Ve lo ricordate negli anni Novanta il rito che si consumava ogni volta che usciva un nuovo disco dei Pearl Jam? L’attesa snervante partiva mesi prima, i booklet
erano sempre sorprendenti, con stralci di testi scritti a mano, si
faceva fatica a leggerli, le parole te le dovevi conquistare, cercando
di comprendere le parti mancanti attraverso la voce di Eddie Vedder.
Quei testi distillati, che procedevano per slogan, per frasi
spezzettate, su argomenti mai banali, con dentro pezzi di vita, sogni e
disagi post-adolescenziali di un ragazzo come noi. C’era tanto dentro
quelle canzoni che ci facevano sentire al centro del mondo: siamo
diventati grandi immergendoci in quella voce, in quegli strumenti, in
quella poetica che è entrata nel mito. Un culto che si allargava persino
alle pubblicazioni dei tanti progetti paralleli dei singoli membri: Mother Love Bone, Temple Of The Dog, Brad, Mad Season, Three Fish, Hovercraft. Cosa è rimasto di tutto questo fra le pieghe di “Dark Matter”?
L’ho
messo su, e al primo ascolto ho avuto la sensazione che questa volta
non ci fosse davvero quasi nulla da salvare. Sono giunto a temere
un’improvvisa rivalutazione di “Gigaton” (dove in alcuni frangenti quantomeno si percepiva l’intenzione di esplorare soluzioni inedite) e “Lightining Bolt”
(a posteriori valutabile come il punto più basso della loro
discografia, dovremmo essere tutti d’accordo). Poi l’ho messo su la
seconda volta e la traccia che mi ha colpito di più è stata “Won’t
Tell”. Ascoltatela con attenzione: è contagiosa e radiofonica, Vedder
potrebbe averla scritta di ritorno dal concerto di Taylor Swift, al quale ha assistito, con famigliola al seguito, qualche mese fa. Quella strofa ammiccante, quel ritornello killer, quel bridge che spariglia le carte non la rendono troppo diversa da una delle tante hit del periodo soft-rock
della superstar americana, per la quale Eddie ha speso di recente
parole al miele, su lei e sui suoi fan, assecondando persino la
strategia suicida di pubblicare “Dark Matter” lo stesso giorno
dell’attesissimo nuovo album
della Swift, di fatto castrando sul nascere qualsiasi vaga possibilità
di poter raggiungere almeno per una settimana il primo posto delle
classifiche di vendita. E non tiratemi fuori la storia dei Pearl Jam
"contro il sistema": non regge più da parecchi anni...
Ascolto
“Dark Matter” per la terza volta e trovo che “Running”, uno dei tre
singoli che hanno preceduto la pubblicazione integrale dell’album,
quella “Running” che ha compiuto il miracolo di mettere tutti d’accordo,
fan e detrattori, circa la pochezza del risultato finale, alla fine dei
conti risulti come uno dei pezzi meno brutti dell’album, una botta di
energia provvidenziale, nonostante appaia disgraziatamente forzata.
Non
che manchi energia, dentro “Dark Matter”, che come di consueto parte
infilando un paio di zampate iper-elettriche, “Scared Of Fear” e “React,
Respond”, sane iniezioni di adrenalina per mostrare quanto il fuoco
dentro non sia ancora spento. Salvo ben presto raggomitolarsi sulle più
rassicuranti e avvolgenti note di “Wreckage”, una delle loro tipiche ballad di ampio respiro, che si svincolano dal dover riempire per forza tutto lo spazio necessario. Ma poi s’inciampa nell’ennesimo riff che scopiazza “I Love Rock’n’Roll”, posto in apertura della title track,
già scoperta da qualche settimana, e nella confusione di “Upper Hand”,
evidente ricalibrazione di “Nothing As It Seems”, con tanto di chitarra gilmouriana.
Anche
stavolta un disco dei Pearl Jam regge a mala pena fino a metà corsa, un
crollo verticale che parte dai quasi sei minuti (!!!) di “Waiting For
Stevie”, scritta da Vedder mentre era in studio ad aspettare Stevie Wonder per un featuring in “Earthling”,
il suo disco solista, e prosegue per le ultime tre impalpabili tracce,
“Something Special”, “Got To Give” e “Setting Sun”, che ripropongono
all’infinito il super-collaudato schema
"intro–strofa–ritornello–strofa–ritornello–bridge–assolo di Mike
McCready–ritornello–ending".
La batteria di Matt Cameron non esce mai davvero potente, equalizzata in modalità anni Ottanta, priva di forza e visceralità. Risultato programmato di concerto con il produttore Andrew Watt, new entry nella line-up ufficiale e co-autore di tutte e undici le tracce, così come il chitarrista Josh Klinghoffer e il resto della storica ciurma.
Alla fine le mie preferenze restano indirizzate verso la patinatissima “Won’t Tell”, una specie di nuova “Siren”, perché lontani dalle nostalgie, dagli scimmiottamenti del passato e dal confronto con loro stessi, i Pearl Jam sembrano più veri. Fossero andati tutti e cinque a vedere l’Eras Tour, quella sera a Seattle, assorbendone l’infettiva vitalità, forse “Dark Matter” sarebbe stato un disco migliore...
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