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25/02/2014

Federmeccanica: “alla fine del tunnel forse c’è un rondò”

Seguire le “analisi congiunturali” di Federmeccanica è un rito per me ormai decennale, o più, che consegna ogni volta lo stato reale del settore guida dell’industria nazionale. Tutte le chiacchiere dei “politici”, ma anche molte congetture “di movimento”, spariscono come la polvere sotto l’azione di un buon lavavetri.

Un dato su tutti: in sei anni di crisi l’industria metalmeccanica ha perso il 30,4% di Pil, ma soprattutto il 25% di “capacità produttiva”. Cosa vuol dire? Un quarto degli impianti non funzionerà mai più, è stato chiuso, perso per sempre. Se anche domattina scoppiasse un’improvvisa e forsennata domanda, gli impianti ancora in funzione non saprebbero come soddisfarla. Certo, quanti oggi viaggiano a “produzione ridotta” avrebbero più fiato, ma nell’insieme – pur lavorando al 100% – non potrebbero far fronte alle richieste.

Per recuperare il tessuto produttivo perduto sarebbero necessari anni e investimenti cospicui, soprattutto per l’innovazione tecnologica (di prodotto e di processo). Proprio quel che nessun comparto del settore, in questo momento, prevede di fare.

Il secondo dato è in una battuta: “forse si vede la fine del tunnel, ma è probabile che fuori ci sia un rondò che ci riporta dentro”. Ed è chiaro perché. Il quarto trimestre del 2013 si è chiuso con una lievissima “crescita” rispetto a quello precedente (+1,1%), mentre l’anno intero ha fatto segnare un -2,7 che segue altri due anni già negativi.

E non si può parlare neppure di un’avvisaglia di “inversione di tendenza”, perché nell’ultimo trimestre 2013 ci sono due mesi moderatamente positivi (ottobre e novembre) e uno decisamente negativo, che è però l’ultimo, dicembre. Un passaggio di testimone al nuovo anno non proprio ben augurante.

Ma cos’è che traina tanto in basso la produzione industriale, anche in questo settore? Fondamentalmente “la domanda interna”, dicono all’unisono il responsabile del Centro studi (Angelo Megaro), il vicepresidente Roberto Maglione e il nuovo direttore generale, Stefano Franchi, alla sua prima uscita dopo il raggiunto limite di età da parte di Roberto Santarelli. Una domanda per cui si chiede un “supporto” al governo, pur sapendo perfettamente che i soldi non ci sono ma “si tratta di decidere cosa tagliare e cosa privilegiare”. In sintesi, “tornare a dare valore alla manifattura”, ovvero “la creazione di beni fisici, non di vaporware”, “eliminare la riforma Fornero” (la parte riguardante l’apprendistato, considerata “troppo rigida, perché costringe le imprese a investire sulla stessa persona per 40 anni” e quindi “blocca le assunzioni”), la reintroduzione dell’”apprendistato professionalizzante” e lo “sfoltimento dei contratti atipici”, portando le attuali 46 forme contrattuali a “soltanto 5 o 6”). La precarietà “variegata” l’avevano chiesta le imprese per dividere et imperare sulla forza lavoro, bisogna ricordare, ma “troppa grazia, sant’Antonio…”

Dove trovare i soldi? Tagliando la spesa pubblica, naturalmente. Tranne che per quanto riguarda i pagamenti dovuti dalla pubblica amministrazione ai “fornitori” di beni e servizi allo Stato. Quelli, invece, dovrebbero arrivare “in tempo reale”.

L’altro pilastro della depressione viene dalle esportazioni. Che vanno benissimo, per carità, al punto da rappresentare ancora quasi il 50% del totale dell’export nazionale. Ma che da qualche tempo risentono del “ridotto assorbimento” da parte di due clienti storici come Germania e Francia (rispettivamente -3,8 e -4,3%). In volume e in valore non bastano a compensare le perdite su questo fronte nemmeno le notevoli performance verso Cina e Russia (+8,8 e + 9,6%), peraltro con preoccupazioni per le possibili ricadute della crisi ucraina. È un argomento poco approfondito, questo delle conseguenze della politica estera sulle esportazioni; ma decisivo. La vicenda scabrosa dei “due marò”, per esempio, ha certo avuto un peso decisivo nel far ridurre l’export metalmeccanico verso l’India del 17,1% nel solo 2013.

Insomma: la domanda interna è in discesa da anni e l’export non tira più (colpa del “ridisegno” delle filiere produttive “German oriented”, che ha spostato molte produzioni un tempo appannaggio dell’Italia verso Cechia, Slovacchia, Polonia, Lituania, ecc; ma non viene detto). Come se ne esce?

Per ora non se ne esce affatto. Il futuro di un settore industriale si vede dagli ordinativi e questi non lasciano affatto vedere “l’uscita dal tunnel”. Pur trattandosi di un’indagine “qualitativa” – fondata cioè sulla percentuale di dichiarazioni positive, neutre o negative da parte delle aziende interpellate – il dato è implacabile: le imprese che dicono di avere un “portafoglio ordini” soddisfacente sono calate di un altro 3% nell’ultimo trimestre; mentre lo scarto tra “positive” e “negative” è ormai giunto al 23%. Come spiega Megaro, “serviranno molti trimestri e altrettanti investimenti per ritornare almeno al pareggio”. Che non sarebbe ancora “crescita”.

Se un quarto degli impianti ha chiuso definitivamente l’attività, e una buona percentuale di quelli aperti lavora molto al di sotto del proprio potenziale, l’occupazione soffre inevitabilmente moltissimo. L’ultimo ammortizzatore efficace resta la cassa integrazione – e proprio quella Renzi ha annunciato di voler eliminare! – che ha raggiunto nuovi record: 414 milioni di ore nel 2013, pari a 226.000 persone (o famiglie intere, spesso) che altrimenti sarebbero tagliate fuori per sempre. Preoccupa soprattutto che stia aumentando spaventosamente la “straordinaria” (+23,5%), ovvero la modalità prevista per le “ristrutturazioni aziendali” (mentre la “ordinaria” copre gli “eventi eccezionali”, come alluvioni, terremoti, ecc); segno che la quasi totalità dei cassintegrati di quel tipo non rientrerà in fabbrica.

L’unico elemento positivo è il cambio di orientamento degli industriali metalmeccanici in tema di austerità: “bisogna abbandonare le politiche restrittive, ne servono di espansive che incentivino gli investimenti, di sola austerità si muore”. Addirittura, “necessarie a far avere retribuzioni reali più alte”… Solo che “tagliando la spesa pubblica” sembra alquanto difficile…

Ai giornalisti, però, i numeri riescono sempre un po’ ostici, qualcuno si impicca persino nella distinzione tra “congiunturale” e “tendenziale”, e quindi fioccano alla fine… le domande sulla Fiom e sull’accordo del 10 gennaio sulla rappresentanza. Un po’ polemicamente qualcuno chiede se le imprese siano “preoccupate” per le possibili “sanzioni pecuniarie” che potrebbero trovarsi a pagare in caso di “non rispetto degli accordi”.

Tutti sappiamo che quelle “sanzioni” sono immaginate soltanto per delegati sindacali, organizzazioni e forse persino singoli lavoratori. Ma gli industriali ci tengono a far capire che sarà proprio così, girandoci appena un po’ intorno. “Quell’accordo sancisce un principio, il rispetto delle regole e le sanzioni per chi non le rispetta; andranno articolate necessariamente nei diversi ambiti, nei diversi comparti, vedremo”.

Potremmo riassumere così l’impressione: è come nel calcio italiano. Se uno juventino cade nell’area avversaria è rigore, se un avversario cade nell’area juventina è simulazione.

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