Il Medio Oriente brucia per il conflitto a Gaza, per i venti di guerra che soffiano sul Libano, per le tensioni tra diversi attori nazionali e internazionali in Siria e Iraq, e per le minacce che Israele rivolge non solo agli Hezbollah libanesi ma anche al più potente Iran.
Non è chiaro se i tentativi di Washington per scongiurare una deflagrazione della guerra nella regione siano sinceri oppure solo parole al vento. Dipenderà esclusivamente dai suoi interessi strategici nella regione.
Probabilmente entrerà a far parte delle valutazioni statunitensi l’esito dei negoziati che sta intrattenendo con l’Iraq. Baghdad ha chiesto a Washington di ritirarsi dal paese, dove ha il proprio personale e diverse basi militari, ritenendo di non aver più bisogno del suo sostegno nella lotta all’Isis, sebbene l’organizzazione sia viva e vegeta, ristrutturata in piccole cellule che operano in diversi stati, incluso l’Iraq.
Gli Stati Uniti sanno che andarsene significa favorire l’apertura degli argini a un’influenza ancora più massiccia dell’Iran nel paese, il cui primo ministro appartiene all’area sciita.
Il Medio Oriente è in movimento, con diversi attori che cercano nuove alleanze per garantirsi il controllo territoriale e conseguentemente i mercati che dall’Asia arrivano fino all'Europa.
Erdogan, il presidente della Turchia, fa parte della partita. L’anno scorso aveva iniziato ammiccamenti con Baghdad, lavorando per un avvicinamento. Tra i due paesi non correva buon sangue a causa delle continue violazioni territoriali turche alla caccia dei membri del PKK. Ad aprile di quest’anno sono stati siglati dalle due capitali diversi accordi commerciali e altri legati al rifornimento di acqua verso l’Iraq.
Sul tavolo c’era anche la questione dei curdi del PKK, parzialmente rinviata ma che pare abbia trovato una soluzione, tuttavia ancora non totale secondo i desiderata turchi, nel recente incontro tra i rispettivi ministri degli affari esteri. Il 15 agosto, infatti, Hakan Fidan per la Turchia e Fuad Hussein per l’Iraq hanno sottoscritto un Memorandum d’intesa che prevede la cooperazione tra i due paesi sulle questioni militari, di sicurezza e intelligence nonché di antiterrorismo.
Un ulteriore passo che Erdogan spera porti finalmente al riconoscimento, da parte di Baghdad, del PKK come organizzazione terroristica. Finora l’Iraq si è limitato a definirlo organizzazione fuorilegge, scelta fatta a marzo sotto la pressione di Ankara ma anche in vista dei dossier che avrebbero discusso ad aprile.
Il Memorandum prevede che ci sia il rispetto reciproco della sovranità territoriale, riferimento che è ovvio immaginare si rivolga in particolare alla Turchia, che da anni viola questo principio internazionale e da circa due mesi porta avanti un’operazione militare nel Kurdistan iracheno contro il PKK. Stabilisce inoltre che ogni azione militare debba essere prima avallata dal paese sul cui territorio viene esercitata e costituisce il Joint Security and Coordination Centre a Baghdad che, secondo quanto scritto dalla testata giornalistica The Cradle, mette in evidenza la volontà di una cooperazione strutturale, confermata dalla conversione della base militare turca di Bashiqa, nel nord dell’Iraq, in un centro per l’addestramento militare congiunto sotto il controllo di Baghdad.
Questa nuova strategia basata sulla stretta collaborazione tra i due paesi, passa anche attraverso gli investimenti previsti per la costruzione della development road, un gigantesco piano infrastrutturale che si propone come corridoio per le merci che devono raggiungere l’Europa da Oriente.
Il progetto si contrappone a quello sponsorizzato dagli Stati Uniti, l’India Middle East Europe Economic Corridor (IMEC), che taglia fuori tanto l’Iraq quanto la Turchia, facendo infuriare Erdogan, che non fa nulla per mascherarlo, e che coinvolge, tra gli altri, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, Israele e la Giordania. Tornano alla mente gli Accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti fra Israele e i vicini mediorientali, funzionali anche alla realizzazione dell’IMEC.
L’Iraq ha bisogno di investimenti nel paese e vuole liberarsi della presenza statunitense, così giocare la carta di un’alleanza con la Turchia sembra la mossa corretta. Erdogan gioca invece una partita più grande perché vuole assicurarsi un’area di influenza in Medio Oriente; lo sta facendo tentando un avvicinamento con il presidente siriano Bashar al-Assad e stringendo strette relazioni commerciali e militari con l’Iraq. Sa di dover fare i conti con l’Iran, potenza regionale con cui è in competizione e con la quale i rapporti sono oscillanti, alle prese con lo stesso obiettivo di creazione di zone di influenza.
A trovarsi in una situazione scomoda sono gli Stati Uniti che tanto la Turchia quanto l’Iran vogliono fortemente ridimensionato in Medio Oriente e lavorano alla realizzazione di questo obiettivo. Per Washington il rapporto con Israele diventa più che mai importante e non resta certamente a guardare le mosse della Turchia e soprattutto dell’Iran senza far nulla.
La partita sembra tutta aperta nella regione mediorientale e anche la cessazione della guerra a Gaza è una carta da giocare, quando e come dipende dagli interessi di ciascun giocatore, sulla pelle dei palestinesi.
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