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04/02/2024

“Povere creature!”: Bella e le bestie umane in una fiaba crudele

Che la Londra vittoriana fosse una fucina di mostri e di mistero non è certo una novità: ci sono Jack lo Squartatore e Dracula, il dottor Jekill e Mr. Hide, “l’uomo elefante” del film di David Lynch, i mostri e i fantasmi contro cui deve vedersela Sherlock Holmes e innumerevoli altre creature terrificanti. Basta dare uno sguardo al bel libro di Franco Pezzini, Victoriana. Maschere e miti, demoni e dei del mondo vittoriano, uscito per Odoya nel 2016, che ci offre un esaustivo panorama a tutto tondo. La capitale inglese, sul finire dell’Ottocento, sembra poi essersi trasformata – quasi al pari della Transilvania, divenuta ricettacolo di vampiri, di creature in stile Frankenstein e di uomini-lupo – in una fucina di mostri perché si è configurata come lo scenario cittadino perfetto, all’interno dell’immaginario collettivo, per storie paurose e mostruose. Anche per una fiaba cinematografica a metà tra horror, commedia e scenario steampunk come Povere creature! (Poor Things, 2023) di Yorgos Lanthimos, tratta dall’eponimo romanzo di Alasdair Gray del 1992. Ma la Londra vittoriana che vediamo nel film sembra appunto appartenere ad una fiaba: distorta dai grandangoli, come del resto le altre città dove si recano i personaggi, disseminata di elementi fantastici con gusto steampunk, come nel Castello errante di Howl di Miyazaki, con uno skyline urbano e passeggiate sui tetti degni di molti scenari di Mary Poppins, diretto da Robert Stevenson nel 1964. In questa Londra ottocentesca fantastica e iperreale, il medico e scienziato Godwin Baxter vive in una enorme casa onirica come un dipinto di Escher, disseminata di animali ibridi, frutto degli esperimenti del padrone di casa, e macabri laboratori dove si trovano cadaveri ancora freschi. Nei primi momenti del film vediamo già la creatura di Baxter, Bella, una ragazza incinta morta suicida che il medico ha riportato in vita impiantandole il cervello del bambino che portava in grembo. Da notare, nel nome del personaggio del medico, il palese riferimento al Frankenstein di Mary Shelley attuato mediante una sottile allusione: Godwin è infatti il cognome del padre di Mary (lo studioso William Godwin) nonché della stessa Mary prima del matrimonio con Percy Bisshe Shelley.

Anche il titolo Povere Creature! (definite “cose” nel titolo originale) è emblematico: “povere” perché la loro vita passata era terribile (la protagonista si è suicidata) ma, salvate in uno stato di pre-morte o di morte da un famoso medico, sperimentatore dei fenomeni cerebrali, riesce a vivere attraverso il cervello del feto del bambino che aspetta che verrà trapiantato nella sua testa. Un corpo femminile adulto ha un cervello da neonata e poi da bambina. Bambina e figlia, dalla memoria che è tabula rasa, la protagonista pretende quel mondo affettivo naturale di cui lo scienziato padre nega di avere bisogno e che in effetti le nega. Nessun gioco fuori, nessuna socialità dei divertimenti, come nella casa-prigione di un precedente film di Lanthimos, Dogtooth (Kinodontas, 2009). Lo scienziato non dovrebbe avere sentimenti di alcun tipo. Ma la bambina si fa adulta e vuole viaggiare, uscire, essere libera. Da qui inizierà una dialettica di abbandono e ritorno alla casa ‘familiare’ dello scienziato, un viaggio in cui la compagnia degli uomini è perversa, distruttiva o inutile. E così la bambina adolescente deve imparare tutto da sola, senza schemi morali né educazione. Infatti il padre la considerava un essere solamente fisiologico e vegetativo, mentre i conflitti morali cominciano in lei, e da sola deve vederli e risolverli. Dalla fatica di liberarsi da un dongiovanni e dalla prostituzione, alla fatica di conoscere l’uomo che l’aveva spinta al suicidio, un generale cinico che tentò di ucciderla.

Il film di Lanthimos si srotola infatti come un “romanzo di formazione” in cui la creatura Bella prende gradatamente coscienza di sé, del mondo e, soprattutto, del male e delle ingiustizie che lo popolano. Fra quelle peggiori, insieme al divario sociale tra poveri e ricchi, c’è indubbiamente la piaga del patriarcato che la perseguita sotto le vesti di uomini che si configurano come spietate ‘bestie umane’: dapprima il giovane avvocato Duncan, con il quale fugge attraverso l’Europa e, successivamente, un invasato e folle generale, rigido e violento esecutore dell’etica perbenista vittoriana. Ma non intendiamo davvero svelare di più perché la storia di questo meraviglioso film è tutta da godersela ‘in diretta’. A muovere le sorti degli individui sembra un destino cinico e crudele che li fa agire come automi in un mondo-prigione, come accade spesso nel cinema del geniale regista greco. Si può pensare che Povere creature! abbia la capacità, come il romanzo di Mary Shelley a cui si ispira (e a cui, naturalmente, si era ispirato il romanzo di Gray), di costringere il lettore/spettatore a riflettere – come scrive Franco Moretti – “su alcuni grandi problemi (lo sviluppo della scienza, l’etica familiare, il rispetto delle tradizioni) e a convenire – razionalmente – che essi sono minacciati da forze potenti ed oscure” (F. Moretti, Dialettica della paura, in “Calibano”, 2, “Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa”, 1978, p. 101). Oscure come il temporale che Bella, dal ponte della nave che la porta in un’Alessandria esotica e avvolta da connotazioni ‘orientalistiche’ (cioè filtrate dallo sguardo europeo), intravede in un cielo dalle venature apocalittiche. Lo spettatore viene condotto alla riflessione mediante un percorso contemporaneamente di carattere filosofico e fiabesco. La presa di coscienza della protagonista avviene in scenari fantastici ed artefatti, in città iperreali e fantasiosamente intarsiate di sfumature steampunk, come i tram sospesi di Lisbona o la carrozza a vapore di Godwin Baxter a Londra. Anche la nave sulla quale si imbarcano i personaggi appare come un marchingegno meccanico dai tratti fantascientifici, una enorme balena di ferro come le navi della serie anime di Hayao Miyazaki, Conan, il ragazzo del futuro (1978).

Di città in città, di fiaba in fiaba, fra scenari macabri e ambigui degni di un racconto di La camera di sangue di Angela Carter, Bella, vestita come una Biancaneve o una Cenerentola in chiave glamour, giunge alfine alla sua presa di coscienza definitiva. Che vedrà una messa in discussione – questo lasciatecelo dire – dell’etica familiare tradizionale e dei suoi annessi e connessi, comprese inaccettabili forme di arrogante maschilismo e patriarcato.

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