di Sandro Moiso
“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 )
“Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022)
“È un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)
Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere.
Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un
sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto
dal tipo di calcolo eseguito per stabilirlo, potenza economica mondiale;
dall’altro le considerazioni di un funzionario importante del governo
dell’esistente che indica le più che probabili conseguenze della
situazione venutasi a creare con la crisi pandemica, prima, e lo scoppio
della guerra in Ucraina, poi.
Sintomo, al di là delle squallide diatribe politiche interne, non soltanto di un paese privo ormai di qualsiasi strategia governativa che non sia quella di approfittare delle occasioni, ma anche di un’Europa, mai stata realmente unita dal punto di vista politico ed economico, ormai entrata, nonostante le pompose e sussiegose dichiarazioni che ne accompagnano ogni riunione, più o meno straordinaria, dei propri maggiori rappresentanti e ministri, in una fase di vistoso declino del proprio peso politico su scala internazionale.
La stessa insignificanza dei suoi due maggiori rappresentanti, Ursula von der Leyen e Charles Michel, rende evidente come un’entità politica nata con aspirazioni planetarie (si pensi soltanto all’istituzione dell’euro come possibile sostituto del dollaro e poi ridotto a strumento di controllo della riduzione della spesa pubblica interna di ogni singola nazione), l’Unione Europea, stia sostanzialmente sfiorendo senza aver portato a termine nessuno degli obiettivi immaginati all’atto della sua fondazione. In un percorso ormai sempre più evidentemente disastroso in cui gli incitamenti, nemmeno troppo mascherati, al far da sé e al si salvi chi può sembrano aver sostituito, finanche nella sostanza, i precedenti appelli all’unità di intenti e di propositi.
Se il capitalismo, come si è già ribadito in infiniti altri interventi, è il regno delle possibilità e delle opportunità da afferrare, in cui la prontezza di riflessi è più importante di qualsiasi tentativo di programmazione e in cui la forza e la capacità di appropriarsi, in qualsiasi frangente, di ciò che il caso o la necessità mettono a disposizione del predatore più rapido, risultano determinanti per il successo sia nelle iniziative economiche che politiche, la situazione creatasi dopo l’inizio delle ostilità in Ucraina ha visto i maggiori paesi europei perdere terreno rispetto alle iniziative diplomatiche, militari ed economiche non soltanto degli Stati Uniti, ma anche di paesi come l’India, la Turchia, Israele e vari altri diversamente collocati sullo scacchiere mondiale1.
La riunione del Consiglio europeo tenutasi a Bruxelles, in occasione
della visita del presidente Biden in Europa, ha messo perfettamente a
fuoco la situazione di divisioni e differenti interessi che ormai
segnano i percorsi e le politiche dei membri fondatori.
Così mentre l’obiettivo della difesa europea, di cui si vagheggia da
anni, si scontra con le scarse risorse che le sarebbero messe a
disposizione e un numero di soldati (5.000) francamente inappropriato
alla bisogna, si nota con sempre maggior evidenza uno smarcamento della
Germania dallo stesso progetto nel momento in cui il governo tedesco ha
deciso una spesa di 100 miliardi di euro per favorire il riarmo
nazionale.
Un riarmo che, come afferma il quotidiano «Handelsblatt» nel numero del 29 marzo 2022, richiederà:
Più munizioni, nuovi carri armati, aerei e navi da guerra – e ora anche uno scudo missilistico da miliardi di dollari: dopo il cancelliere federale Olaf Scholz (SPD), anche il leader della CDU Friedrich Merz ha segnalato l’approvazione per un possibile appalto del sistema israeliano “Arrow 3”, noto anche come “Iron Dome”.
Nel 2020, la grande coalizione aveva fermato lo sviluppo di una difesa missilistica tedesco-americana. Ma l’attacco russo all’Ucraina e la mancanza di prontezza operativa della Bundeswehr stanno ora cambiando le priorità. Gli acquisti devono essere effettuati in tutto il mondo dove i sistemi d’arma completamente sviluppati possono essere consegnati rapidamente.
Ciò si rende necessario, perché le capacità di molte aziende tedesche produttrici di armamenti sono già pienamente utilizzate, poiché, secondo la volontà espressa dalla Nato e dai paesi dell’UE, l’Ucraina dovrebbe essere rifornita di armi aggiuntive il più rapidamente possibile deviando le esportazioni di armi tedesche verso l’Ucraina per conto di paesi terzi.
Questo però non toglie dall’orizzonte la possibilità di un altro smarcamento che, nonostante le parole spese dal presidente di turno Macron, contraddistingue anche l’operato francese in ambito militare. È infatti impossibile credere che la Francia rinunci di punto in bianco ai sogni di autonoma grandeur che hanno sempre contraddistinto la sua politica militare e diplomatica. Confermata dalla condanna espressa da Macron nei confronti degli epiteti rivolti da Biden a Putin, durante il discorso tenuto a Varsavia, in vista della continuazione dei funambolismi diplomatico-umanitari francesi nel conflitto ucraino. Mentre il Regno Unito, oggi separato dall’UE a seguito della Brexit, continua allo stesso tempo il suo gioco diplomatico e militare nella regione baltica che, di sicuro, non può vedere di buon occhio il riarmo tedesco, soprattutto navale.
All’interno di tutti questi “giochi di guerra”, occorre ricordare che
l’attivismo italiano, che ha spinto molti a considerare l’attuale capo
del governo Draghi come un falco filo-americano, non fa altro che
confermare lo spirito di vassallaggio che anima le politiche italiane
fin dall’avvento della seconda repubblica, nata priva di quella relativa
libertà di azione economica e diplomatica che aveva caratterizzato le
politiche democristiane in ambito mediterraneo.
Un vassallaggio che tenta di approfittare dell’attuale situazione di
necessità bellica per rilanciare su grande scala la produzione e
l’esportazione di armamenti che, nel corso degli anni, ha visto
scivolare l’Italia al settimo e al nono o decimo posto nella classifica
mondiale dei produttori ed esportatori di armi.
Proposito oggi ancora virtuale se si considera che la cosiddetta “cittadella dell’industria degli armamenti” prevista a Torino, con tanto di uffici di rappresentanza Nato, è ancora ampiamente da realizzare, mentre nel settore aeronautico, così spesso pubblicizzato per quanto riguarda l’”eccellenza” italiana, per ora l’industria della difesa nazionale deve accontentarsi di funzionare come un’autentica “maquilladora” per l'assemblaggio degli F-35 a Cameri. Aerei cui gli stessi Stati Uniti stanno iniziando a rinunciare in favore di altri armamenti più evoluti e sofisticati.
Propositi, però, che richiedono per ora il pieno sostegno alle iniziative statunitensi in Europa orientale e l’accoglimento di ogni richiesta di Zelensky, compresa magari anche quella di fornire truppe e impegno per garantire domani, sul territorio ucraino, l’integrità nazionale e l’autonomia difensiva del paese oggi investito dalla guerra. Davvero una gran brutta gatta da pelare, in prospettiva, qualsiasi siano i risultati del conflitto in corso.
Se sul fronte militare l’unità europea è una chimera, ancora di più
lo è sul piano dei rifornimenti strategici di materie prime, in primo
luogo di gas e petrolio, compresa la diatriba sul loro eventuale
pagamento in rubli, come richiesto da Putin.
È proprio in questo settore, oggi delicatissimo vista la dipendenza
europea dal gas e dal petrolio russo, che si è assistito infatti ad
un’autentica corsa a far profitto da parte degli stati europei che hanno
a disposizione tali risorse, come ad esempio la Norvegia che ha
ignorato gli appelli di altri al fine di contenere i prezzi, oppure il
differente approccio alla proposta americana, tutt’altro che
disinteressata, di sostituire il gas russo con quello di produzione
statunitense e di rinunciare al petrolio in arrivo dalla Russia per
sostituirlo con altro la cui provenienza è ancora in gran parte da
definire (considerato anche l’interesse di Arabia Saudita ed Emirati del
Golfo a far affari con la Cina, magari in yuan).
Cosicché anche il tentativo maldestro di Giggino Di Maio di
avvicinamento alle risorse del Qatar, si è risolto di fatto in un
fallimento, diplomatico ed economico.
Sempre la Germania, evidentemente alla ricerca di una più libera e autonoma politica diplomatica ed economica, si è apertamente dichiarata contraria alla rinuncia totale e quasi immediata al petrolio russo e, al recente G4 convocato da Biden, addirittura favorevole a una riduzione progressiva delle sanzioni adottate nei confronti di Mosca (qui); mentre nel settore del gas si presenta ormai in diretta competizione con l’Italia proprio sul tema della caccia ai rigassificatori, o meglio nella corsa all’acquisto di quelle poche navi già disponibili ed attrezzate per convertire il gnl americano in gas utilizzabile in Europa. Cosa che, va ricordato, aumenterebbe mediamente del 30% il costo del gas rispetto a quello trasportato dalle linee provenienti dalla Russia.
È anche alla luce di questi elementi che andrebbe interpretata la svolta politico-diplomatica e militare sottesa alla visita e al discorso di “Sleepy Joe” Biden in Polonia. Discorso di un presidente anziano che riflette simbolicamente, nella sua persona, la stanchezza e le difficoltà di una grande potenza in declino che può ancora minacciare, ma non più affascinare o convincere. Svolta che si potrebbe definire storica se non fosse per l’attenzione che i media embedded hanno rivolto più agli insulti di Biden al presidente russo che non ai fatti che quel discorso e quella comparsata rappresentavano di fatto, ovvero il radicale riposizionamento militare americano nell’Europa dell’Est.
Gli osservatori più attenti da tempo segnalavano che l’ingresso nella Nato dei paesi dell’Europa Orientale un tempo appartenenti al Patto di Varsavia e il loro progressivo inserimento dell’Unione Europea rappresentavano per la politica di Washington non soltanto la costruzione di un muro ostile nei confronti di qualsiasi manovra russa verso occidente, ma anche, e forse soprattutto, un modo per imbrogliare le carte dei giochi di un’Unione più strettamente federata, sotto l’egida tedesca e forse anche francese, per impedirle di assurgere a ruolo di potenza autonoma sul piano internazionale.
Già nel settembre del 2015, chi scrive aveva affermato, proprio su «Carmilla», a proposito delle diatribe sull’accoglienza e sulle quote dei migranti da distribuire tra i differenti paesi europei:
quello a cui stiamo assistendo, con buona pace delle anime pie, non è un risveglio della “coscienza” europea ed europeista, ma soltanto un altro passo verso quel III conflitto mondiale di cui da tempo vado scrivendo.
La gestione del problema migratorio di centinaia di migliaia di profughi, esattamente come quello del possibile default o meno della Grecia, non risponde infatti a categorie di ordine morale o umanitario e, tanto meno, a quelle di carattere sociale o del pubblico bene. Risponde però, nel precipitare di una crisi economica, geopolitica e militare sempre più vasta a livello mondiale, alla domanda su chi debba comandare in Europa ovvero in una delle aree del globo con la più alta concentrazione di ricchezza accumulata e su come tale ricchezza accumulata debba essere investita e ricollocata all’interno della competizione inter-imperialista mondiale.
Al centro di questa domanda, e delle risposte che ne conseguiranno, non vi è l’interesse dei “popoli”, ma lo scontro tra due modelli diversi di sviluppo capitalistico: da un lato quello anglo-americano e dall’altro quello germanico. Modello quest’ultimo che già ha guidato due volte la Germania, nel coso del XX secolo a cercare di istituire un vasto territorio “vitale” per i propri interessi economici ed industriali che si estendeva e si estende, idealmente, dall’Atlantico al Volga e dal Mare del Nord al Mediterraneo. Un autentico lebensraum che, se nel corso del secolo passato ha assunto la forma dell’occupazione militare vera e propria, oggi cerca di manifestarsi principalmente attraverso il disciplinamento di ogni attività economica, finanziaria ed amministrativa, così come della forza lavoro, europea.
[…] l’attuale costruzione di muri e la susseguente chiusura delle frontiere, così come il braccio di ferro sulle quote, non possono preludere che ad altre guerre per ridefinire il comando capitalistico su economie, territori ed esseri umani, migranti e non. Anche qui, nel cuore dell’Europa. E il gran rifiuto opposto a Bruxelles dallo schieramento dei paesi dell’Europa dell’Est alle proposte di Jean Claude Juncker non costituisce soltanto un episodio di calcolo politico elettoralistico ispirato dal populismo e dal razzismo, ma un ulteriore passo in quella direzione (qui).
Così, mentre nuove folle di migranti e profughi si accalcano alle frontiere d’Europa e gli amministratori dell’esistente si appellano, come Mario Draghi, al buon cuore dei propri cittadini per far dimenticare loro che in un prossimo futuro si potrebbero trovare in una situazione simile o peggiore, spostando l’attenzione mediatica da ciò che è essenziale a ciò che più facilmente colpisce le coscienze individuali, tutto quello che all’epoca si poteva già intuire, oggi si è trasformato in tragica realtà quotidiana.
Biden, a Varsavia, ha promosso, con parole comunque sempre calibrate sull’obiettivo, la Polonia a “nuova frontiera” della Nato e delle attenzioni americane per un’Europa non più a sola conduzione germanica; scegliendo di fatto un paese in cui l’orgoglio nazionale e nazionalista ha sempre determinato sia l’inimicizia con la Russia che una scarsa simpatia nei confronti della Germania. Nazioni viste entrambe come nemiche o, perlomeno, avverse per i propri interessi territoriali. Paese, la Polonia, che però non ha mai rinunciato a mire espansionistiche verso est, sia in nome dei territori da cui è stata separata dopo la prima e la seconda guerra mondiale, compensati con territori un tempo appartenenti alla Germania, che di altre ben più antiche aspirazioni, risalenti fino al periodo a cavallo tra tardo medioevo e prima età moderna, di cui è rimasta traccia anche nella cultura letteraria russa attraverso le pagine del Taras Bulba di Nikolaj Gogol’, ambientato per l’appunto nel XVI secolo.
Rispolverando, in sostanza, il progetto politico Intermarium, esposto fin dagli anni Venti dal polacco generale (e dittatore) Józef Piłsudski, «volto a creare un blocco di paesi che andava dal Mar Baltico al Mar Nero, nel tentativo di contenimento delle due forze imperialiste: tedesca a occidente e russa ad oriente»2. Strada già perseguita da Donald Trump che, nel luglio del 2017, partecipò al Vertice Trimarium di Varsavia.
Con il consenso degli apparati strategici statunitensi, dove alcuni immaginano di chiudere il cerchio del Mar Nero, includendo nel blocco deputato ad allargare la distanza fra Mosca e Berlino persino ciò che resta della Moldova, Ucraina e Georgia, così conferendo al Trimarium un retrosapore antiturco. […] Nei laboratori dell’intelligence statunitense circola il possente volume dello storico polacco-americano Marek Jan Chodakiewicz sull’Intermarium. Per l’autore, concezione di origini medievali, quando lo spazio dei Tre Mari3 «era solido difensore della civiltà occidentale» contro i mongoli. Oggi «culturalmente e ideologicamente più che compatibile con gli interessi nazionali americani». Non basta: Chodakiewicz designa la «cultura politica americana erede della libertà e dei diritti derivati dalla tradizione del Commonwealth Polacco-Lituano-Ruteno». E invita gli Stati Uniti a usare l’Intermarium/Trimarium da “trampolino” per trattare” tutti i paesi ex-sovietici, «Federazione Russa inclusa». L’«impero» polacco come devastante braccio regionale della potenza a stelle e strisce?4
Polonia, che potrebbe diventare sede di una prossima e potente base
Nato, che a sua volta potrebbe esplicitare la posizione e la vicinanza
delle forze armate statunitensi nei confronti sia dell’orso russo che di
un’eventuale riottosità germanica (economica, diplomatica, militare e
quindi geopolitica) futura. Raccogliendo attorno a sé tutte quelle aree
in cui la Germania primeggia ancora
come primo partner commerciale5
e rafforzando la posizione polacca all’interno del Gruppo di Visegrád e
nei confronti dell’Ungheria, fino ad ora contraria alle sanzioni verso
la Russia e che ha impedito sul suo territorio il passaggio
di armi occidentali destinate agli ucraini.
A questa scelta americana di sviluppare una maggiore influenza
politica e presenza militare nei paesi dell’est europeo, a partire dalla
Polonia letteralmente incoronata come genuina paladina dei diritti e
delle libertà occidentali in quella stessa area, va affiancata la
decisione della presidenza statunitense di incrementare ulteriormente la
spesa militare per l’anno a venire, portandola alla cifra complessiva
di 813,3 miliardi di dollari. Tale previsione di spesa, se promulgata,
potrebbe essere la più grande di sempre nell’ambito della “difesa”.
Con una manovra che è stata definita, sia in patria che in Europa, come
un’autentica manovra economica di guerra. «È un budget di guerra in
tempi di pace – almeno sul suolo statunitense – quello che la Casa
Bianca ha proposto ieri inviando numeri e tabelle, progetti e richieste
al Congresso. La cifra totale del bilancio americano per l’anno fiscale
2023 è di 5800 miliardi di dollari. Ed è la voce sicurezza nazionale a
prendersi la fetta più consistente dei fondi. Per la macchina della
difesa Usa, la Casa Bianca chiede 813,3 miliardi di dollari, un
incremento del 4% rispetto allo scorso anno: di questi 773 sono
destinati al Pentagono»6.
Ma, com’è facile immaginare, non è soltanto la necessità di rispondere “energicamente” all’azione di Putin in Ucraina a giustificare l’aumentata richiesta di fondi.
La finanziaria, come ha detto Kathleen Hicks, numero due del Pentagono, «tiene a mente l’Ucraina», ma non si ferma nel cuore dell’Europa. Ha riassunto con efficacia la visione Usa, il capo della divisione finanziaria del Pentagono, Michael J. McCord: «La minaccia russa è molto acuta, ma la priorità è contrastare le ambizioni della Cina nel Pacifico».
Biden ha proposto «uno dei più grandi investimenti nella storia, con fondi necessari per garantire che l’esercito Usa resti il meglio preparato, addestrato ed equipaggiato al mondo». Non si tratta solo di conservare, ma di innovare: infatti una fetta record dei soldi – 131 miliardi – andrà alla ricerca e sviluppo per nuove armi. Al Pentagono sono rimasti impressionati dai passi in avanti che russi e cinesi hanno fatto sui missili ipersonici, mentre i test Usa recenti in tale settore non sono stati un successo.
[…] La lista delle priorità disegna il futuro delle forze armate Usa: detto dei maggiori investimenti in armi sofisticate e della rinuncia a 24 F-35, Washington ha individuato nella costruzione di nuove fregate e navi, nel sistema missilistico e nelle armi spaziali i mezzi per monitorare e intimidire la Cina. […] Washington allarga il campo di azione del futuro, ma già oggi resta impegnata su più fronti. Il contenimento russo ha nella missione iniziata in marzo 8000 uomini in Alaska uno dei capisaldi Usa, mentre sono iniziate le esercitazioni con l’esercito filippino nell’Estremo oriente: ci sono 9mila uomini, truppe anfibie, aviazione e mezzi navali. Avvertimento questo alle ambizioni cinesi su Taiwan7.
Se si osserva che per finanziare tale budget il presidente Biden si è
dichiarato favorevole ad un aumento delle tasse sui patrimoni dei più
ricchi (fino al 20% per quelli superiori ai 100 milioni di dollari) e,
allo stesso tempo, ad una riduzione delle richieste a favore della spesa
sociale8, si capirà che ci si trova davvero davanti ad un’autentica manovra “da guerra”.
Nel riportare tutto ciò, non vi è alcun narcisismo geopolitico o
economicistico, quanto piuttosto la necessità, come già sottolineato
altre volte, di segnalare l’imminenza di una guerra allargata cui il
principale imperialismo si va preparando da tempo, soprattutto dopo il
ritiro tutt’altro che elegante e vittorioso dallo scenario afghano.
Chi, oggi, si accontentasse ancora dei risultati che potrebbero
essere conseguiti dalle trattative in corso tra russi e ucraini, oppure
della fin troppo sbandierata data del 9 maggio per vedere un segnale di
ritorno alla normalità e di scampato pericolo, commetterebbe un grave
errore. Abbassando ancora una volta la guardia nei confronti degli
avversari, che sono tanti ad Est come a Ovest.
La rapacità capitalistica e imperiale di cui le maggiori forze in campo
sono espressione non darà più tregua, procedendo di vittoria in vittoria
o di sconfitta in sconfitta verso la catastrofe finale destinata a
ristabilire il vecchio ordine occidentale oppure uno nuovo9
su scala planetaria, ma che difficilmente potrebbe prevedere ancora
l’attuale multipolarismo, dovuto più al processo di invecchiamento
dell’ordine americano che ad una scelta ben precisa e ponderata.
Ad anticipare i disastri che verranno, soprattutto per i lavoratori e la gente comune di tutto il mondo, ci hanno pensato non soltanto le dichiarazioni del governatore della Banca d’Italia posta in esergo a questo intervento, ma anche il «Financial Times» del 29 marzo, con un editoriale intitolato I britannici affrontano uno “shock storico” per i loro redditi, avverte il governatore della BoE, in cui il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, afferma che l’invasione russa dell’Ucraina esacerberà la crisi del costo della vita nel Regno Unito.
Bailey ha detto che i britannici stanno affrontando uno “shock molto grande per aggregare entrate e spese reali” dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni importati. E, a un evento organizzato dal think-tank Bruegel, a Bruxelles, ha ancora affermato: “Questo è davvero uno shock storico per i redditi reali”. Bailey ha detto che l’invasione russa dell’Ucraina ha esacerbato lo shock dell’approvvigionamento energetico, aggiungendo: “Lo shock dei prezzi dell’energia quest’anno sarà più grande di qualsiasi singolo anno dal 1970. L’avvertenza è che gli anni 1970 hanno avuto una successione di anni difficili e speriamo vivamente che non sia il caso ora. Ma come singolo anno, questo è uno shock molto, molto grande”. L’inflazione del Regno Unito è salita vertiginosamente durante gli anni 1970 dopo che i membri arabi dell’Opec, il cartello dei produttori di petrolio, hanno imposto un embargo sul greggio ai paesi che avevano sostenuto Israele nella guerra dello Yom Kippur. Bailey ha detto che il Regno Unito e l’eurozona stanno affrontando uno shock energetico simile, perché entrambi si affidano allo stesso mercato del gas, aggiungendo che è diverso per gli Stati Uniti a causa della loro maggiore offerta interna. […] La scorsa settimana, l’Office for Budget Responsibility, il cane da guardia fiscale della Gran Bretagna, ha previsto che il reddito reale delle famiglie britanniche quest’anno si contrarrà nel modo più grave da quando sono iniziate le registrazioni nel 1950. Bailey ha dichiarato: “Ci aspettiamo che causi la crescita e il rallentamento della domanda. Stiamo iniziando a vederne la prova sia nei sondaggi tra i consumatori che in quelli aziendali”.
[…] Nel frattempo il cancelliere Rishi Sunak ha detto al comitato ristretto del Tesoro della Camera dei Comuni di essere determinato a frenare l’indebitamento e la spesa pubblica, temendo che una politica fiscale più accomodante potesse alimentare ulteriormente l’inflazione. Sunak ha detto che un aumento di un punto percentuale dell’inflazione e dei tassi di interesse potrebbe “spazzare via” il margine di manovra che aveva incorporato nei suoi piani fiscali e di spesa in vista delle prossime elezioni10.
Facendo così pensare che i 100 milioni di nuovi poveri di cui ha parlato Visco, potrebbero essere non soltanto nei paesi “già” poveri ma anche, e forse soprattutto, qui, nel cuore dell’impero, fortemente provato dalla pandemia e dai suoi effetti economici, dove il biglietto che molti avevano creduto di acquistare per un viaggio in prima, o al massimo in seconda classe, è letteralmente esploso tra le mani degli acquirenti. Annullandolo insieme ai privilegi che si pensavano “acquisiti” e alla stessa destinazione immaginata. Trasformando la prevista trasferta verso una qualsiasi Disneyland dell’immaginario occidentale in un’autentica discesa negli inferi novecenteschi, tra i demoni che li abitano e che non sono mai del tutto scomparsi.
Mentre soltanto noi, se saremo conseguenti una volta acquisita la coscienza del fatto che ogni guerra ha anche sempre un suo fronte interno, che non segue linee verticali di divisione tra le nazioni ma soltanto orizzontali tra le classi, potremmo decidere come dirottare questo treno degli orrori verso una nuova e imprevista destinazione.
(10 – continua)
Note
Su questi ultimi si veda qui
Si veda in proposito: Le teorie geopolitiche di Pilsudsky per l’Europa centro-orientale: prometeismo e Intermarium, in Giorgio Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci editore, Roma 2021, pp. 210-217
Mediterraneo, Baltico e Mar Nero
Meglio un muro che la guerra, in Trimarium tra Russia e Germania, «Limes» n° 12/2017, p.23
Nell’ordine, la Germania rappresenta il 29,6% del commercio totale della Slovacchia; il 29,4% di quello della Repubblica Ceca; il 27,5% di quello polacco; il 27% dell’Ungheria; circa il 18% di quello sloveno e ancora il primo partner per la Croazia, la Bosnia Erzegovina e la Bulgaria
Alberto Simoni, Biden, manovra di guerra. “Per la difesa 813 miliardi”, «La Stampa», 29 marzo 2022
A. Simoni, cit.
Biden’s Budget Calls for Increase in Defense Spending, «Wall Street Journal», March 29, 2022
Come il recente incontro tra i rappresentanti di India e Cina, proprio nei giorni in cui Biden era in Europa, potrebbe far pensare, visti i gravi screzi che hanno caratterizzato da anni i rapporti tra le due potenze asiatiche
Valentina Romei-George Parker, Britons face ‘historic shock’ to their incomes, BoE governor warns, «Financial Times», 29 marzo 2022
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