di Gioacchino Toni
Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 212, € 17,00, ebook € 9,99
Nell’indagare la dimensione mediologica assunta ultimamente dal politico e l’immaginario attorno a cui si sviluppa, Guerino Nuccio Bovalino, nel suo volume Imagocrazia. Miti, immaginari e politiche del tempo presente (Meltemi 2018) [su Carmilla], ha messo in luce come alle figure deistiche, mitologiche, religiose e ideologiche a cui l’essere umano ha storicamente fatto ricorso per colmare il vuoto fra sé e il mondo che abita, si siano ormai sostituiti i media e gli immaginari derivanti dall’intrecciarsi di nuovi e vecchi simboli trasfigurati dalle nuove tecnologie.
Con il suo nuovo libro, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale (Luiss University Press, 2024), lo studioso continua la sua analisi indagando come, per affrontare le paure di questo mondo, gli esseri umani tendano sempre più ad affidarsi messianicamente alla tecnologia confidando nelle sue capacità salvifiche. Al centro del volume sono dunque le modalità contemporanee di sottrarsi alla realtà, tentativo che da sempre contraddistingue gli esseri umani «tra esodi e ritorni, tra terra e cielo, carne e spirito, beatitudine e dannazione, pesanti macchine e religioni eteree, algoritmi e preghiere». Modalità che oggi, sostiene Bovalino, guardano sempre più all’universo dell’intelligenza artificiale e, più in generale, al mondo delle tecnologie più avanzate come a potenze in grado di garantire una fuga dalla realtà, l’accesso al paradiso terrestre.
Con la Rivoluzione industriale prende il via il processo di colonizzazione dell’immaginario collettivo da parte delle macchine; l’essere umano, affogato in una massa indistinta, tenuto a vivere all’interno del sistema fabbrica/metropoli, si trova a vivere una situazione di spaesamento a cui non riesce più a dare risposta la proiezione salvifica personificata dalle tradizionali divinità.
Tale inedita configurazione dell’immaginario, scrive Bovalino, ha il suo mito fondativo nel frankensteiniano essere costituito con parti tratte da diversi corpi, efficace metafora «della massa indistinta che ha con-fuso gli esseri umani nel magma indistinto della nuova metropoli, e ibridato gli stessi con le macchine con le quali operano nelle fabbriche dalle quali sono agiti»1. Inoltre, il mostruoso frankensteiniano, non essendo più un’entità riconducibile al non-umano, si differenzia dall’idea di mostro propria dell’epoca pre-industriale. Non più figura pre-umana o dis-umana, il mostro si trasforma in un essere iper-umano o post-umano nella mitologia del cyborg e dell’androide. Si tratta di «una trasformazione sociale che sancisce la nascita di una relazione inedita tra organico e inorganico, carne e macchina»2. Come scrive Bovalino, si inaugura così una nuova idea di mostruosità non più fatta derivare da un qualche castigo divino, bensì proiezione di un disagio umano figlio delle trasformazioni introdotte dal processo di industrializzazione con la sua disseminazione di macchine.
L’avvento della fotografia sancisce il trionfo della dimensione immateriale su quella materiale; essa vampirizza il reale rendendo morto ciò che è vivo proiettandolo verso un’immortalità artificiale. La dilatazione delle esistenze determinata dall’eliminazione delle distanze spazio-temporali introdotta dalla metropoli trova nel cinema e, successivamente, nella televisione medium capaci di amplificare un processo che viene ripreso e amplificato dagli schermi dei computer e degli smartphone che, però, non rappresentano più una superficie trattenente ma un vortice, una vertigine risucchiante.
È ormai evidente la frattura tra l’essere sé stessi e l’essere ciò che si vuole apparire. I soggetti si muovono dentro le rete come fossero in esilio dal mondo fisico. Fuori dalla realtà cercano di ricostruire una verità alternativa di sé stessi e del mondo che li circonda. È l’affermarsi di una bolla, di un micromondo che il soggetto edifica lentamente, creando un ambiente digitale abitato molto spesso dai propri “simili”, coloro con i quali si condivide la visione del mondo o con cui, perlomeno, si reputa degno condividere le proprie idee3.
L’utopia digitale si è velocemente trasformata in distopia. «Lo splendore del consumo e il capitalismo gioioso si rovesciano, come katastrophé, in una fase cupa e crepuscolare caratterizzata dal controllo tecnologico e dallo sfruttamento dei dati degli utenti. È l’era della disillusione. Il crepuscolo delle tecnoutopie»4.
In Squid Game (2021-in produzione) di Hwang Dong-hyuk, nel suo presentarsi come “il gioco della fine”, suggerisce Bovalino, è possibile vedere una metafora della “fine dei giochi”, la catastrofe di un capitalismo che si manifesta direttamente nella sua crudeltà senza nemmeno mascherarsi dietro l’illusione spettacolare del consumo. L’universo messo in scena dalla serie coreana è costruito sulla colpa e sul debito. Chi partecipa al gioco mortale lo fa per ripagare i propri debiti così da poter essere reintegrato nel circuito perverso del consumo capitalista. Un circuito che non prevede via d’uscita non contemplando una reale espiazione del debito, della colpa: anche estinguendo il debito, il vincitore resta prigioniero delle atrocità commesse per raggiungere lo scopo.
Al capitalismo digitale si affida il compito di ordinare il mondo ma, scrive Bovalino, si tratta di un capitalismo triste e crepuscolare, palesante «una discrasia evidente fra le promesse di felicità e la rinuncia alla dimensione edonistica e onirica cui sottopone»5 l’essere umano.
La smaterializzazione digitale si trova ora costretta a confrontarsi con la percezione della fragilità umana, con la morte che, tra malattie e guerre, ha fatto irruzione nella realtà facendo riemergere il senso di finitudine umana. «Si tratta di un processo di ri-umanizzazione, fra androidi in lacrime perché bramano di divenire umani, guerre combattute sul campo, identità rinascenti, necessità di appartenenza e rinascita della più importante delle mitopoiesi realizzare dall’uomo: il ritorno del divino nella vita quotidiana»6.
Curiosamente, nel momento di massima espansione tecnologica, riemergono forme di vissuto arcaico in una variate che Vincenzo Susca ha definito tecnomagia [su Carmilla]: la dimensione magica viene riattivata dalla tecnologia. Alla smaterializzazione dei corpi umani succede l’umanizzazione delle macchine e l’intelligenza artificiale, con le sue capacità oracolari, si presenta come lo strumento di tale trasformazione, vera e propria tecno-magia.
La tecnologia non è la profezia ma “il profeta”: essa parla per conto dell’uomo nuovo, colui che vuole disintegrare ogni forma esistente e riconfigurare ogni ambito umano, ossia i nuovi creatori come Zuckerberg, Musk e Altman, i guru di Meta, X e Open AI. Dio parla ai profeti come l’uomo parla alla tecnologia, la con-forma e le fa “pronunciare” le parole che costruiscono e configurano il tempo a venire. L’IA è l’oracolo che parla la lingua dell’ultima versione, il più recente upgrade dell’homo deus. Nel profetizzare i futuri stravolgimenti, essa trasforma il reale e come ogni nuova lingua costruisce una inedita architettura della realtà, la ri-forma7.
A ben guardare, suggerisce Bovalino, l’IA ricalca, estremizzandoli, i valori della società capitalista contemporanea – velocità, efficienza, semplificazione, funzionalità – indirizzati al profitto associandoli ad una dimensione del controllo iperstatalista.
È un capitalismo antilibertario costruito su un patto iniquo fra il singolo che elemosina illusioni social tecno-utopiche e le grandi aziende che gliele forniscono chiedendo in cambio di poter nutrirsi dell’intimità del soggetto sotto forma di dati, materiale che usano per rendere più efficienti le loro macchine disumanizzanti. È un processo surreale per cui l’uomo concede alle azioni ciò che consente alle medesime di tenerlo sotto scacco8.
Il paradosso è che, come ormai tanta fantascienza di matrice distopica ha messo in scena, le ibridazioni tecno-umane finiscono per desiderare di essere soltanto umane. E ciò palesa l’incapacità dell’essere umano di immaginare qualcosa totalmente fuori da sé.
Opporsi alla nuova utopia/distopia del progressismo apocalittico, rimasta l’ultimo appiglio tattico cui aggrapparsi per sopravvivere dopo il fallimento definitivo del fideismo progressista, cesura che ci ha trasformati in zombie intenti a consumare la nostra residua energia nella lotta per scansare la fine. Soggetti e individui oppressi nell’ultima possibile narrazione: l’ideologia del penultimo. Il progressismo ormai ridotto alla stancante ricerca di estemporanee soluzioni utili a contrastare l’eterno non compiersi dell’apocalisse, che ci si prospetta di continuo sotto forma di mutanti, di virus, catastrofi ambientali e nuove guerre nucleari. L’uomo si è cristallizzato nella figura tragica di un disperato che staziona inerme al bordo di un precipizio: schiavo della paura che scaturisce dalla percezione dell’imminenza della morte mentre cerca di eluderla9.
Se, come è sempre stato, l’essere umano si trova a fare i conti con il vuoto, ad essere profondamente cambiato è il contesto e, con esso l’essere umano stesso, costretto a confrontarsi con inedite e disorientanti tecnomagie.
Note
Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024, p. 39.
Ibid.
Ivi, p. 59.
Ivi, p. 115.
Ivi, p. 136.
Ivi, p. 139.
Ivi, pp. 183-184.
Ivi, p. 186.
Ivi, p. 194.
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