Per una serie di circostanze, presumibilmente non fortuite, la notizia apparsa il 4 giugno, a proposito della presenza di mercenari polacchi del Polski Korpus Ochotniczy (PKO), insieme ai terroristi del Corpo Volontario Russo (RDK: Russkij Dobrovol’ceskij Korpus), che lo scorso 22 maggio ha attaccato alcuni villaggi confinari nella regione russa di Belgorod, è coincisa con la richiesta presentata dal presidente della Duma russa, Vjaceslav Volodin, al Comitato investigativo e alla Procura generale, di tornare a indagare sulla morte di decine di migliaia di soldati del giovane Esercito Rosso nei lager polacchi negli anni 1919-1921, dopo la guerra russo-polacca.
Che mercenari polacchi, insieme a decine di altre nazioni, agissero prima in Donbass, a dar man forte alle truppe di Kiev e, dopo il 24 febbraio 2022 nella stessa Ucraina, è cosa nota. Ma, con la pubblicazione di alcuni video da parte di PKO e il comunicato del RDK, è venuta l’aperta ammissione: «Non da ora i nostri compagni d’armi polacchi combattono effettivamente con noi, fianco a fianco per la libertà e l’indipendenza dell’Ucraina. Insieme, siamo già riusciti a compiere una serie di operazioni sulle direttrici di Orekhov, Zaporož’e e Bakhmut. I ragazzi si sono mostrati all’altezza, con un alto livello di motivazione e preparazione».
Un’ammissione così sfacciata che i nazi-golpisti di Kiev sono stati redarguiti e si sono visti costretti a imporre al RDK di fare un passo indietro, così che è apparso un nuovo comunicato: «Per quanto riguarda le operazioni in territorio russo, i combattenti del PKO hanno assicurato scorta dei prigionieri, logistica medico-militare, ma solamente all’interno dei confini di stato ucraini».
In una maniera o in un’altra, sembra di assistere al mai sopito sogno polacco di una “crociata su Mosca”.
Così, le “imprese” dei moderni reazionari polacchi, istituzionali o “volontari”, meritano il giusto rilievo; ma anche quelle dei loro antenati non devono cadere nell’oblio; tra l’altro, anche perché i caporioni del moderno PKO si equiparano ai famigerati “Ussari della morte” di Jozef Sila-Nowicki, ricalcandone anche la simbologia, cioè la Dywizjon Huzarow Smierci, che si distinse nella repressione di polacchi e nell’uccisione di prigionieri russi nella guerra russo-polacca.
Delitti simili, ha detto Volodin, non hanno termine di prescrizione. Ma vengono deliberatamente ignorati o, al massimo, tenuti sotto traccia, aggiungiamo noi; a differenza del circo mediatico sugli ufficiali polacchi fucilati dai nazisti a Katyn’, che da decenni tiene invece banco in ogni rappresentazione “storica” anti-sovietica, facendo il paio con l’omelia nazi-golpista ucraina sul cosiddetto “golodomor stalinista”.
E dunque: se a proposito degli attacchi di fascisti russi e mercenari polacchi, armati e riforniti con mezzi ucraini – a proposito: oltre alla proposta di Evgenyj Prigožin, di spostare distaccamenti della “Wagner” a difesa della regione di Belgorod, è arrivata anche quella del leader ceceno Ramzan Kadyrov, di inviare nella regione 70.000 uomini degli spetsnaz ceceni – si parla diffusamente su quasi tutti i mezzi di informazione, la proposta di Volodin merita qualche parola in più.
Sulle pagine di questo giornale, più di una volta si è accennato (soltanto accennato, all’interno di altri temi) alla sorte dei prigionieri di guerra russi nei lager polacchi oltre cento anni fa. L’indagine cui, per parte nostra, si è sempre fatto riferimento, è la seconda parte del volume dello storico russo Vladislav Šved “Katyn’”, che l’autore intitola, per l’appunto, “Antikatyn’ o i Soldati Rossi nella prigionia polacca”.
Un centinaio di pagine in cui l’autore, sulla base di poco meno di settecento pagine di documenti pubblicati nel 1922 dal Ministero degli esteri della RSFSR, di indagini russo-polacche (quando i rapporti Mosca-Varsavia erano di tutt’altro tipo che non gli attuali), di rapporti della Croce Rossa e dell’Associazione americana della gioventù cristiana dell’epoca, documenta le condizioni inumane (ovviamente disconosciute dall’attuale Varsavia) in cui vennero tenuti i prigionieri russi, tanto da provocare la morte di massa di oltre la metà, se non di più, degli oltre 130.000 (secondo altre fonti: 165.500; secondo lo Stato maggiore polacco: 206.877) “krasnoarmejtsy” rinchiusi nei lager.
Šved accenna anche alle memorie di una serie di futuri ufficiali e generali dell’Esercito Rosso, distintisi poi nella Guerra patriottica del 1941-1945, sopravvissuti vent’anni prima ai lager polacchi: tutti parlano di fame, freddo, sete, percosse, privazione di calzature e indumenti, assenza di baraccamenti; testimonianze confermate anche da alcune note stese negli anni ’20 da medici militari polacchi, che parlavano dei lager come di «cimiteri di scheletri mezzo morti e mezzo nudi», o di «focolai di pestilenza e uccisione di persone per fame» e denunciavano quelle condizioni come «una macchia indelebile sull’onore del popolo e dell’esercito polacco».
E, in particolare, Šved smentisce alcune affermazioni polacche – fatte proprie anche da massimi esponenti russi ancora una quindicina d’anni fa – secondo cui le vittime russe sarebbero state “appena” 16-18.000, per lo più morti di tifo. Solamente nei lager di Strzalkowo e Tuchola, scrive Šved, in cui ad esempio nel novembre 1919 morivano per malattie fino a 70-90 prigionieri al giorno, morirono più di 30.000 prigionieri russi; il 1 febbraio 1922, il tenente-colonnello Ignacy Matuszewki riferiva al Ministro della guerra polacco, della morte di 22.000 prigionieri nel solo lager di Tuchola.
Ancora nel 1998, storici russi, sulla Rivista storico-militare, parlavano di almeno 82.500 soldati rossi morti nella prigionia polacca, comprendendo nella cifra anche i prigionieri morti di fame, prima ancora di arrivare a destinazione, rinchiusi nei vagoni merci con cui venivano trasportati senza cibo, per giorni e giorni, verso i lager: in questi casi, la mortalità arrivava al 40-60% dei «bolscevichi prigionieri».
Il rappresentante della Croce Rossa internazionale, che nel 1919 visitò il lager di Bugshupe (uno dei 5-6 campi allestiti nel territorio della fortezza di Brest) riferì che due gravissime epidemie di tifo e dissenteria avevano falciato 180 uomini in un solo giorno.
Senza contare – dati forniti nel 1919 dal Comando supremo del Wojsko Polskie – la pratica in uso presso alcuni reparti polacchi di fucilare sul posto o impiccare i prigionieri dell’Esercito Rosso: in primo luogo, secondo una “tradizione” fatta poi propria dalla Wehrmacht, commissari, comunisti, comandanti e ebrei; soprattutto commissari e ebrei, secondo uno spirito che si sarebbe tramandato negli anni successivi: questo, tanto per chiarire il valore della “legge” polacca odierna, sulla proibizione di dire o scrivere della partecipazione polacca allo sterminio degli ebrei.
A onor del vero, i prigionieri non erano solo russi, ma anche baltici, bielorussi, ucraini, tedeschi; in ogni caso, sembra che in quel periodo, in diversi casi, “istruttori” francesi indicassero il numero di prigionieri da fucilare: è noto come, nel corso della guerra civile, ufficiali francesi dirigessero le operazioni delle truppe bianche a nord, mentre quelli britannici operavano con le forze contro-rivoluzionarie a sud e nel Caucaso.
Nell’autunno del 1920, il comandante del lager di Brest-Litowsk parlò così ai prigionieri appena arrivati: «Voi, bolscevichi, volevate prendere la nostra terra: bene, io la terra ve la darò. Io non ho il diritto di uccidervi, ma vi nutrirò in modo tale che creperete da soli».
Stesso sistema, si racconta, nei lager di Zdunska Wola, Torun, Dorogusk, Plock, Radom, Przemysl, L’vov, Dombe, Petrokov, Wadowice, Bialystok, Baranowici, Vil’no, Ruzany, Bobruisk, Grodno, e tanti altri, situati anche nelle regioni occupate di Ucraina e Bielorussia occidentali.
Non da invidiare nemmeno la sorte di quei prigionieri mandati a lavorare per alcuni nobili polacchi: si racconta di un conte (il nome non viene citato) che, dopo aver utilizzato i soldati rossi prigionieri per costruire una sorta di castello sul fiumicello Mistintsa, presso il villaggio di Šešory (oggi località sciistica nella regione ucraina di Ivano-Frankovsk) li “liberò” nel bosco, dopo di che, lui e gli ospiti del castello, andarono a caccia dei prigionieri, con cani e fucili.
Al processo di Norimberga, fu stabilito che centinaia di migliaia di soldati dell’Esercito Rosso erano stati deliberatamente lasciati morire di fame nei lager nazisti nel 1941-1945: nel 1919-1922, scrive Šved, un simile “golodomor” (“holodomor”, per dirla nella lingua dei suoi diffusori ucraini) era stato deliberato da Varsavia per i «bolscevichi e gli ebrei russi».
Un “golodomor” che, a differenza della carestia del 1932-’33, che aveva interessato molte regioni dell’Unione Sovietica (e anche di Polonia e Romania, sia detto per inciso) e nient’affatto “scientemente programmato” dai «bolscevichi russi ai danni del popolo ucraino», costituì la sanguinaria risposta dell’allora szlachta polacca al tentativo (poi riconosciuto “avventato” dallo stesso Lenin) di portare la rivoluzione a ovest dei confini russi, compiuto sulla spinta della controffensiva opposta dalla RSFSR all’attacco polacco per impossessarsi di Vil’no (l’attuale Vilnius), Kiev, Minsk, Smolensk e, nei sogni di Jozef Pilsudski, anche Mosca.
La narrazione sulla strage degli ufficiali polacchi, perpetrata nel 1941 nei boschi vicino a Smolensk, venne messa in circolazione da Joseph Goebbels sin dal 1943, per riequilibrare le sorti propagandistiche naziste dopo la batosta di Stalingrado e dette il via a una narrazione “fertile” tutt’oggi negli ambienti liberali, nonostante tutte le prove indichino la matrice nazista del massacro.
Di contro, “Antikatyn’”, con testimonianze e documenti di fonti internazionali, merita qualcosa di più del silenzio sotto cui sono stati lasciati, per tanti decenni, i prigionieri rossi di una Polonia che, esclusa la parentesi della Repubblica popolare, prima di divenire reazionaria e sanfedista, era passata per la dittatura di Pilsudskij e l’alleanza con la Germania hitleriana.
La “Katyn’” polacca dei «bolscevichi e ebrei russi», insieme all’omelia del “holodomor” nazi-ucraino, dice qualcosa non tanto o non solo sulla russofobia dei nani post-sovietici, e parla apertamente delle sciagure del nazionalismo reazionario al servizio sia degli interessi delle borghesie locali, che delle mire globali dell’imperialismo, «genti fangose in quel pantano» dantesco.
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