autonomia relativa dei sistemi di Intelligenza artificiale oggettivati sta guadagnando giorno dopo giorno terreno; e che la loro operatività ordinaria tende a eliminare via via un numero crescente di intermediazioni umane. Quando ci rechiamo a un bancomat, chiediamo consigli a un navigatore, scegliamo un film su Netflix, clicchiamo like, lanciamo tweet, scriviamo mail, poniamo “query” a Google, tra noi e la risposta gli umani sono assenti. Oggi, per farla breve, le “grandi élite” si stanno oggettivando nei nostri dispositivi personali, negli smartphone che maneggiamo compulsivamente e, sotto forma di algoritmi, dal loro interno, mentre amichevolmente ci assecondano o ci consigliano, inoculano nelle nostre identità di connessione un quid di quell’intenzionalità capitalistica di cui sono espressione. Ecco, questa gestione disciplinare degli umani digitalizzati mediante l’intelligenza artificiale disseminata, come ha scritto Miguel Benasayag, mentre annuncia il ritorno del totalitarismo [13] ma in una veste nuova, procede alla distruzione sistematica di un grande numero di ambiti relazionali. E, nel quadro della nostra riflessione, questa distruzione ha di mira anzitutto proprio quello che un tempo veniva percepito come “spazio pubblico”. Si tratta infatti di una distruzione per annessione: per acquisirne i luoghi, sussumerli nella dimensione digitale riproposta in una nuova versione scorporata, de-umanizzata e virtuale, per seminare gli standard di una nuova e automatica obbedienza. Con tutto ciò la nostra ormai esangue libertà di decisione – quello spazio di libertà che Hannah Arendt ha messo a fondamento della nozione stessa di libertà – dovrà ora sempre più confrontarsi.

Contro la colonizzazione dello spazio pubblico

La colonizzazione dello spazio pubblico da parte delle aziende digitali private, se solo rivolgiamo lo sguardo ai luoghi d’incontro effettivi, si mostra ai nostri occhi sia come mancanza di luoghi reali garantiti dalle istituzioni e utilizzabili dai cittadini reali per socializzare, agire il confronto politico, far musica, teatro, cultura e quant’altro possa contribuire a produrre intreccio, discussione, coinvolgimento e costruzione collettiva del tessuto sociale; sia come sublimazione digitale di questi luoghi, attrezzata con piattaforme private specializzate nella rapina di ogni genere di dati e nella loro vendita ai mercanti del marketing commerciale o politico. Una doppia espropriazione in seguito alla quale i nostri corpi e le relazioni di cui si nutrono per soddisfare i loro desideri sociali vengono radicalmente disconfermati per lasciare spazio all’incorporea leggerezza delle identità di connessione. Identità, lo ribadisco, oggetto e mira di azioni e di intenzioni intrinsecamente alienanti. Va detto anche però che un ruolo rilevante in questa devitalizzazione dello spazio pubblico e del suo stravolgimento digitale l’hanno assunta quelle figure politiche che in questa direzione si sono spinte in prima linea. Leader di partiti politici, primi ministri, capi di Stato. Su Twitter, ad esempio, Donald Trump, prima di essere bannato “nei quattro anni della sua pre-sidenza ha postato 26.557 tweet, in media 18 al giorno” [14]. Giuseppe Conte, nella sua veste di Presidente del Consiglio, ha ripetutamente dato i suoi appuntamenti pubblici con i cittadini dal balconcino di Facebook. Come se per ascoltare le motivazioni dei suoi DPCM fosse necessario aprirsi un profilo sulla piattaforma americana. Intendo dire che queste, come molte altre figure pubbliche di primo piano, per accreditare sé stesse hanno scelto di eleggere le piattaforme digitali private come spazi pubblici. Non interessano qui le considerazioni personali o politiche che li hanno spinti a fare questo passo. Quello di cui va preso atto è che l’hanno fatto e, così facendo, hanno degradato e umiliato la comunicazione istituzionale e lo spazio pubblico alla condizione di account su una piattaforma digitale privata.

Certo, in quest’ultimo anno, la chiusura per decreto di una gran parte dei luoghi pubblici residuali – circoli culturali, spazi d’incontro, centri sociali, musei, teatri – peraltro bollati come “non essenziali” o “non vitali”, ha contribuito a rafforzare questa tendenza. Ma sarebbe un errore ritenere che l’assalto alle piattaforme digitali sia di questa “emergenza” soltanto una conseguenza. Sappiamo tutti per esperienza diretta che lo spazio pubblico si va dissolvendo anche per scelta di quei cittadini che trovano più comodo scambiare messaggi infuocati in un gruppo WhatsApp, oppure post al vetriolo sulla piattaforma di Facebook o ancora immagini dissacranti su Instagram, piuttosto che calarsi in carne e ossa nei luoghi vivi e faticosi del consorzio umano dove la tensione dialogica deve fare i conti con gli interlocutori in presenza. Come pure sappiamo che post, messaggi e videoconferenze sulle piattaforme non smuovono di un micron i rapporti di proprietà, ovvero i rapporti di produzione materiale della vita. Anzi, li riconfermano come i ricavi e i profitti di Facebook, Twitter, Google, Microsoft e altri ancora, impietosamente e in modo ostentato sono lì a dimostrare.

In difesa dello spazio pubblico

La difesa dello spazio pubblico e dei luoghi pubblici aperti a tutti cittadini e finalizzati all’esercizio del loro benessere relazionale e del loro diritto di coltivare incontri, confronti, atti-tudini e progetti, oggi pesantemente minacciato dall’abbandono delle istituzioni e dal processo di colonizzazione aggressiva trainato dell’oligarchia digitale chiede ad un tempo una disposizione antropologica e un immaginario istituente.

La prima riguarda la difesa del primato delle relazioni sociali e interpersonali sulle connessioni digitali; una battaglia contro il proprio personale e acritico sdoppiamento. Va da sé che in quest’epoca sono gli stessi contesti istituzionali che ci inducono, quando non ci obbligano, a operare in prevalenza con le nostre identità di connessione nei luoghi digitali: lavoro a distanza, didattica a distanza, esami a distanza, conferenze a distanza e così via. Non è però egualmente scontato che questi luoghi abbiano la stessa valenza di quelli in cui si affermano e si cimentano le nostre identità relazionali. La disposizione antropologica di cui parlo è allora quella che, pur non rinunciando ad operare in connessione, si batte per non subordinare o perdere il proprio ancoraggio relazionale; perché lì e soltanto lì la specificità dell’umano vive o muore.

L’immaginario istituente, invece, ci è richiesto dalla presa d’atto del sempre più profondo malessere personale e dall’accrescersi esponenziale delle disuguaglianze sociali verso cui il modo di produzione capitalistico, ancor più nella sua fase digitale, ci sta conducendo e precipitando. Non è vero che l’innovazione digitale porta a maturazione l’anima progressista del capitalismo. Il progresso dell’Intelligenza artificiale, degli algoritmi predittivi, e così via è direttamente proporzionale al conseguimento delle intenzionalità di profitto e di dominio in essi oggettivato. Altra cosa è la prospettiva del progresso sociale che oggi si misura sulla nostra capacità di acquisire coscienza delle istituzioni, degli ambienti e dei contesti che ci attraversano e dai quali dipendiamo, così come dal nostro impegno in prima persona nell’azione di gruppo per trovare insieme vie di fuga e di emancipazione dall’atomizzazione digitale e burocratica che ci paralizza.

Note

1) Sreenath Sreenivasan intervistato da Jaime D’A-lessandro; Repubblica, 10/01/21

2) Ansa

3) All’inizio di gennaio il governo ugandese ha bloccato l’accesso a Facebook e ad altre piattaforme accusandole di consentite la manipolazione del processo elettorale in corso. A elezioni avvenute le piattaforme oscurate sono state riaperte, ma non quella di Facebook.

4) Nel Myanmar, Facebook ha disattivato profili e pagine dei sostenitori dei generali che il 1 febbraio avevano assunto con un atto di forza il potere dello Stato. E questi, pochi giorni dopo, hanno limitato a loro volta gli accessi a Facebook.

5) Spagna, il 16 dicembre 2014 Google aveva indirizzato agli utenti spagnoli questo messaggio: “Google News ha chiuso in Spagna (…), in seguito ai recenti cambiamenti nella legislazione spagnola, le pubblicazioni degli editori spagnoli non compaiono più in ‘Google noticias’”.

6) Ansa

7) Kewin Carboni, Wired, 16/03/21

8) Repubblica, 1/11/21

9) Massimo Cacciari, Agenzia Adnkronos, 8/01/21

10) Vocidallestero

11) The Guardian; Carlo Bonini (a cura di), La guerra mondiale delle News, Longform, Rep, 7/03/21

12) Charles Wright Mills, The Power Elite, Oxford, University Press, New York, 1956.

13) Miguel Benasayag, La tirannia dell’algoritmo, Vita e pensiero, 2020

14) Enrico Pedemonte, Trump e i social asociali; in Limes 1-2001

Fonte

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