Tra le fondatrici del Palestinian Youth Movement, Mjriam Abu Samra è una ricercatrice di relazioni internazionali presso le università Ca’ Foscari di Venezia e California Davis. Specializzata nello studio delle lotte anticoloniali e nel movimento studentesco palestinese transnazionale, Abu Samra sta seguendo da vicino gli sviluppi delle mobilitazioni a sostegno di Gaza, negli Stati uniti e in Italia. L’abbiamo raggiunta in California.
Sono state settimane di grande mobilitazione per la Palestina nelle università statunitensi e in quelle europee, anche in Italia. Con quale bilancio a suo avviso?
Fare un bilancio è ancora prematuro. Negli Stati Uniti è significativo che ogni gruppo studentesco stia cercando di raggiungere dei risultati nel confronto con la propria amministrazione universitaria all’interno degli obiettivi che sono comuni al movimento studentesco nazionale che chiede la fine del genocidio della popolazione palestinese a Gaza, assieme al disinvestimento da accordi economici in particolare con industrie militari e alla fine delle collaborazioni accademiche con istituzioni e aziende israeliane.
Un risultato significativo è che questo movimento ha definito i modi, le finalità e il quadro in cui mobilitarsi a sostegno del popolo della Palestina. Non meno rilevante è che in alcuni atenei le amministrazioni abbiano preso in considerazione l’idea di votare possibili risoluzioni che portino al disinvestimento e al boicottaggio (di Israele, ndr).
Più di tutto questa mobilitazione studentesca, che in realtà abbraccia ben più ampi settori, ha permesso di smascherare e svelare la collusione della politica dei governi occidentali e del sistema internazionale di sfruttamento e oppressione delle masse e dei popoli del sud del mondo, con il genocidio a Gaza e le politiche coloniali di Israele.
Grazie alla mobilitazione per la Palestina, siamo di fronte a una riscoperta dell’internazionalismo dato per morto dai fautori, vecchi e nuovi, del liberismo globale?
Più che una riscoperta è una ripresa del discorso internazionalista che era stato offuscato dalla retorica di stampo neoliberale e da un nuovo linguaggio basato su concetti depoliticizzati, finalizzati ad atomizzare e rendere fenomeni isolati le istanze di lotta che si sono ciclicamente presentate nel corso degli anni, da Black Lives Matter alla lotta dei lavoratori, dalle rivendicazioni delle popolazioni indigene alla lotta del popolo palestinese.
Ora vediamo che tutte queste istanze vengono collegate tra loro. Gaza e il genocidio diventano il simbolo evidente di un sistema globale iniquo, inerente al modello capitalista.
Come va letta la risposta o la reazione delle comunità ebraiche negli Stati Uniti? I media o parte di essi ci riportano banalmente i giudizi di coloro che definiscono il movimento studentesco per la Palestina come una sorta di propagatore dell’antisemitismo.
Ci troviamo di fronte a una narrazione strumentalizzata, studiata ed elaborata a tavolino per presentare la realtà per quella che non è. Stando in mezzo agli studenti, alla gente che manifesta da mesi contro le politiche israeliane e la complicità occidentale nella colonizzazione della Palestina, appare evidente un dato: la comunità ebraica non è monolitica.
Una buona fetta di manifestanti (per Gaza) è composta da ebrei che ci tengono a ribadire la loro identità ebraica e antisionista. Gruppi come Jewish Voice for Peace o Jews Against White Supremacy sono in prima linea nelle manifestazioni. E denunciano la strumentalizzazione del concetto di antisemitismo e di come tale accusa sia diventata uno strumento politico per censurare qualsiasi critica a Israele e per nascondere le misure (punitive, ndr) impiegate contro gli ebrei antisionisti.
C’è una volontà del sistema, delle istituzioni e dei mezzi di comunicazione mainstream di continuare a offuscare la realtà sul territorio presentando le mobilitazioni in chiave antisemita: sono spesso proprio gli studenti ebrei a denunciare il tentativo di presentare la comunità ebraica come compatta a sostegno di Israele, tramite una mendace lente antisemita che nega la pluralità delle voci ebraiche. La questione palestinese è radicata in una analisi politica che va a criticare il progetto di colonialismo di insediamento di Israele.
È reale il pericolo, visto da alcuni, che l’attenzione sul movimento studentesco negli Usa e in Europa, finisca per concentrare troppo l’attenzione su quanto avviene fuori dalla Palestina a scapito proprio dei territori palestinesi?
Non vedo questo rischio. Certo, può esistere un tentativo di strumentalizzazione e dirottamento dell’attenzione verso dinamiche tipiche delle società occidentali per limitare lo spazio alle notizie che arrivano dalla Palestina. Non credo però che questa dinamica sia stata innescata dalle mobilitazioni globali.
Al contrario le manifestazioni, le proteste (all’estero) sono una cassa di risonanza della lotta palestinese e centralizzano l’attenzione su quanto avviene in Palestina, inserendolo all’interno di una visione critica di stampo olistico che denuncia la collusione degli attori internazionali, ciò che rende possibile il genocidio e da oltre un secolo, l’oppressione dei palestinesi.
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