Di rado gli orientali erano osservati; piuttosto venivano
analizzati e giudicati, non tanto come cittadini, e neppure come popoli,
ma come problemi da risolvere, o circoscrivere, o – quando i territori
che abitavano piacevano a qualche potenza occidentale – controllare in
modo repressivo.
Edward W. Said, “Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente”.
Perché, nella società occidentale capitalistica, semplicemente parlare di palestinesi e Palestina, o prendere le loro difese, è diventato un vero e proprio tabù? Chiunque osi schierarsi dalla parte del popolo palestinese, in Occidente, è trattato alla stregua di un criminale: qualsiasi protesta di piazza deve essere immediatamente zittita con la forza e la violenza istituzionalizzate e sui media vengono indicati dalla parte del torto sempre e comunque i Palestinesi. Perché? Evidentemente, si tratta di un “discorso” (in senso foucaultiano) dominante e infallibile, radicato nella cultura e nella società occidentali. È lecito, allora, dire che tale “discorso”, per certi aspetti, sia intriso di “orientalismo”, un termine coniato dallo studioso di origine palestinese Edward W. Said. L’orientalismo si configura quindi come un vero e proprio “discorso” europeo sull’Oriente, ed è sorretto da istituzioni, insegnamenti, immagini, dottrine “e in certi casi da burocrazie e politiche coloniali” (E.W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, trad. it. di S. Galli, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 12).
Lo sguardo occidentale su Gaza sembra quindi incapsulato in questa prospettiva orientalistica di matrice coloniale e colonialista. Se gli occidentali si autorappresentano (e autorappresentano le loro guerre) come perfetti, razionali, eleganti, logici, gli ‘orientali’, gli ‘arabi’ vengono rappresentati in modo opposto. Come scrive Said, nella prospettiva orientalistica, “da un lato ci sono gli occidentali, dall’altro gli arabi-orientali; i primi sono, nell’ordine che preferite, razionali, propensi alla pace, democratici, logici, realistici, fiduciosi; i secondi sono quasi esattamente l’opposto” (ivi, pp. 55-56). La democrazia e la pace possono essere portate solo dall’Occidente: se ci pensiamo, questo atroce pensiero si erge – come un inquietante e sanguinario spettro – dietro le guerre condotte in Oriente da parte degli Stati Uniti, dal Vietnam all’Iraq. Se gli Israeliani sono bianchi, vestiti all’occidentale, ‘razionali’ e ‘democratici’, professanti una religione assai vicina al cristianesimo, i Palestinesi sono scuri di pelle, vestiti all’orientale e professanti la religione musulmana (non dimentichiamo che i musulmani sono stati per secoli i nemici giurati dell’Occidente cristiano). Come nota Said, è stata proprio la sua difficile esperienza personale di arabo-palestinese in Occidente che lo ha spinto a scrivere questo libro: “L’esistenza di un arabo-palestinese in Occidente, e in America in modo particolare, è tutt’altro che facile. Vi è un quasi unanime consenso sul principio che politicamente esso non esista, o esista solo come un ‘problema’ o, nel migliore dei casi, come un ‘orientale’. L’influenza del razzismo, degli stereotipi culturali, di un’ideologia imperialista o disumanizzante nei confronti di arabi e musulmani è assai forte, e con essa ogni palestinese deve fare i conti, come con un avverso destino” (ivi, p. 35).
Anche nel discorso dominante portato avanti dai media occidentali, i palestinesi appaiono vittima di un processo disumanizzante e reificante, come se si trasformassero in non-persone, in oggetti. Come è possibile che chi manifesta contro i massacri dei palestinesi nella striscia di Gaza venga trattato alla stregua di un delinquente, e alla stregua di un delinquente venga allontanato con la violenza dai tutori dell’ordine? L’unica possibile risposta a questa domanda è che nell’immaginario dominante occidentale, creatore di un discorso a sua volta dominante, i palestinesi vengano riconosciuti come non-persone, ‘arabi’ viziosi e corrotti, terroristi rozzi, estremisti e inclini alla violenza. È questa l’immagine dell’‘arabo’ che filtra, attraverso i media, nella cultura occidentale. Se poi guardiamo in special modo all’Italia, non ci dobbiamo sorprendere che questo “discorso” sia particolarmente forte, visto che tipo di governo c’è in questo paese.
E poco importa che la Corte internazionale dell’Aia abbia chiesto l’arresto di Netanyahu per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, come ha richiesto allo stesso modo l’arresto del capo di Hamas, Sinwar. I governi e i media occidentali, loro servi, si sono mostrati subito indignati per aver posto sullo stesso piano un ‘occidentale’ in giacca e cravatta e un terrorista ‘arabo’. Non si vuole certo affermare che Hamas sia innocente: le sue azioni terroristiche sono state e continuano ad essere terribili e assolutamente riprovevoli. Quello che stupisce è che l’opinione pubblica non riesca a riconoscere altrettanta efferatezza nelle risposte militari israeliane verso la popolazione civile di Gaza, che provocano sterminio e massacri in misura – almeno – uguale rispetto alle violenze e ai massacri compiuti da Hamas. È infatti difficile riconoscere l’efferatezza di democratici e razionali ‘occidentali’ in giacca e cravatta, sempre dalla parte della ragione. Tra l’altro, come osserva sempre Said, “che il razzismo antisemita e l’orientalismo – discusso in questa sede limitatamente alla sua branca arabo-islamica – si assomiglino molto, è una verità storica, culturale e politica la cui ironia non può sfuggire a un arabo-palestinese” (ivi, p. 36). Ma, chissà, forse anche queste affermazioni, nell’Occidente di oggi, potrebbero provocare scandalo ed essere considerate un tabù.
Per concludere, si potrebbe osservare che un certo alone di “orientalismo” riveste, per certi aspetti, anche la concezione europea della Russia. Perfino un grande slavista come Angelo Maria Ripellino scrive, nel suo reportage L’ora di Praga (1968), che la Russia gli appare talvolta come un incomprensibile “miscuglio asiatico”, lontano dal suo orizzonte culturale e dalla sua sensibilità democratica. Queste osservazioni dello studioso sono intrise, per certi aspetti, di “orientalismo”: la Russia è qualcosa di estraneo e lontano dal sentire occidentale. Lo stesso “discorso” dell’Occidente nei confronti della Russia, dall’inizio della guerra in Ucraina fino a oggi, è ‘orientalista’: la Russia e la sua cultura sono diventati quasi l’emblema del male, un universo da rigettare in toto, senza scampo. Se il leader russo è un criminale (e lo è), quello ucraino è invece un razionale e integerrimo esportatore di democrazia ‘occidentale’ (e davvero non lo è).
Questa analisi in termini di “orientalismo” serve a farci comprendere un fatto: che la realtà è molto più sfaccettata e complessa di qualsiasi “discorso” dominante insinuantesi nel sentire comune. Ed è tanto più complessa, intricata e lontana dalla nostra percezione proprio ai giorni nostri, in cui nell’universo digitale delle informazioni si intensificano le fake news e le manipolazioni create dall’intelligenza artificiale. L’“orientalismo” di oggi si innesta su un marchingegno spettacolare in cui domina una interpretazione falsata e irreale della stessa realtà. La verità e la realtà sono sempre più difficili da trovare e da interpretare. Resistere oggi significa perciò anche opporsi a un “discorso” innestato su una percezione in cui la realtà, a ogni passo, diviene sempre più irreale.
Nessun commento:
Posta un commento