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07/05/2025

Democrazia in soffitta

È ora di sollevarsi al di sopra dell’insopportabile chiacchiericcio sui vari processi elettorali in corso in tutto l’Occidente neoliberista.

Se dovessimo dar retta al pensiero mainstream, infatti, dovremmo descrivere un fenomeno quasi inspiegabile per cui una duratura lotta «per la libertà» ha finito per produrre partiti e movimenti di estrema destra che ora sono definitivamente usciti dalle fogne minoritarie in cui erano stati confinati per decenni e ambiscono a diventare governo dei rispettivi paesi.

Oppure saremmo obbligati a complimentarci con quei partiti liberali che, in qualche paese, prevalgono in contrapposizione con i neofascisti d’assalto.

Insomma, dovremmo accettare una visione falsaria dello scenario politico occidentale – e non solo – secondo cui «reazione» e «democrazia» si contrappongono in modo netto, dimenticando le innumerevoli ma concretissime “sovrapposizioni” tra i due campi.

Proviamo perciò a mettere in fila i paesi dove si è votato di recente, cominciando da dove impera il “Bruxelles consensus”.

In Germania i neonazisti dell’Alternative fur Deutchland – per ora in versione SA, più che SS, essendo guidati da una donna omosessuale sposata con una cittadina svizzera di origine cingalese, in totale contraddizione con gli immondi «valori» sbandierati dal suo partito – hanno superato il 20% e solo ora i servizi segreti hanno completato l’indagine che ha portato l’Ufficio federale per la protezione della Costituzione (BfV) a dichiararlo «di estrema destra» e quindi pericoloso per l’ordine costituzionale. Ma non «neonazista»...

In Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen ha ottenuto ancora una volta risultati simili o superiori, e solo ora la leader è stata riconosciuta colpevole di appropriazione indebita di fondi pubblici per retribuire assistenti parlamentari e quindi condannata a quattro anni di carcere, di cui due da scontare con braccialetto elettronico e a cinque anni di ineleggibilità con effetto immediato, il che le impedisce di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2027. Per “appropriazione indebita”, non per neofascismo...

In Romania, a dicembre, la Corte Costituzionale ha deciso all’unanimità di annullare le elezioni presidenziali, vietando la ricandidatura al vincitore inatteso, Calin Georgescu, per “sospetto appoggio finanziario ed informatico da parte della Russia”. Ma non per neofascismo...

Si è poi scoperto che le “campagne informatiche su Tik Tok” non erano state messe in atto dal suo schieramento ma da quello “liberale”, suo avversario. Solo che erano così mal congegnate da favorire Georgescu invece che il candidato dell’establishment. Non è cambiato nulla, ed è rimasto incandidabile.

Successivamente, in vista delle nuove elezioni, è stata esclusa anche Diana Iovanovici Șosoaca, leader di un altro partito di destra, perché contraria alla permanenza nell’Unione Europea e al sostegno alla guerra in Ucraina. Ma non per neofascismo.

In Romania si è dunque rivotato e il nuovo vincitore nel primo turno, George Simion, leader della formazione della destra Alleanza per l’Unione della Romania, un po’ meno esplicito nell’avversione a UE e guerra in Ucraina (da cui era stato comunque già bandito), si è presentato al seggio insieme a Georgescu. Tanto per ribadire – e capitalizzare – la sintonia. L’Unione Europea si mostra preoccupata e non vedrebbe male un’altra cancellazione del voto...

Il problema, com’è evidente, sta tutto nel fatto che queste formazioni apertamente reazionarie sono state allegramente tollerate e coccolate per decenni, senza alcun intervento repressivo degno di nota. Anzi, con parecchie complicità di polizia e servizi.

Si fosse intervenuto in questo senso quando non contavano un tubo, tutto sarebbe stato politicamente corretto (il fascismo è ancora un reato, in Europa) rapido e indolore, al netto di qualche impazzimento facilmente controllabile. E i governi “liberali” avrebbero fatto una figura credibile come “antifascisti”.

Agire repressivamente ora, quando i partiti in oggetto sono diventati un elemento considerevole della vita politica dei rispettivi paesi, sarebbe come spingere alla guerra civile. Con esiti decisamente incerti, viste le complicità e le sintonie esistenti soprattutto a livello di polizie e servizi...

Una volta realizzato il “riarmo europeo”, probabilmente, i neonazisti saranno pronti a prendere il governo. E sappiamo come finirebbe...

Spostiamoci verso l’impero americano.

In Canada, in apparenza secondo una dinamica opposta, il candidato liberale Mark Carney – ex presidente della Banca centrale, stesso partito dell’uscente Justin Trudeau – ha clamorosamente ribaltato le previsioni, conquistando quasi la maggioranza assoluta nella corsa contro il leader conservatore Pierre Poilievre, considerato il cavallo di troia di Trump per fare del suo paese il “51esimo Stato dell’Unione”.

In Australia è stato confermato premier Anthony Albanese e il partito laburista ottiene una vittoria “sorprendente” alle elezioni federali. Il suo avversario di destra, Peter Dutton, apertamente sostenuto da Trump e J.D. Vance, è stato strabattuto e ha financo perso il suo seggio. Anche qui il tocco di re Mida si è rivelato essere un “bacio della morte”.

Cos’è che unisce risultati così differenti? Una sola cosa: in tutti questi paesi gli elettori hanno votato al contrario rispetto alle indicazioni provenienti dalle «ingerenze straniere dominanti». Nell’arena europea la tecnocrazia di Bruxelles tifava apertamente per soluzioni «coerenti» con l’assetto dato alla UE (austerità e guerra alla Russia). In Canada e Australia il «padrone di casa yankee» aveva fatto lo stesso, scegliendo i candidati coerenti con i propri obiettivi imperiali.

Tutti bocciati.

Sembra piuttosto evidente, allora, che gli elettori non abbiano seguito un criterio «valoriale» per esprimere la propria preferenza – pro «democrazia» o pro fascismo – ma un criterio di «opposizione»: se loro vogliono che comandi Tizio, allora io voto Caio.

Non c’è qui lo spazio per un’analisi precisa di cause e conseguenze di questo fenomeno, ma di certo dobbiamo riscontrare che ha una relazione non lineare con le politiche economiche e sociali applicate nell’Occidente neoliberista: sono le stesse, chiunque governi (lo sappiamo bene qui in Italia, in cui l’arrivo della fascista Meloni non ha cambiato di una virgola le politiche “europeiste” di austerità. Anzi...)

Ma l’affermarsi dell’ideologia nazifascista in Occidente non è un semplice «accidente», né resta senza conseguenze. È per molti versi la risposta «classica» di un intero assetto sociale all'universale sensazione di impoverimento e perdita di egemonia sul resto del mondo. A due fenomeni intrecciati, in definitiva, non soltanto ad uno, perché buona parte del passato “benessere” goduto anche dai ceti popolari occidentali derivava dalle politiche di rapina praticate contro i paesi più deboli (oltre che, ovviamente, dalla forza contrattuale e conflittuale dei lavoratori).

Un’incertezza esistenziale che accomuna quindi classi diverse, dal grande capitale – che vede crescere una concorrenza cui non riesce più a star dietro, fiaccato industrialmente da delocalizzazioni e finanziarizzazione – fino alle figure più deboli del mondo del lavoro (precarizzate, senza diritti, con salari che non garantiscono la sopravvivenza e ancor meno la riproduzione, aggravando il calo demografico fino a livelli da estinzione), quelle che si sentono risospinte verso condizioni materiali “da Terzo Mondo”.

In tale declino sociale le “regole della democrazia” risultano ormai un ostacolo per i gruppi dominanti, e quindi si moltiplicano i casi in cui il risultato del voto popolare viene azzerato da decisioni prese “ai piani alti” dell’establishment.

Cominciarono nel 2015, costringendo la Grecia ad accettare un “memorandum” che ne azzerava la libertà di gestire le proprie risorse e la politica economica. E dire che Tsipras, leader di Syriza, era in fondo un pacifico socialdemocratico, non certo di “estrema destra”.

Emerge insomma con sempre più nettezza l’esigenza del grande capitale di avere assetti “stabili” e obbedienti, a prescindere dal voto popolare, che in effetti è diventato ondivago e ostile, alla lunga poco “trattabile” nonostante fenomenali iniezioni di manipolazioni mediatiche. Un’esigenza che stravolge definitivamente l’idea stessa di “democrazia”, al punto che diventa accettabile soltanto il risultato che fa comodo a chi già comanda, non quello che corrisponde ad un pur compromesso “consenso popolare”.

Basti pensare al piano “Rearm Europe”, che è stato imposto senza alcun dibattito parlamentare europeo e nonostante i rilievi sollevati dalla Commissione Affari Giuridici del pur inutile parlamento di Strasburgo. Il voto anche solo formalmente “democratico” è un impiccio da evitare a qualsiasi livello, sia popolare che degli eletti o “nominati”.

La sola buona notizia che arriva da questo scenario fetido è la generale paura popolare per la guerra, unica soluzione che sia venuta in mente – come al solito – alle «classi dirigenti».

Non è solo una curiosità analitica. È un’indicazione di lotta. Da portare in piazza subito...

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