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28/02/2014

La nuova architettura istituzionale dell'Unione Europea

Come spesso accade è il giornale della Confindustria, Il Sole 24 Ore, a registrare con la maggiore puntualità gli avvenimenti economici e istituzionali, cogliendone peraltro il senso politico, così è stato per l’ultima iniziativa dell’Unione Europea, quella dell’unione bancaria, giudicata come il più recente e di sicuro non l’ultimo atto del ‘restyling’ dell’architettura dell’UE [1]. Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia ed esponente di vertice dell’élite tecnocratica, ha messo in evidenza che proprio la crisi dei debiti sovrani ha ‘provocato un salto in avanti nel processo di unificazione’ mettendo in moto la ‘più profonda ondata di innovazione istituzionale’ che sia mai avvenuta nell’UE [2].

Abituati, per un vizio culturale, a scrutare solo le istituzioni ‘politiche’ – il parlamento, il governo, i ministeri … –, spesso si lasciano in un cono d’ombra quelle che contano nella sfera decisionale economica e finanziaria. Per esempio, in un recente volume dal titolo Democracy and subsidiarity in the EU, curato da Marta Cartabia Nicola Lupo e Andrea Simoncini [3] (persone ben addentro alle cose europee), si scandaglia il processo decisionale dell’UE trascurando gli organismi in cui si è andato concentrando il potere sull’intero campo delle politiche economiche e di bilancio: Commissione, ECOFIN, Eurogruppo, BCE in stretta coordinazione con i governi degli Stati membri. Si continua ad esaminare l’UE alla luce dei Trattati di Lisbona come se dal settembre del 2010 non fosse stata avviata una riorganizzazione, rivelatasi radicale, dei complessivi meccanismi decisionali sia a livello europeo sia a livello nazionale. Nel settembre 2010 l’ECOFIN avviò il Semestre Europeo per innovare le procedure di bilancio dei Paesi dell’Eurozona che condusse nel 2011 all’emanazione del Six Pack, completato nel 2013 con il Two Pack, il tutto accompagnato da due Trattati internazionali: il Fiscal Compact e l’ESM. Questa ristrutturazione dei poteri decisionali, a partire da quelli economico-finanziari, in parallelo alle misure ‘non convenzionali’ della BCE, ha consentito all’UE di gestire la crisi dei mercati finanziari, dei debiti pubblici e dell’euro, e di riorganizzare l’intero tessuto istituzionale.

L’Europa non si farà di colpo, sosteneva Monnet, e aggiungeva che essa sarebbe stata il risultato delle crisi che avrebbe via via incontrato: la sua visione è stata ‘profetica’ e il suo ‘funzionalismo’ si è rivelato un metodo di azione vincente dato che nel fronteggiare anche la presente crisi l’UE ha portato avanti l’integrazione sovranazionale.

Il processo di ristrutturazione dei poteri dell’UE ha dato vita a un’oligarchia che decide l’insieme delle politiche pubbliche. Oligarchia che vede insieme forze dell’imprenditoria industriale e finanziaria, banche, BCE, governi nazionali, tecnocrazia dell’UE: un ceto elitario che dispone dei destini di 500 milioni di persone. La sua ragion d’essere e le sue finalità sono l’attuazione di politiche per il funzionamento del mercato unico, di cui l’euro è strumento necessario. Le misure monetarie ‘non convenzionali’ della BCE, che ha inondato le banche di liquidità a bassi tassi di interesse, lungi dallo sciogliere l’intreccio tra banche e debiti pubblici hanno finito per rinsaldarlo, sia nella fase di crisi acuta del 2011-2012 quando le banche con la liquidità fornita dalla BCE hanno comprato titoli pubblici (salvando gli Stati), sia ora quando con il calo degli spread gli ‘investitori internazionali’ comprano di nuovo titoli pubblici dei PIGS con il risultato di valorizzare anche i titoli bancari. Banche e debito pubblico, da sempre, ‘insieme stanno e insieme cadono’. Ciò perché mediante le transazioni tra BCE, banche e Tesoro quale emittente del debito pubblico si crea e viene gestita la moneta unica necessaria per il ‘funzionamento efficace di tutti i mercati’ nella sua qualità di valuta per gli scambi e di riserva [4].

Se le rivoluzioni borghesi del Seicento e Settecento hanno avuto come obiettivo il controllo delle finanze pubbliche, da sottrarre all’arbitrio delle monarchie assolute per devolverlo ai parlamenti, oggi nell’UE questo controllo è nelle mani di un’oligarchia.

Le banche sono in una fase di ristrutturazione secondo modi e tempi dettati dal processo di unione bancaria, che concentra a livello di UE e di BCE i poteri di regolamentazione, sorveglianza e risoluzione delle crisi di insolvenza. A sostenere la riorganizzazione dell’economia, delle banche e della finanza, sono finalizzate le nuove procedure del bilancio pubblico.

Nell’Annual Growth Survey 2014 [5], la Commissione ha avvertito che la nuova governance, grazie al Semestre europeo, richiede ‘un pubblico consenso e l’accettazione della necessità delle riforme’, una più stretta coordinazione ex ante delle politiche economiche dei paesi dell’Eurozona al fine di incrementare la produttività e la competitività, l’attuazione delle Raccomandazioni della Commissione emesse in relazione ai DEF nazionali, sia dei Paesi nel ‘braccio preventivo’ sia di quelli nel ‘braccio correttivo’.

La governance economica dei Paesi dell’Eurozona è regolamentata dal Six Pack e dal Two Pack. Il Six Pack è costituito da cinque regolamenti e una direttiva: i regolamenti, identificati dai numeri 1173, 1174, 1175, 1176, 1177 ed emanati nel novembre 2011, riguardano i paesi della Zona Euro mentre la direttiva 2011/85/UE concerne tutti gli Stati membri disciplinandone le modalità di redazione dei quadri del bilancio.

Il Two Pack, che coinvolge i paesi della Zona Euro, si compone di due regolamenti del 2013, che portano i numeri 472 e 473.

Per riassumerne i contenuti, nella maniera più neutrale possibile, ricorro alla sintesi offerta dal sito della Camera dei Deputati. Il Six Pack mira a un’applicazione più stringente del Patto di stabilità e crescita sancendo:

- l’obbligo per gli Stati membri di convergere verso l’obiettivo del pareggio di bilancio con un miglioramento annuale dei saldi pari ad almeno lo 0,5%;

- l’obbligo per i Paesi il cui debito supera il 60% del PIL di adottare misure per ridurlo ad un ritmo soddisfacente, nella misura di almeno 1/20 della eccedenza rispetto alla soglia del 60%, calcolata nel corso degli ultimi tre anni;

- un semi-automatismo delle procedure per l’erogazione delle sanzioni per i Paesi che violano le regole del Patto; le sanzioni sono raccomandate dalla Commissione e si considerano approvate dal Consiglio, l’ECOFIN, a meno che esso non la respinga con voto a maggioranza qualificata (‘maggioranza inversa’) degli Stati della Zona Euro (senza tener conto del voto dello Stato interessato).

Ai Paesi che registrano un disavanzo eccessivo si applica un deposito non fruttifero pari allo 0,2% del PIL realizzato nell’anno precedente, convertito in ammenda in caso di non osservanza della raccomandazione di correggere il disavanzo eccessivo.

Il Two Pack rende più vincolante la parte preventiva e quella correttiva del Patto di stabilità e crescita attraverso:

- il rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri che affrontano o sono minacciati da serie difficoltà per la propria stabilità finanziaria;

- il monitoraggio e la valutazione dei progetti di bilancio e per assicurare la correzione dei disavanzi eccessivi degli Stati membri nella Zona Euro.

A questi fini gli Stati membri sono tenuti a:

- pubblicare i propri programmi di bilancio a medio-termine, basati su previsioni macroeconomiche fornite da un organismo indipendente;

- presentare entro il 15 ottobre il progetto di bilancio per l’anno successivo;

- approvare la legge di bilancio annuale non più tardi del 31 dicembre;

- istituire un ente di controllo del bilancio indipendente.

La Commissione, qualora ritenga il progetto di bilancio di uno Stato membro non conforme agli obblighi imposti dal Patto di stabilità e crescita, può chiedere, entro due settimane dalla ricezione del progetto, la presentazione di un progetto di bilancio rivisto. Al termine dell’esame del progetto di bilancio, al più tardi entro il 30 novembre di ogni anno, la Commissione adotta, se necessario, un parere sul progetto stesso, da sottoporre alla valutazione dell’Eurogruppo [6].

Per la sessione di bilancio 2014, oltre al Six Pack già vigente dal 2011, è entrato in vigore il Two Pack, per questo 13 paesi dell’Eurozona hanno presentato il 15 ottobre 2013 i propri progetti (i Draft Budgetary Plans), tranne quelli sottoposti ai ‘programmi di aggiustamento’ che sono Cipro, Grecia, Irlanda e Portogallo, i cui bilanci sono monitorati quotidianamente dalla Commissione o dalla Troika.

Con puntualità il ministro Saccomanni ha spedito a Bruxelles il Draft Budgetary Plan redatto direttamente in inglese. Basta esaminarne alcuni passi per rendersi conto di quanto profondo sia il cambiamento del luogo decisionale del bilancio pubblico. Vi si legge che «in linea con le prescrizioni del Two Pack, per la corrente sessione di bilancio l’Italia presenta per la prima volta il Draft Budgetary Plan per aggiornare le proiezioni macroeconomiche e di bilancio pubblico indicate nel Programma di Stabilità pubblicato in aprile e per dare i dettagli delle misure di aggiustamento». Sono elencate tutte le misure per condurre sane politiche fiscali e per tornare sul ‘sentiero della crescita’, indicando i tre indirizzi da seguire: la legge di bilancio del 2014 con il rispetto dei parametri del deficit e del debito, il taglio del cuneo fiscale, i provvedimenti per recuperare competitività e per riavviare le privatizzazioni [7].

Delle Tabelle statistiche e delle Tavole riassuntive delle politiche italiane, che formano la maggior parte del Draft Budgetary Plan, è utile leggere la Tavola I 1-14, perché in essa si dà conto di come la Legge di Stabilità 2014 risponda alle Raccomandazioni che la Commissione e l’ECOFIN hanno rivolto all’Italia nel giugno-luglio 2013. Le Raccomandazioni sono state tutte accolte e soddisfatte, e come prova si indicano meticolosamente articoli e commi della Legge di Stabilità relativamente alla riduzione del debito, all’efficienza della PA, al rafforzamento del sistema finanziario, alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, al sistema fiscale e alla competitività: non il Parlamento, non le forze sociali sindacali o associative e men che mai i cittadini sono i referenti del governo, solo la Commissione è interlocutrice essendo essa anche il giudice dei bilanci pubblici.

Soprattutto giudice, infatti, nelle valutazioni che la Commissione ha emesso il 30 novembre 2013 le misure italiane sono state giudicate insufficienti, e perfino le statistiche economiche sono state messe all’indice in quanto non elaborate da un organismo autonomo. Afferma la Commissione che il Regolamento 473/2013 richiede che il bilancio sia redatto sulla base di previsioni e dati elaborati da un organismo indipendente, che in Italia sarà l’Ufficio parlamentare del bilancio, che di parlamentare non ha altro che la sede e i finanziamenti essendo un organismo di esperti ’indipendenti’, come prescrive la legge n. 243/2012. Proprio in questi giorni i presidenti di Camera e Senato hanno pubblicato il bando di concorso per la selezione degli esperti, membri di questo nuovo Ufficio che sottrarrà al Parlamento perfino il potere conoscitivo non più necessario in quanto non ha più poteri decisionali in tema di bilancio. La Commissione, emanando le sue valutazioni per i paesi della Zona Euro, ha dato voto di insufficienza al Budgetary Plan italiano anche a causa del rischio che esso non risponda agli obiettivi di rientro dal debito e che troppo deboli risultino le misure relative al cuneo fiscale, al mercato del lavoro e alle privatizzazioni. I giudizi della Commissione sono determinanti perché sono la condizione necessaria per usufruire di margini di manovra sugli investimenti pubblici, previsti per i paesi che sono nel ‘braccio preventivo’ del Patto di stabilità e crescita, come l’Italia uscita ormai da quello ‘correttivo’ [8]. Se il giudizio della Commissione non cambierà l’Italia non potrà investire 3/4 miliardi nel 2014, margine di manovra sul deficit che altrimenti verrebbe concesso. I livelli di indebitamento sono decisi ormai dall’UE.

La vicenda della legge di Stabilità 2014 ha fatto venire alla luce un circuito decisionale ristretto a pochi soggetti, che fanno tutti parte o degli esecutivi nazionali, come i ministri, o delle tecnocrazie degli Stati membri e dell’UE, o della BCE.

Un’autorevole giustificazione politico-culturale di questo regime oligarchico è stata offerta da Mario Draghi. Uso il termine ‘autorevole’ non tanto per indicare una persona di elevato rango nella gerarchia del potere, quanto nella sua derivazione da ‘autore’, dato che i discorsi di una persona ‘autorevole’ sono ‘performativi’, produttori di effetti pratici nella vita sociale: attraverso le sue parole, grazie alla sua funzione di presidente della BCE, Draghi è ‘autore’ di fatti politico-istituzionali. Per questo la sua teorizzazione sui nuovi modi di esercitare la sovranità non solo fornisce senso al nuovo regime ma contribuisce nella pratica sociale e istituzionale a instaurarlo con forme agli antipodi della democrazia rappresentativa come l’abbiamo conosciuta in una ormai secolare storia.

In un discorso tenuto alla Harvard Kennedy School (9 ottobre 2013), particolarmente ampio per gli standard dei suoi interventi, Draghi mette in luce che l’Europa, così lui chiama l’UE, è impegnata in un vasto processo di riforma per raggiungere tre risultati: rendere le finanze pubbliche più sostenibili; portare la sua economia a un più alto livello di competitività; rafforzare i bilanci delle proprie banche [9]. Come per Ignazio Visco, per Draghi profondo è l’attuale processo di riforma istituzionale tanto da affermare che il preambolo dei Trattati, dove si indica ‘un’unione sempre più stretta’ quale scopo dell’UE, non coglie più il senso dei recenti avvenimenti meglio ‘catturato’ dalle parole della Costituzione degli USA, laddove questa stabilisce come finalità ‘una più perfetta unione’ degli Stati. Non è un gioco di parole perché oggi, sostiene Draghi, si è in presenza di un ‘perfezionamento’ del disegno nato nel 1999 con l’avvio dell’euro.

A questo punto del discorso viene la prima affermazione che mi interessa evidenziare: «un mercato unico ha necessariamente implicazioni politiche», consentendo sia una cessione-condivisione di sovranità nazionale sia la preservazione di un ruolo decisionale degli Stati membri. Caratteristiche fondamentali di un mercato unico è che, rispetto a una zona di libero scambio, gli Stati non possono ristabilire controlli alle frontiere né possono differenziare le loro politiche tariffarie rispetto al resto del mondo. Inoltre richiede un livello politico-istituzionale che garantisca ‘la protezione dei diritti di proprietà e l’esecuzione dei contratti’. La Corte di Giustizia del Lussemburgo è garante delle leggi di mercato, imperniate nei contratti privati e nella competizione.

La seconda rilevante affermazione di Draghi è che la cessione di sovranità da parte degli Stati membri è necessaria per il funzionamento del mercato unico, ciò che pone una questione di legittimazione dell’esercizio della sovranità sovranazionale.

Per fondare questa legittimazione Draghi ricorre a una distinzione. Della ‘sovranità’ si può parlare in un senso ‘normativo’ poiché essa viene declinata in termini di diritti: dichiarare guerra e pace, imporre tasse, battere moneta, esercitare la giurisdizione. Sono i teorici ‘assolutisti’ come Bodin e Hobbes a intraprendere questa fondazione ‘normativa’ della sovranità.

Un altro approccio è quello ‘positivo’ che mette la sovranità in relazione alla sua capacità di offrire i servizi – i beni pubblici – da parte del governo. John Locke è il propugnatore di questa più realistica visione dato che la sovranità ‘esiste solo in quanto potere fiduciario per porre in essere determinati fini’. È questa capacità ‘di raggiungere risultati che definisce, e legittima, la sovranità’, e a questa concezione aderisce anche James Madison che, nel Federalist Paper 45, individua il valore di un governo nel conseguimento di beni pubblici. Non ci si lasci sviare da questi riferimenti a due pensatori liberali classici, perché la concezione che Draghi avanza non ha al centro la rappresentanza, sia pure dei ceti proprietari come invece sostennero Locke e Madison. Draghi fonda la legittimità della sovranità non nella rappresentanza ma nell’efficacia dell’azione di governo, anzi la sovranità stessa va concepita ‘in termini di risultati (outcomes)’.

Questa è una visione funzionalista della legittimità ‘democratica’, che si basa non sulla ‘voting democracy’, ma sulla ‘working democracy’ – categorie elaborate da David Mitrany prima di essere adottate dalla politologia contemporanea con i termini di ‘input democracy’ e ‘output democracy’ [10]. La sovranità di cui parla Draghi è la sovranità degli esperti e di un ceto di governo che pretendono di conoscere quali siano i beni pubblici, di come produrli e distribuirli: per giungere a decisioni democratiche non serve coinvolgere i cittadini che sono i diretti interessati, occorrono decisioni efficaci. L’efficacia della decisione e dell’azione pubbliche sono la fonte di legittimazione di questa forma moderna di oligarchia.

Curzio Giannini, uno studioso di talento prematuramente scomparso, scrisse: «Tra banca centrale e Stato liberal-democratico vi è al di là dei meri nominalismi, un vero e proprio rapporto simbiotico: stesse origini, stesso sviluppo e, con tutta probabilità, stesso futuro, quale esso sia. Senza istituzioni liberal-democratiche è forse immaginabile un capitalismo; non è immaginabile una banca centrale. […] nell’Europa degli anni Novanta del Novecento si è riusciti a trascendere i confini nazionali nella costituzione di una banca centrale solo inscrivendola in un progetto di portata ben più ampia, volto alla formazione di un assetto politico federale». Poi preso dal dubbio avanza l’ipotesi di una possibile dissociazione tra Stato liberal-democratico e istituzioni del governo della moneta [11]. Oggi, se ancora presente tra noi, avrebbe dovuto riconoscere che tra la Banca centrale europea e le istituzioni liberal-democratiche, caratterizzate dalla rappresentanza parlamentare e dalla divisione e limitazione dei poteri, si è creato un abisso tale che Draghi è costretto a invocare a sostegno della governance economica l’ideologia della ‘working democracy’ che, in nome dell’efficacia dei risultati, pretende di giustificare il potere di despoti illuminati. Despoti illuminati perché impongono scelte pubbliche in virtù del proprio sapere e saper fare, che li renderebbero capaci di interpretare e soddisfare le domande della società. Non le pratiche democratiche attraverso cui far emergere gli interessi dei cittadini, al centro del nuovo regime oligarchico sono gli interessi degli attori dei mercati.

Del mercato unico dell’UE l’attore protagonista è l’euro, per questo Draghi invia un messaggio, a conclusione del suo intervento, ai dirigenti USA che nei giorni più bui della crisi erano convinti del fallimento dell’euro: «Essi si sbagliavano […]. Essi avevano sottovalutato la profondità dell’impegno degli europei verso l’euro. Essi si sbagliavano scambiando l’euro per un regime di cambi fissi, mentre esso è in realtà una moneta unica irreversibile. Ed è irreversibile perché è nata dall’impegno delle nazioni europee a una più stretta integrazione». È insomma un progetto politico: lo tengano a mente i molti economisti di sinistra che avevano addirittura previsto il crollo dell’euro. Se si vuole lottare per andare oltre l’euro occorre elaborare un altro progetto politico, e soprattutto elaborarlo insieme con le forze sociali in grado di realizzarlo.

* Franco Russo è uno dei fondatori del movimento anticapitalista "Ross@". Il presente saggio uscirà su Alternative per il socialismo, n. 30

NOTE

1. Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2013, pag. 8;

2. Money and Monetary Institutions after the Crisis, discorso introduttivo alla Conferenza in memoria di Curzio Giannini, 10 dicembre 2013, pp.1-2;

3. Bologna 2013; al contrario sono focalizzati sulla governance macro-economica, e sulle vicende dell’euro (della sua creazione e della sua gestione), i due poderosi volumi di Kenneth Dyson e Lucia Quaglia, European Economic Governance & Policies, Oxford, 2010;

4. Ignazio Visco, Prefazione a Curzio Giannini, L’età delle banche centrali, Bologna, 2004, p. 10; Curzio Giannini ben descrive la commistione tra moneta e credito come base dell’evoluzione della banca centrale, v. op. cit., p. 34;

5. pubblicato il 13 novembre 2013;

6. www.camera.it, sezione Temi;

7. http://ec.europa.eu/economy_finance/economic_governance/sgp/budgetary_plans/index_en.htm;

8. v. sito citato alla nota 7, dove sono rinvenibili tutti i documenti relativi alla sessione di bilancio dei Paesi dell’Eurozona per il 2014;

9. http://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2013/html/index.en.html;

10. David Mitrany, A Working Peace System, Londra, 1943, pp. 6 e 9; Fritz W. Scharpf, Governare l’Europa, Bologna, 1999, pp. 8 e 13; tra il 1999 e il 2002 si svolse una discussione tra Willem Buiter esponente della Bank of England, e Otmar Issing, allora capo economista della BCE, sui criteri di legittimità del processo decisionale della banca centrale, conclusasi con una posizione ufficiale in cui la BCE sostenne di godere sia di una input legitimacy, derivata dai Trattati, sia di una output legitimacy derivata dall’attuazione dei suoi compiti istituzionali; questi documenti sono rinvenibili nel I volume di European Economic Governance & Policies, cit., pp. 728-30;

11. Curzio Giannini, op. cit., pp. 40-41.


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