Il primo maggio il sindaco di New York ribadiva che l’intervento appena effettuato alla Columbia University si era reso necessario per il pericolo di ‘agitatori esterni’. Il Washington Post ha mostrato che gli unici ‘agitatori esterni’ erano i miliardari che pressavano per un’azione di polizia.
In un articolo che ha subito provocato un terremoto mediatico, Emmanuel Felton e Hannah Natanson hanno diffuso il contenuto di alcuni messaggi di una chat in cui erano presenti vari e importanti uomini d’affari statunitensi. Essi mostrano un vero e proprio tentativo organizzato di sostenere in patria la retorica sionista e la repressione dei manifestanti per la Palestina.
Le rivelazioni che hanno suscitato maggior scalpore, anche nella politica, sono quelle che vorrebbero una pressione diretta sul primo cittadino della Grande Mela per sgomberare la Hamilton Hall. Ma andiamo per ordine, perché c’è molto da dire su quello che questa chat rappresenta.
Appena dopo il 7 ottobre, il magnate immobiliare Barry Sternlicht ha aperto un gruppo su WhatsApp dal titolo “Israel Current Events”. Nel giro di poco tempo il numero di partecipanti è aumentato fino a più di 100, tutti molto “selezionati”, raccogliendo nomi importanti dell’imprenditoria e della finanza d’oltreoceano.
Tra loro vi è l’ex amministratore delegato di Starbucks, Howard Schultz; Michael Dell, fondatore dell’omonima multinazionale dei computer; Joshua Kushner di Thrive Capital, imparentato tramite il fratello Jared con Donald Trump. In tutto, vi sono 12 miliardari che compaiono nella lista dei 100 uomini più ricchi al mondo che Forbes stila ogni anno.
Una fonte anonima ha confermato al giornale che la chat è stata chiusa pochi giorni fa perché non rispondeva più agli obiettivi per cui era stata creata, oltre al fatto che i partecipanti iniziali erano inattivi.
Quali erano gli scopi all’origine del gruppo WhatsApp?
Un collaboratore di Sternlicht scriveva nella chat che il fine del loro lavoro doveva essere “aiutare a vincere la guerra” dell’opinione pubblica a stelle e strisce, mentre Israele “vince la guerra fisica”. Bisognava “cambiare la narrativa” per aiutare la diplomazia di Israele.
Nel gruppo viene messa in evidenza l’impegno dello stesso Sternlicht, che ha finanziato una campagna di informazione contro Hamas del valore di 50 milioni di dollari, insieme ad altri miliardari di Wall Street e Hollywood. Ma come suggerisce il Washington Post stesso, l’attivismo di chi era in chat è però andato ben oltre.
Alcuni suoi membri si sono incontrati con l’ex primo ministro di Tel Aviv Naftali Bennet e con Benny Gantz, parte del gabinetto di guerra. Altri hanno aiutato Israele a realizzare un documentario dalle riprese delle bodycam dei militari impegnati negli scontri del 7 ottobre, pressando poi per presentarlo anche ad Harvard.
A proposito di università, è proprio il coinvolgimento della chat negli eventi della Columbia che ha suscitato l’attenzione maggiore. Mentre il sindaco di New York ha ribadito più volte che la sua preoccupazione era la presenza di soggetti esterni che potevano in qualche modo fomentare il ‘terrorismo’, con l’articolo è venuto fuori che dall’esterno è arrivata solo la repressione.
Infatti, molti dei membri del gruppo erano preoccupati dell’ostinazione dei solidali con i palestinesi, già sgomberati dall’università il 18 aprile e tornati più determinati di prima. E così hanno deciso di mettersi in contatto diretto col primo cittadino della Grande Mela per offrire il loro aiuto.
Il Washington Post riporta che già all’inizio di aprile qualcuno della chat aveva fatto una donazione di 2.100 dollari ad Adams (il massimo consentito per legge). Un link per il sostegno economico al sindaco è stato condiviso, senza però che ci sia modo di dimostrare se siano seguiti altri contributi.
Altri si sono poi offerti di pagare compagnie investigative private per aiutare la polizia di New York contro gli studenti della Columbia, proposta che secondo le fonti sarebbe stata accettata, ma che è stata poi smentita dall’amministrazione cittadina (neanche avrebbe potuto confermarla, comunque...). Ad ogni modo, il sindaco Adams ha di certo mostrato una notevole attenzione a questa chat.
In essa, infatti, il 26 aprile è arrivato pure il link Zoom per un incontro online a cui Adams ha partecipato, pochi giorni prima dello sgombero. A seguire i messaggi nel gruppo, durante il confronto si è parlato ancora di donazioni elettorali e di premere su Minouche Shafik, presidente della Columbia, per chiedere l’intervento della polizia.
La maggioranza dei docenti della facoltà di Arts and Sciences ha affermato, con una votazione, l’assoluta mancanza di fiducia verso la Shafik proprio per la sua gestione delle proteste.
La rottura era già cominciata con il beneplacito dato alla criminalizzazione degli studenti nell’audizione della presidente di fronte alla Commissione per l’istruzione e la forza lavoro della Camera, il 17 aprile.
Fabrien Levy, portavoce alle comunicazioni di Adams, ha dichiarato che le notizie contenute nell’articolo sono false, accusando gli autori di ripetere tipici stereotipi antisemiti. Ma è lui ad aver messo in risalto l’origine ebraica di molti nomi citati nell’articolo, mentre ha completamente glissato sul nodo dei rapporti economici col sindaco della Grande Mela, punto centrale del pezzo.
Levy ricorda poi che le due volte che le forze dell’ordine sono entrate alla Columbia, lo hanno fatto su richiesta scritta dell’università stessa. Ma non ha avuto modo di confutare in alcun modo il fatto che i vertici dell’ateneo abbiano subito forti pressioni in tal senso.
Dopo l’incontro Zoom con i membri della chat, il sindaco ha parlato in un programma radiofonico affermando che stava invitando le amministrazioni universitarie ad assumere una linea dura con le proteste. Se aggiungiamo che la dirigente dell’antiterrorismo che ha avuto un ruolo centrale nelle indagini è anche una docente della Columbia, il quadro si completa da solo.
Insomma, se l’obiettivo del gruppo WhatsApp era “cambiare la narrativa”, ci sono riusciti, ma in direzione opposta a quella sperata: questa ennesima rivelazione sgretola ogni residua legittimazione della repressione di chi è solidale con la resistenza palestinese.
E soprattutto, si mostra in maniera sempre più evidente come ci sia un filo diretto tra Tel Aviv, la conduzione del massacro a Gaza, e la “guerra interna” ai movimenti pacifisti e di protesta contro il genocidio. Un filo di direzione diretta della repressione da parte dei vertici sionisti, fino agli agguati terroristici contro i solidali.
Questo sì che dovrebbe preoccupare gli apparati di sicurezza...
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