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23/05/2024

Ritratto di pensatore: György Lukács (1885-1971)

In occasione dell'uscita di György Lukács. Cento anni di Storia e coscienza di classe (DeriveApprodi, 2024), pubblichiamo un ritratto del filosofo ungherese scritto dal curatore del volume, Gaetano Rametta.

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György Lukács (1885-1971) è uno dei filosofi più significativi del Novecento. La sua vicenda biografica e intellettuale riassume buona parte delle vicende che hanno contrassegnato il «secolo breve». Proprio la complessità dei suoi percorsi lo rende una figura emblematica, ma in pari tempo difficile da inquadrare in categorie precostituite. Forse proprio per questo l’attenzione nei suoi confronti si è andata progressivamente affievolendo nel corso degli ultimi decenni. Credo di non fare forzature dicendo che la forma mentis dominante, a partire almeno dal crollo del muro di Berlino (1989), si è infatti adagiata su schemi preconfezionati, che mal si prestano a una lettura che almeno nelle intenzioni si voglia adeguata rispetto a ciò che il XX secolo ha rappresentato nella storia mondiale. Fascismo, comunismo, nazionalsocialismo come forme più o meno assimilabili di «totalitarismo», da una parte; lotta per la difesa dei diritti dell’uomo e l’affermazione della democrazia, a trazione liberale o socialdemocratica, dall’altra. Questa è ancora, in fondo, la dicotomia che regge nel discorso pubblico l’immagine del Novecento.

Lukács scombina questa semplificazione. Rampollo di una famiglia tra le più benestanti dell’Impero austro-ungarico, il giovane intellettuale mostra un interesse precoce per la letteratura, il teatro e l’arte in genere. Organizza una compagnia teatrale, si attiva per portare nella Budapest ancora relativamente provinciale dei primi anni del Novecento il teatro dell’avanguardia europea, allora rappresentata da autori come Ibsen e Strindberg. Studia diritto all’Università, ma in lui matura una vocazione filosofica che lo porta a più riprese in Germania, dove entra in contatto con Simmel a Berlino e con la scuola del neo-kantismo del Baden a Heidelberg. Frequenta il circolo di Max Weber e stringe un rapporto di strettissima amicizia con Ernst Bloch. Nel frattempo ha già pubblicato in edizione tedesca la raccolta di saggi L’anima e le forme (1911), dando inizio a una forma di scrittura filosofica – quella appunto del «saggio» – in cui l’elaborazione dei concetti è inseparabile dall’altezza della prestazione stilistica. Tra i suoi «allievi», da questo punto di vista, possiamo annoverare figure come Adorno e Benjamin.

Tra i filosofi neo-kantiani di Heidelberg, stringe un rapporto di amicizia, filosofica e umana, con Emil Lask, che in Storia e coscienza di classe verrà definito come «il più acuto e coerente tra i moderni neo-kantiani». Dopo la tragica scomparsa dell’amico, scriverà in sua memoria un necrologio di rara densità filosofica. Fin quasi alla fine della guerra, ritiene possibile una carriera accademica in Germania. A questo scopo presenta il testo oggi conosciuto come Estetica di Heidelberg (1916-1918), che per la sua natura difficilmente classificabile, a mezzo tra metafisica, teoria della conoscenza e filosofia dell’arte, viene ritenuto inadeguato al conseguimento dell’abilitazione per l’insegnamento. Nel frattempo la situazione politica dell’Europa centrale precipita. E qui avviene la «svolta».

L’adesione al Partito comunista ungherese, maturata fra il novembre e il dicembre del 1918, apparve agli amici di Lukács come una sorta di «conversione» improvvisa e imprevedibile. Ma basta scorrere quello che forse è il capolavoro della produzione lukacsiana anteriore a Storia e coscienza di classe, cioè la Teoria del romanzo, per capire che applicare a Lukács il modello della conversione paolina, col futuro apostolo colpito sulla via di Damasco, non funziona.

La Teoria del romanzo ebbe uno strano destino. Scritto a guerra iniziata nell’inverno 1914-15, e pubblicato in due puntate su rivista nel 1916, uscì in forma di libro nel 1920, quando Lukács stava completando il suo periodo di apprendistato marxista nell’esilio di Vienna, dove si rifugiò a seguito della sconfitta della Rivoluzione dei consigli ungherese. Come avrebbe detto in seguito anche a proposito di Storia e coscienza di classe, il libro viene pubblicato quando il suo autore non era più lo stesso che lo aveva scritto.

Questa «estraneità» nei confronti dell’opera una volta compiuta, è un tratto caratteristico di Lukács, ma sarebbe ridicolo interpretarla come espressione di un atteggiamento ossessivamente rivolto al proprio auto-rinnegamento. Il punto decisivo è che il pensiero di Lukács è sempre stato un pensiero in movimento, per ragioni concettuali interne e per la propensione, autenticamente hegeliana, a cogliere le trasformazioni in atto nel proprio tempo. Nel caso della Teoria del romanzo, ci troviamo in presenza di un torso, che solo i destini «romanzeschi» della vicenda biografica di Lukács hanno trasformato in opera. Quello che oggi ci appare come libro autosufficiente, infatti, doveva costituire la semplice introduzione a un  volume su Dostoevskij, che però non avrebbe mai visto la luce.

Nell’ultima pagina del libro, emerge l’immagine di un nuovo mondo, la cui prefigurazione viene letta come elemento caratteristico dei libri di Dostoevskij, il quale proprio per questo «non ha scritto romanzi». Se il romanzo, infatti, è la forma di «grande epica» germinata sul terreno della moderna società borghese, nel romanzo russo degli ultimi decenni dell’Ottocento si manifesta un tendenza a travalicare la tipologia del romanzo, e a sconfinare in nuova forma di epopea.

Proprio quest’ultima emergerebbe nei romanzi, che non sono più dei semplici romanzi, dell’autore russo. Qui, ciò che si manifesta è una nuova realtà rispetto a quella rappresentata dal «romanzo della disillusione» tipico del romanticismo europeo. La realtà di cui si tratta non è più quella dell’opposizione tra l’anelito del soggetto alla spasmodica ricerca di un senso, e il mondo sociale delle convenzioni ormai «estranee» all’interiorità. La vita che si manifesta nell’opera di Dostoevskij è la vita dell’anima: un’interiorità che si oggettiva in forma epica, ma non più nella disgregatezza tipica del romanzo dell’Ottocento europeo, bensì nella forma espressiva e dialogica che avrebbe condotto un critico come Bachtin alla celebre definizione di romanzo «polifonico».

Qui però sta tutta l’indecisione che contrassegna il finale della Teoria del romanzo: le opere di Dostoevskij rappresentano davvero un nuovo inizio, o sono soltanto «segni premonitori ancora così deboli e incerti che la forza infeconda di ciò che semplicemente è può cancellare e soffocare a suo talento»? (trad. it. di A. Liberi, Roma 1972, p. 190).

Ora, ciò che appare decisivo è che questa risposta non dipende dall’arte. Già per l’autore della Teoria del romanzo, infatti, la dimensione estetica presenta dei limiti invalicabili rispetto alla capacità di trasformazione effettiva della realtà. L’adesione al movimento comunista altro non è che l’assunzione di questi limiti e il loro contemporaneo rovesciamento in condizioni per una scelta di carattere positivo. Se non l’arte, dunque la politica; ma non una politica qualunque, bensì quella che si dispone nella prospettiva del «mondo nuovo» che anima i non-romanzi di Dostoevskij.

Non si tratta allora né di una conversione folgorante e incomprensibile avvenuta sulla via di Damasco, né della conclusione logicamente necessaria di un ben costruito sillogismo. Si tratta, nel senso kierkegaardiano del temine, di una scelta – e non occorre ricordare che proprio a Kierkegaard era stato dedicato un saggio folgorante ne L’anima e le forme. La scelta comporta un salto; ma per quanto «mortale» sia, esso non è irrazionale né privo di buone ragioni: anche se le buone ragioni non bastano mai alla determinazione della scelta, non possono surrogare la decisione, quando quest’ultima matura dalle radici più profonde dell’esistenza.

Lukács non nasce comunista, ma lo diventa: ed è questo divenire che ci sembra importante; è la capacità di attivare questa trasformazione che ci sembra – nonostante l’enfasi forse eccessiva – letteralmente «immortale». Lukács diventa comunista, e da comunista scrive i saggi che compongono Storia e coscienza di classe. Qui Lukács raccoglie i frutti di una riflessione che dura in realtà da quasi un ventennio, anche se il livello teoretico che in essi è raggiunto non poteva certo essere appannaggio del giovane studente appassionato di teatro o studente di diritto. Non è naturalmente possibile neppure accennare, in questa sede, alla ricchezza e alla complessità – stavamo per dire «polifonia» – che contraddistingue la trama di questo libro. Il volume appena pubblicato da DeriveApprodi in occasione del centenario cerca di porne in luce alcuni aspetti.

D’altra parte, un po’ come per i romanzi – che non sono romanzi – di Dostoevskij, anche questo libro ha il significato di una soglia, apre un campo di possibilità, ma non ne determina l’attuazione. Al contrario, sappiamo delle critiche violente che ad esso vennero riservate da alcuni dirigenti del Partito comunista ungherese e della stessa Internazionale comunista (primo fra tutti il suo presidente Zinoviev). Il tentativo di intrecciare indagine teoretica ed elaborazione di una linea politica venne meno abbastanza precocemente. È del 1929 la presentazione delle cosiddette «Tesi di Blum», pseudonimo del nostro autore, nelle quali viene delineata una strategia da «fronte popolare» nel momento stesso in cui passa, a livello internazionale, la linea staliniana del «social-fascismo», secondo la quale i partiti socialisti esterni all’Internazionale sarebbe stati alleati «oggettivi» del fascismo. Lukács fa l’autocritica di rito, e comprende che d’ora in poi, per lui, sarebbe stato meglio dedicarsi alla meditazione di problemi legati all’estetica e alla teoria della letteratura.

Da quest’ultimo punto di vista, a mio avviso, si riscontrano ulteriori elementi di continuità. Chi avrà la pazienza di leggere i testi che Lukács dedica al romanzo sovietico, potrà facilmente constatare come l’ambizione di fondo sia ancora quella che animava la giovanile, e apparentemente dimenticata (?), Teoria del romanzo. Come il romanzo di Tolstoj tendeva a sconfinare in una nuova forma di epopea; come il romanzo di Dostoevskij  rappresentava i prodromi di questa nuova forma; così il romanzo sovietico, nel Lukács dei decenni successivi, dovrebbe tentare la realizzazione effettiva di questa nuova forma di letteratura, nella misura in cui la realtà sovietica è – sia pure con tutte le pesantissime difficoltà del caso – l’inizio di quel  «nuovo mondo» nel quale il filosofo ungherese non ha mai smesso di credere.

I libri del dopoguerra, che daranno a Lukács piena visibilità internazionale, sono soprattutto Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (1948) e La distruzione della ragione (1954). In particolare, la linea interpretativa sviluppata in quest’ultimo libro ha fatto apparire Lukács, per riprendere l’espressione che Croce aveva riferito a Hegel, come un «cane morto». Con la rivalutazione del «pensiero negativo», non più inteso come negazione irrazionalistica della ragione, ma come nuova forma di razionalità adeguata alla «crisi» costitutiva del contemporaneo, la ricostruzione storico-filosofica proposta da Lukács è apparsa come il prodotto attardato di un pensiero ormai non più in grado di riscattarsi dalla cappa ideologica della guerra fredda e della contrapposizione fra blocchi.

Tuttavia, anche questo libro, letto a distanza di anni se non di decenni, può riservare delle sorprese. Al di là di alcune cadute di stile e dell’impiego di formule più adatte a una battaglia di tipo ideologico che non alla ricostruzione scientifica di un periodo cruciale dal punto di vista storico-filosofico, la razionalità che ha in mente il pensatore di Budapest non è quella scientistica e calcolistica delle moderne scienze della natura, né quella del materialismo falsamente dialettico che si era affermato nei decenni della dittatura staliniana. La bussola resta orientata sulla stella polare della dialettica, come capacità di comprensione di una realtà che si determina storicamente, e nel suo divenire storico si esplica attraverso contraddizioni – come avrebbe detto ancora una volta il giovane Hegel  «sempre crescenti».

Al di là dei giudizi su singoli autori e sistemi, credo che questa sia un’impostazione da rivendicare anche per la filosofia contemporanea. La capacità di comprendere «il presente come storia» (Sweezy) non apre soltanto il pensiero verso il suo «fuori», ma impone alla filosofia il rischio connaturato a una presa di posizione rispetto ai problemi del presente, che non può non essere di tipo concretamente politico. La non-accettazione del presente così come è dato, la ricerca di tendenze potenzialmente progressive anche all’interno delle fasi più desolanti e prive di apparenti vie di uscite, è un insegnamento che rende anche il «vecchio» Lukács degno di essere ancora letto e meditato. La dialettica ha voluto essere un pensiero della realtà, e in questo senso andava l’interpretazione lukacsiana della Fenomenologia dello spirito nel libro sul giovane Hegel.

Tutt’altro che incoerente, allora, appare la lotta che un Lukács ormai più che settantenne avrebbe condotto per orientare l’Ungheria in un direzione che coniugasse socialismo e democrazia. Le responsabilità di governo ricoperte nella Rivoluzione dei consigli si erano concluse con la sconfitta e l’esilio viennese, da cui sarebbe maturata Storia e coscienza di classe. Le responsabilità di governo assunte nella Rivoluzione del 1956 avrebbero condotto l’ormai anziano Lukács a rischiare nuovamente la propria vita e a scontare alcuni mesi di prigionia in un lager rumeno. Ma neppure questa sconfitta sarebbe riuscita a piegare la volontà di continuare a pensare, che emerge nelle due grandi opere della vecchiaia: la monumentale Estetica del 1963, e l’Ontologia dell’essere sociale, il cui piano anch’esso di enormi proporzioni, sarebbe stato interrotto soltanto dalla morte del grande pensatore nel 1971.

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