Pier Carlo Padoan fu uno dei miei professori durante i corsi del master in Economia del Coripe Piemonte, presso il Collegio Carlo Alberto.
Sebbene fosse un master rigorosamente “mainstream”, ricordo che le
lezioni di alcuni docenti, come Luigi Montrucchio e Giancarlo Gandolfo,
suscitavano il nostro vivo interesse e alimentavano le discussioni. Tra i
docenti c’era pure Elsa Fornero, che nel ruolo di professoressa rendeva indubbiamente molto meglio che
in quello successivo di ministra. Rammento che invece non eravamo
particolarmente entusiasti delle lezioni di Padoan. Forse a causa degli
alti incarichi che all’epoca già ricopriva, in aula appariva un po’
distratto, vagamente annoiato, non particolarmente persuaso dai grafici
che egli stesso tracciava sulla lavagna. Di una cosa tuttavia il nostro
pareva convinto: la sostenibilità futura della nascente moneta unica
europea era da ritenersi un fatto ovvio, fuori discussione.
Era il 1999, data di nascita dell’euro, e Padoan guarda caso teneva
il corso di Economia dell’Unione europea. Una volta gli chiesi cosa
pensasse delle tesi di quegli economisti, tra cui Augusto Graziani,
che esprimevano dubbi sulla tenuta dell’eurozona; domandai, in
particolare, quale fosse la sua valutazione di quegli studi che già
all’epoca criticavano l’idea che gli squilibri tra i paesi membri
dell’Unione potessero essere risolti a colpi di austerità fiscale e
ribassi salariali. A quella domanda Padoan non rispose: si limitò a
scrollare le spalle e a sorridere, con un po’ di sufficienza.
All’epoca in effetti l’atteggiamento di Padoan era piuttosto diffuso.
L’euro veniva considerato un fatto definitivo, discutere di una sua
possibile implosione era pura eresia. Ben pochi, inoltre, si azzardavano
a dubitare delle virtù taumaturgiche dell’austerità. Da allora
evidentemente molte cose sono cambiate.
Sulla capacità delle politiche di austerity di rimettere in
equilibrio la zona euro, in accademia lo scetticismo sembra ormai
prevalente. Come segnalato anche dal “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times
nel settembre scorso, esponenti delle più diverse scuole di pensiero
concordano nel ritenere che le attuali politiche stiano in realtà
pregiudicando la sopravvivenza dell’Unione. Persino il Fondo Monetario
Internazionale critica la pretesa di riequilibrare l’eurozona puntando
tutto su pesanti dosi di austerity a carico dei paesi debitori. Insomma,
la dura realtà dei fatti costringe i più a rivedere i vecchi
pregiudizi. Ma Padoan, che oggi si accinge a lasciare l’OCSE e ad
assumere l’incarico di ministro dell’Economia, ha cambiato la sua
opinione?
Non direi. In un’intervista rilasciata poco tempo fa al Wall Street Journal,
il nostro ha affermato che la crescente sfiducia verso l’austerity è
solo “un problema di comunicazione” visto che a suo avviso “stiamo
ottenendo risultati”. E ha aggiunto: “Il risanamento fiscale è efficace,
il dolore è efficace”.
Ci sono due modi per interpretare questa affermazione. Il primo è che
Padoan stia cinicamente interpretando l’austerity come fattore di
disciplinamento sociale. Dal punto di vista dei rapporti di forza tra le
classi sociali ci sarebbe del vero in questa idea. Mettendola in questi
termini, tuttavia, Padoan sottovaluterebbe il fatto che l’austerity sta
anche contribuendo alla cancellazione di ogni residua istanza di
coesione tra i popoli europei. Il secondo modo di interpretare Padoan è
che egli ritenga tuttora che le attuali politiche aiuteranno il rilancio
dell’economia. In questo caso avanzerei il sospetto che Padoan sia
stato sedotto dai risultati di un suo ardimentoso studio recente,
secondo il quale i paesi che passano da una situazione di indebitamento
ad una di avanzo estero, e che immediatamente attivano politiche di
austerity in grado di abbattere il rapporto tra debito e Pil, hanno
maggiori probabilità di aumentare la crescita della produzione. Ora,
anche volendo trascurare gli enormi limiti di significatività di questo
studio, il problema è che esso entra in contraddizione con le evidenze
oggi disponibili: non ultimo il fatto che l’austerity non sta affatto
determinando una riduzione del rapporto tra debito e Pil [1].
In un caso o nell’altro, non deve meravigliare che Paul Krugman
abbia tratto spunto dalla improvvida dichiarazione di Padoan per
commentare che “certe volte gli economisti che occupano cariche
pubbliche danno cattivi consigli; altre volte danno pessimi consigli;
altre ancora lavorano all’OCSE”. E altre volte ancora, aggiungiamo noi,
diventano ministri dell’Economia di un governo che anziché fare uscire
il Paese dalla crisi rischia di affondarlo definitivamente.
Emiliano Brancaccio
[1] de Mello, L., P. C. Padoan and L. Rousová (2011), “The Growth Effects of Current Account Reversals: The Role of Macroeconomic Policies”, OECD Economics Department Working Papers, No. 871, OECD Publishing.
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