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05/04/2022

Quel “giornalismo di guerra” che non aiuta a comprendere il conflitto

L’invasione russa dell’Ucraina, lo scorso 24 febbraio, ha messo alla prova il giornalismo di tutto il mondo, poiché la guerra non è solo il cimitero della verità, ma anche un evento estremo che mette in primo piano le domande di fondo: qual è il compito precipuo dell’informazione, la sua ragion d’essere?

I manuali di giornalismo indicano chiaramente la via: informare verificando ogni notizia, scansando la propaganda; contribuire a un dibattito serio e approfondito, che colga e valuti ogni aspetto del conflitto in corso.

In attesa di analisi più articolate e scientificamente fondate, possiamo già dire qualcosa sul giornalismo italiano osservato nei giorni successivi all’aggressione militare.

La prima impressione è netta: il nostro sistema mediatico – quello mainstream, diciamo i tre  quotidiani più diffusi, i principali network tele e radiofonici – ha mostrato enormi difficoltà a seguire tale via maestra. L’informazione è stata tempestiva e abbondante, coi fatti seguiti ora per ora, con numerosi corrispondenti dai luoghi del conflitto, ma si è ceduto rapidamente, secondo abitudini consolidate, a un registro prevalentemente emotivo, nei canoni sperimentati dalla  cosiddetta “tv  del dolore” (e della paura).

Molto cuore, molta commozione, ma scarsa attitudine a proporre analisi, prospettiva storica, pluralità di punti di vista. Scarsa attitudine, soprattutto, a stimolare una discussione profonda prima di compiere scelte delicate, come, ad esempio, il sostegno militare all’Ucraina.

Sono sette i Paesi europei dove sono dislocate testate nucleari. Oltre a Francia e Gran Bretagna (che ne hanno di proprie) si trovano anche nelle basi Nato in Olanda, Belgio, Germania, Italia e Turchia.

Il governo italiano ha preso le sue decisioni – le forniture di “armi letali” e lo stato d’emergenza – senza esplicitare davvero né le motivazioni né i possibili effetti di tali scelte. Non si è nemmeno chiarito se l’invio di materiali bellici sia compatibile con l’articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali e con la legge 185 sul commercio di armi. Né si è stabilito se l’Italia debba considerarsi o no, dopo tale scelta, co-belligerante, come alcuni giuristi ed ex generali hanno subito affermato.

I principali commentatori ed editorialisti hanno immediatamente assunto una postura che potremmo definire “interventista”, in sintonia con governo e Parlamento, in un clima di sovraeccitazione, tanto da far correre il pensiero al fervore del “maggio radioso” di oltre un secolo fa, quando una travolgente campagna politica e mediatica spinse l’Italia nella Grande guerra.

La logica di schieramento ha preso il sopravvento sul bisogno di riflessione.

Le voci dissonanti (chi ha paventato un’estensione del conflitto, chi si è impegnato a ricostruire il ruolo della Nato dopo la fine dell’Urss con la sua discutibile espansione verso Est, chi ha fatto notare la discrepanza fra gli interessi della Nato a guida Usa e l’Unione europea, chi ha chiesto alla Ue di assumere un ruolo di mediazione anziché di parte in causa nel conflitto, chi ha parlato di resistenza civile da preferire a quella armata) sono state escluse dal dibattito, o relegate ai suoi margini.

O, peggio ancora, è stato indicato come “amico di Putin”.

La stessa manifestazione contro la guerra del 5 marzo è stata mal sopportata e quindi mal raccontata e poi espressamente attaccata (si è affermato nei media e in politica un esplicito antipacifismo). Un comodo “giornalismo di guerra” sembra avere preso il posto di un più difficile, ma necessario, “giornalismo nella guerra”.

Comunque vada a finire, sarà difficile recuperare la credibilità perduta.

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