Era il 2018 quando, con il suo impermeabile giallo, le treccine bionde e il cartello “SKOLSTREJK FÖR KLIMATET”, l’attivista svedese Greta Thunberg diede il via al movimento Fridays for Future. Quel gesto mobilitò milioni di giovani in tutto il mondo, portando la crisi climatica al centro del dibattito pubblico.
Naturalmente, Greta ha sempre dovuto affrontare pressioni spropositate per il suo ruolo pubblico: dai media scandalistici che ridicolizzavano il suo disturbo di Asperger, alle critiche di figure pubbliche come Donald Trump, che la descrisse come una «persona con problemi di gestione della rabbia».
Nonostante ciò, Greta riuscì a innescare un movimento generazionale, noto come “effetto Greta”, e il 2019 si rivelò cruciale per i partiti verdi europei, anche grazie a milioni di persone scese in piazza ispirate dal suo esempio. Quell’anno, fu nominata “persona dell’anno” dalla rivista Time e ricevette candidature al Nobel per la Pace. Insomma, sembrava che fosse una bambina prodigio destinata a cambiare il mondo ancor prima di raggiungere l’età adulta.
Tuttavia, dopo mesi di silenzio, nel 2024 i titoli di giornale sono cambiati drasticamente: “Da icona dell’ecologia alla glorificazione del terrorismo palestinese”, “Greta Thunberg continua a farci arrabbiare”, “Greta Thunberg si radicalizza”.
Tutto questo dopo le proteste a Milano e Berlino, dove ha affrontato apertamente i temi del colonialismo e dell’oppressione globale. Durante un discorso a Milano, in un raduno contro il massacro di civili a Gaza, ha dichiarato: «Se tu, come attivista per il clima, non combatti anche per una Palestina libera e per la fine del colonialismo e dell’oppressione in tutto il mondo, allora non dovresti poterti definire un attivista per il clima».
Sempre in ottobre ha visitato il collettivo di fabbrica GKN, esempio di lotta intersezionale e di mobilitazione dal basso che, poco fuori Firenze, lotta per una produzione ecologica, con una visione di riappropriazione dell’energia come bene comune. Come ha affermato Greta, «la lotta per arrivare alla fine del mese è la stessa lotta contro la fine del mondo», sottolineando il legame tra le questioni ambientali, sociali, di genere e territoriali.
Questa evoluzione ha segnato un cambiamento nella percezione pubblica: da “paladina del clima”, celebrata per aver ispirato milioni di persone, a figura accusata di essere “pronta alla violenza”, in contrasto con l’immagine innocua di un tempo. Le sue prese di posizione su temi politici più ampi, come i diritti dei e delle palestinesi e la critica al colonialismo, hanno generato polemiche, portando a multe, arresti e persino richieste di divieto d’ingresso in Germania.
Recentemente, sembra che Greta sia caduta nell’oblio agli occhi del grande pubblico: una volta onnipresente, lodata e ammirata, ora sembra quasi assente o, quando menzionata, trattata negativamente dai governi e media che un tempo la sostenevano. Si potrebbe pensare che si sia ritirata dall’attivismo, se non fosse per le sue occasionali apparizioni sui giornali e sui social, spesso ritratta in situazioni di tensione: in manette o trascinata dalle forze dell’ordine, da Londra a Copenaghen, Oslo, Malmö, L’Aia e Lützerath.
Cosa c’è dietro questo cambiamento di percezione di Greta Thunberg? Perché questi eventi hanno avuto una scarsa copertura mediatica?
Il messaggio iniziale di Greta era un semplice “invito a seguire la scienza”, proveniente da una bambina europea, bionda, di classe media, con genitori sostenitori e istruiti. Come nota Nadeine Asbali, sembrava il prodotto della buona educazione, perfettamente in linea con i valori liberali occidentali.
Il suo messaggio politico era neutro, almeno per un pubblico mainstream di persone non disposte a negare l’esistenza della crisi climatica: chi poteva non concordare sul fatto che gli animali non debbano estinguersi, o sul non permettere che le temperature globali raggiungano livelli inabitabili?
Greta era la perfetta “poster child”, volto simbolo di una lotta climatica innocente e neutrale. Sembra che i politici mondiali abbiano ammirato la sua convinzione adolescenziale senza mai davvero ascoltare il suo messaggio, sfruttandola come simbolo quando conveniente, salvo poi non fare nulla per mitigare la crisi climatica.
La semplicità iniziale del suo messaggio, con frasi potenti come “La nostra casa è in fiamme”, unita a simboli facilmente riconoscibili come le treccine e il cappotto giallo, fu la chiave del suo successo: diretto, universale e comprensibile. Le metafore sono cruciali nel costruire il carisma, come afferma John Antonakis, docente di comportamento umano in ambito organizzativo all’università di Losanna, e la determinazione di Greta nel perseguire ciò che ritiene giusto ha contribuito al suo impatto.
Questo atteggiamento, che non si lascia influenzare dal giudizio altrui, è tipico dei leader carismatici. La sua schiettezza, unita alla sua trasparenza, ha avuto un ruolo fondamentale nel rafforzare il suo messaggio e nel renderla una vera e propria icona. Le persone nello spettro autistico, infatti, possono avere una comunicazione diretta e una visione unica, che le rende capaci di concentrarsi su ciò che considerano giusto con grande determinazione.
Essere elevati a icona però comporta aspettative irrealistiche e una pressione continua per mantenere la coerenza tra immagine pubblica e azioni personali. Quando queste aspettative non sono rispettate, il consenso può trasformarsi rapidamente in ostilità, passando dall’idolatria all’idiosincrasia, cioè l’avversione per ciò che una volta era idolatrato. Questo meccanismo è particolarmente visibile tra gli adolescenti, che sono estremamente radicali nel costruire e distruggere i loro simboli.
Greta è inevitabilmente cresciuta e con lei il suo pensiero politico, discostandosi dalle aspettative irrealistiche di una lotta climatica “neutrale”. Non è più la diciassettenne con il cappotto giallo e le treccine, simbolo innocuo e facilmente idolatrabile: oggi è una giovane donna di 22 anni che indossa con orgoglio la kefiah, simbolo di resistenza palestinese, e affronta senza paura temi come l’ingiustizia sistemica, il capitalismo e i diritti delle popolazioni del Sud globale.
E se un tempo il suo messaggio veniva accolto perché percepito come “non minaccioso”, oggi, nel denunciare apertamente le vere cause della crisi climatica, Greta non è più sfruttabile come icona innocua. La sua lotta si è fatta intersezionale, intrecciando giustizia ambientale, capitalismo, colonialismo, consumismo e imperialismo. Questo ha coinciso con un netto declino della sua visibilità mediatica.
Le persone infatti tendono a preferire cause chiaramente definite, mentre una lotta che intreccia giustizia ambientale e diritti umani richiede una comprensione più complessa. Il pericolo dell’intersezionalità sta proprio nella sua complessità: il messaggio diventa meno immediato, più difficile da afferrare.
Noti studi psicologici mostrano come siamo più inclini a semplificare le informazioni e a ignorare i collegamenti complessi tra fenomeni, come la distruzione degli habitat e le decisioni politiche o economiche. Per molti, queste connessioni non risultano intuitive.
In questo contesto, i media giocano un ruolo cruciale: possono decidere chi elevare a simbolo e chi silenziare, influenzando la percezione pubblica e l’efficacia di un intero movimento. Greta è infatti diventata rapidamente bersaglio di attacchi personali, chiaro esempio della fragilità e pericolosità delle figure simboliche, facilmente distorte per delegittimare il messaggio che rappresentano.
Nonostante ciò, ha resistito a questa pressione, mostrando una straordinaria capacità di rimanere fedele ai suoi principi e di evolversi come persona pubblica. Questo passaggio da simbolo a individuo autentico, capace di affrontare critiche e trasformazioni, rappresenta una lezione importante per l’attivismo: la necessità di costruire movimenti collettivi che vadano oltre l’esaltazione di una sola figura, rendendo il messaggio più resiliente alle sfide esterne.
Quest’anno mi è capitato di citare Greta dicendo: “La nostra casa è in fiamme”. Una persona mi rispose con decisione: «È diverso dire “La nostra casa è in fiamme” rispetto a “Qualcuno ha appiccato un incendio a casa nostra”». Ma la verità è questa: la crisi climatica ha dei responsabili, qualcuno lo ha appiccato veramente questo incendio, metaforico e non, ma troppo spesso si è evitato di dirlo chiaramente.
Ora Greta lo afferma senza mezzi termini, puntando il dito direttamente sull’oppressione e le disuguaglianze sistemiche alla base della crisi climatica, e questa chiarezza rende il suo messaggio scomodo. Quindi, la risposta è: no, Greta non ha smesso di fare attivismo. Ma, come ha scritto Nadaline Asbali, se ci chiediamo perché il mondo sembra essersi improvvisamente dimenticato di Greta Thunberg, è perché sta colpendo il sistema “dove fa più male”.
Naturalmente, Greta ha sempre dovuto affrontare pressioni spropositate per il suo ruolo pubblico: dai media scandalistici che ridicolizzavano il suo disturbo di Asperger, alle critiche di figure pubbliche come Donald Trump, che la descrisse come una «persona con problemi di gestione della rabbia».
Nonostante ciò, Greta riuscì a innescare un movimento generazionale, noto come “effetto Greta”, e il 2019 si rivelò cruciale per i partiti verdi europei, anche grazie a milioni di persone scese in piazza ispirate dal suo esempio. Quell’anno, fu nominata “persona dell’anno” dalla rivista Time e ricevette candidature al Nobel per la Pace. Insomma, sembrava che fosse una bambina prodigio destinata a cambiare il mondo ancor prima di raggiungere l’età adulta.
Tuttavia, dopo mesi di silenzio, nel 2024 i titoli di giornale sono cambiati drasticamente: “Da icona dell’ecologia alla glorificazione del terrorismo palestinese”, “Greta Thunberg continua a farci arrabbiare”, “Greta Thunberg si radicalizza”.
Tutto questo dopo le proteste a Milano e Berlino, dove ha affrontato apertamente i temi del colonialismo e dell’oppressione globale. Durante un discorso a Milano, in un raduno contro il massacro di civili a Gaza, ha dichiarato: «Se tu, come attivista per il clima, non combatti anche per una Palestina libera e per la fine del colonialismo e dell’oppressione in tutto il mondo, allora non dovresti poterti definire un attivista per il clima».
Sempre in ottobre ha visitato il collettivo di fabbrica GKN, esempio di lotta intersezionale e di mobilitazione dal basso che, poco fuori Firenze, lotta per una produzione ecologica, con una visione di riappropriazione dell’energia come bene comune. Come ha affermato Greta, «la lotta per arrivare alla fine del mese è la stessa lotta contro la fine del mondo», sottolineando il legame tra le questioni ambientali, sociali, di genere e territoriali.
Questa evoluzione ha segnato un cambiamento nella percezione pubblica: da “paladina del clima”, celebrata per aver ispirato milioni di persone, a figura accusata di essere “pronta alla violenza”, in contrasto con l’immagine innocua di un tempo. Le sue prese di posizione su temi politici più ampi, come i diritti dei e delle palestinesi e la critica al colonialismo, hanno generato polemiche, portando a multe, arresti e persino richieste di divieto d’ingresso in Germania.
Recentemente, sembra che Greta sia caduta nell’oblio agli occhi del grande pubblico: una volta onnipresente, lodata e ammirata, ora sembra quasi assente o, quando menzionata, trattata negativamente dai governi e media che un tempo la sostenevano. Si potrebbe pensare che si sia ritirata dall’attivismo, se non fosse per le sue occasionali apparizioni sui giornali e sui social, spesso ritratta in situazioni di tensione: in manette o trascinata dalle forze dell’ordine, da Londra a Copenaghen, Oslo, Malmö, L’Aia e Lützerath.
Cosa c’è dietro questo cambiamento di percezione di Greta Thunberg? Perché questi eventi hanno avuto una scarsa copertura mediatica?
Il messaggio iniziale di Greta era un semplice “invito a seguire la scienza”, proveniente da una bambina europea, bionda, di classe media, con genitori sostenitori e istruiti. Come nota Nadeine Asbali, sembrava il prodotto della buona educazione, perfettamente in linea con i valori liberali occidentali.
Il suo messaggio politico era neutro, almeno per un pubblico mainstream di persone non disposte a negare l’esistenza della crisi climatica: chi poteva non concordare sul fatto che gli animali non debbano estinguersi, o sul non permettere che le temperature globali raggiungano livelli inabitabili?
Greta era la perfetta “poster child”, volto simbolo di una lotta climatica innocente e neutrale. Sembra che i politici mondiali abbiano ammirato la sua convinzione adolescenziale senza mai davvero ascoltare il suo messaggio, sfruttandola come simbolo quando conveniente, salvo poi non fare nulla per mitigare la crisi climatica.
La semplicità iniziale del suo messaggio, con frasi potenti come “La nostra casa è in fiamme”, unita a simboli facilmente riconoscibili come le treccine e il cappotto giallo, fu la chiave del suo successo: diretto, universale e comprensibile. Le metafore sono cruciali nel costruire il carisma, come afferma John Antonakis, docente di comportamento umano in ambito organizzativo all’università di Losanna, e la determinazione di Greta nel perseguire ciò che ritiene giusto ha contribuito al suo impatto.
Questo atteggiamento, che non si lascia influenzare dal giudizio altrui, è tipico dei leader carismatici. La sua schiettezza, unita alla sua trasparenza, ha avuto un ruolo fondamentale nel rafforzare il suo messaggio e nel renderla una vera e propria icona. Le persone nello spettro autistico, infatti, possono avere una comunicazione diretta e una visione unica, che le rende capaci di concentrarsi su ciò che considerano giusto con grande determinazione.
Essere elevati a icona però comporta aspettative irrealistiche e una pressione continua per mantenere la coerenza tra immagine pubblica e azioni personali. Quando queste aspettative non sono rispettate, il consenso può trasformarsi rapidamente in ostilità, passando dall’idolatria all’idiosincrasia, cioè l’avversione per ciò che una volta era idolatrato. Questo meccanismo è particolarmente visibile tra gli adolescenti, che sono estremamente radicali nel costruire e distruggere i loro simboli.
Greta è inevitabilmente cresciuta e con lei il suo pensiero politico, discostandosi dalle aspettative irrealistiche di una lotta climatica “neutrale”. Non è più la diciassettenne con il cappotto giallo e le treccine, simbolo innocuo e facilmente idolatrabile: oggi è una giovane donna di 22 anni che indossa con orgoglio la kefiah, simbolo di resistenza palestinese, e affronta senza paura temi come l’ingiustizia sistemica, il capitalismo e i diritti delle popolazioni del Sud globale.
E se un tempo il suo messaggio veniva accolto perché percepito come “non minaccioso”, oggi, nel denunciare apertamente le vere cause della crisi climatica, Greta non è più sfruttabile come icona innocua. La sua lotta si è fatta intersezionale, intrecciando giustizia ambientale, capitalismo, colonialismo, consumismo e imperialismo. Questo ha coinciso con un netto declino della sua visibilità mediatica.
Le persone infatti tendono a preferire cause chiaramente definite, mentre una lotta che intreccia giustizia ambientale e diritti umani richiede una comprensione più complessa. Il pericolo dell’intersezionalità sta proprio nella sua complessità: il messaggio diventa meno immediato, più difficile da afferrare.
Noti studi psicologici mostrano come siamo più inclini a semplificare le informazioni e a ignorare i collegamenti complessi tra fenomeni, come la distruzione degli habitat e le decisioni politiche o economiche. Per molti, queste connessioni non risultano intuitive.
In questo contesto, i media giocano un ruolo cruciale: possono decidere chi elevare a simbolo e chi silenziare, influenzando la percezione pubblica e l’efficacia di un intero movimento. Greta è infatti diventata rapidamente bersaglio di attacchi personali, chiaro esempio della fragilità e pericolosità delle figure simboliche, facilmente distorte per delegittimare il messaggio che rappresentano.
Nonostante ciò, ha resistito a questa pressione, mostrando una straordinaria capacità di rimanere fedele ai suoi principi e di evolversi come persona pubblica. Questo passaggio da simbolo a individuo autentico, capace di affrontare critiche e trasformazioni, rappresenta una lezione importante per l’attivismo: la necessità di costruire movimenti collettivi che vadano oltre l’esaltazione di una sola figura, rendendo il messaggio più resiliente alle sfide esterne.
Quest’anno mi è capitato di citare Greta dicendo: “La nostra casa è in fiamme”. Una persona mi rispose con decisione: «È diverso dire “La nostra casa è in fiamme” rispetto a “Qualcuno ha appiccato un incendio a casa nostra”». Ma la verità è questa: la crisi climatica ha dei responsabili, qualcuno lo ha appiccato veramente questo incendio, metaforico e non, ma troppo spesso si è evitato di dirlo chiaramente.
Ora Greta lo afferma senza mezzi termini, puntando il dito direttamente sull’oppressione e le disuguaglianze sistemiche alla base della crisi climatica, e questa chiarezza rende il suo messaggio scomodo. Quindi, la risposta è: no, Greta non ha smesso di fare attivismo. Ma, come ha scritto Nadaline Asbali, se ci chiediamo perché il mondo sembra essersi improvvisamente dimenticato di Greta Thunberg, è perché sta colpendo il sistema “dove fa più male”.
*****
Le ultime notizie davano Greta Thurnberg tra gli attivisti che dovevano essere sulla nave della Freedom Flotilla che doveva portare aiuti umanitari a Gaza, poi bombardata dall’aviazione israeliana in acque internazionali.
*****
Droni contro la Flotilla che portava cibo a Gaza
Droni contro la Flotilla che portava cibo a Gaza
Eliana Riva
A mezzanotte e ventitré di ieri, due droni da guerra hanno colpito diverse volte la nave Conscience della Freedom Flotilla, mentre si trovava in acque internazionali. Il primo sparo ha centrato l’esterno dello scafo, che ha cominciato a imbarcare acqua. Gli altri il ponte di prua e la zona dei generatori, lasciando l’equipaggio senza energia. La radio ha smesso di funzionare e le comunicazioni sono diventate complicate e discontinue. Si è subito sviluppato un incendio e sono giunte sul posto una nave di Cipro del Sud e una maltese.
Thiago Avila, della ong, ha dichiarato che la Flotilla ha inviato due barche in supporto ma che le navi maltesi non hanno permesso loro di avvicinarsi. In serata, gli attivisti hanno comunicato di temere un nuovo attacco e che la nave resta gravemente danneggiata. Ma la Guardia costiera maltese blocca lo scafo, impedendogli di giungere in un porto sicuro.
AL MOMENTO dell’attacco la Conscience ospitava trenta operatori umanitari provenienti da Turchia e Azerbaijan, cibo e medicine. Una nave disarmata, ferma a tredici miglia a nord-est di Malta nell’attesa di ricevere il permesso di attraccare al porto per far salire a bordo altri volontari e ulteriori beni essenziali.
La Freedom Flotilla Coalition, che dal 2008 organizza azioni con lo scopo di rompere l’assedio israeliano e raggiungere le coste di Gaza, aveva scelto di mantenere il riserbo sulla missione della Conscience. Per evitare di essere bloccata, come già diverse volte è accaduto.
A Malta si sarebbero dovuti imbarcare decine di altri volontari, tra cui l’attivista Greta Thunberg, che avrebbe proseguito verso Gaza insieme agli altri. In attesa a La Valletta anche due italiani, Simone Zambrin e Chiara Di Silvestro. Ma i meccanismi di boicottaggio godono di sistemi di supporto internazionale che usano la burocrazia come un’arma affilata.
«Tutte le missioni hanno registrato ritardi causati dalle autorità marittime – ci ha detto Michele Borgia, che si occupa in Italia della comunicazione per l’ong – Spesso le imbarcazioni vengono controllate e ricontrollate per giorni».
Gli attivisti puntano il dito contro Israele e i suoi partner. Chi poteva avere interesse a mettere fuori uso con le armi una nave umanitaria diretta a Gaza? Non ci sono prove certe ma un C-130 Hercules dell’aeronautica israeliana è partito da Tel Aviv giovedì pomeriggio e ha sorvolato, a bassa quota e per diverse ore, l’area in cui si trovava la Conscience. Secondo i dati di volo disponibili online sui siti di tracciamento e condivisi dalla CNN, l’aereo è ritornato in Israele sette ore dopo il decollo, quando l’attacco era già stato compiuto. Tel Aviv si è rifiutata di commentare.
Quindici anni fa, a maggio del 2010 Israele attaccò la Mavi Marmara, una delle sei navi della Freedom Flotilla che tentavano di forzare il blocco navale di Gaza. I militari uccisero nove attivisti turchi. Il presidente Erdogan, tra i primi a denunciare l’attacco di ieri, ha dichiarato la sua solidarietà al gruppo internazionale. Eppure, è stata proprio la Turchia a bloccare per mesi la nave al porto di Istanbul, lasciando che il cibo si deteriorasse e che parte degli aiuti diventasse inservibile.
Anche per questo motivo l’imbarcazione doveva attraccare a Malta, dove la attendeva un’agenzia incaricata al trasbordo del nuovo carico umanitario. Agenzia che ha inaspettatamente dichiarato di non intendere far fede al suo impegno e Malta non ha rilasciato il permesso di ingresso nelle sue acque territoriali.
Un’attesa di 48 ore che ha svelato il suo significato quando è giunta alla nave la temuta e familiare notizia. L’attesa in acque internazionali serviva a dar tempo alle pressioni di governi e paesi perché venisse ritirata la bandiera dell’imbarcazione. La Conscience batteva bandiera di Palau. L’identica cosa era accaduta lo scorso anno a un’altra missione della Flotilla che con tre navi, 5mila tonnellate di aiuti e centinaia di osservatori internazionali sarebbe dovuta partire da Istanbul. Il governo turco ritardò la consegna dei permessi fino a quando venne comunicato che la Guinea Bissau intendeva ritirare la sua bandiera.
Solo nel 2008, la Dignity riuscì a vincere il blocco e a raggiungere le coste di Gaza. Quella volta, insieme a tanti volontari internazionali, sbarcò anche Vittorio Arrigoni.
«Abbiamo valutato i rischi della missione – ha dichiarato al manifesto l’attivista italiano Simone Zambrin – ma abbiamo deciso di provare a fare quello che i nostri governi, complici, non fanno.
Esiste qualcosa di più genuino che portare cibo e medicine a chi ne ha bisogno? È la nostra resistenza non violenta a un atto disumano».
Dopo due mesi di blocco totale, neanche le associazioni internazionali a Gaza hanno gli strumenti per aiutare la popolazione. La risposta umanitaria «è sull’orlo del collasso totale», ha denunciato la Croce rossa. «Senza un’immediata ripresa delle consegne di aiuti, il Comitato Internazionale (Cicr) non avrà accesso al cibo, ai medicinali e ai beni di prima necessità fondamentali per sostenere molti dei suoi programmi a Gaza», si legge nel comunicato diffuso ieri. Gli ospedali, anche quelli da campo della Cicr, non hanno più medicine.
Vecchie scarpe si vendono a chilo come unica risorse per poter accendere un fuoco per cucinare o scaldarsi. Sempre più famiglie domandano, disperate, un aiuto per i propri figli che si stanno consumando tra fame e malattie, ormai solo costole e colonne vertebrali, senza la forza neanche di piangere. Ma Israele continua a bombardare case e tende, mentre minaccia di espandere ancora le sue operazioni militari.
Almeno sei persone sono state uccise ieri a Gaza City, in un attacco a una delle poche cucine di comunità ancora aperte. A Beit Lahiya Israele ha bombardato una casa in cui i parenti vegliavano la salma della vittima di un precedente attacco. I testimoni parlano di più di dodici morti, tutti membri della famiglia Al-Masri.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento