In un'estate affollata di interrogativi a ruota libera sui massimi sistemi del mondo, proverò a formulare una domanda più modesta ma forse necessariamente prioritaria: dato l'avvento del Partito democratico a guida veltroniana e la voglia alquanto diffusa in esso di guardare alla propria destra, non è forse tempo per le forze della sinistra di considerare l'opportunità di una "exit strategy" da Palazzo Chigi? Naturalmente gli esiti della "rottura" del '98 li ricordiamo tutti. Credo tuttavia ci sia ora un buon motivo per affrontare pacatamente ma a viso aperto la questione: il motivo è che il dna politico-economico dei cosiddetti democratici appare ormai definitivamente strutturato su una linea di indirizzo votata alla deflazione, alla più violenta ristrutturazione e soprattutto al malcelato auspicio di una crisi commerciale e finanziaria quale fattore di "disciplina dei lavoratori".
L'accusa è pesante e cercherò in quel che segue di sostenerla con opportune evidenze. E' già chiaro però che se essa dovesse rivelarsi fondata, non potremmo che arrivare alla seguente conclusione: la sinistra può "estinguersi" non solo chiamandosi fuori ma anche ostinandosi a restar dentro un'alleanza che semplicemente la dissangua.
Dunque io sostengo che i democratici puntano dritti alla crisi commerciale. Per afferrare questo passaggio occorre in primo luogo riprendere dimestichezza con il concetto. Questa è infatti un'epoca in cui un eminente editorialista come Valentino Parlato sembra a tal punto generalizzare l'ipotesi del "crollo economico" da arrivare erroneamente ad escluderla del tutto. Ed è un'epoca in cui economisti stanchi e distratti si spingono a dichiarare che, se ci si trova nell'area euro, in fondo della bilancia commerciale ci si può disinteressare. Queste sono posizioni sbagliate e pericolose, soprattutto per noi italiani. Dovrebbe esser noto, infatti, che il nostro paese, assieme a tutti quelli del Sud Europa, rappresenta l'anello debole della catena dell'euro. I dati segnalano in proposito che la politica di deflazione dei costi per unità di prodotto e del deficit pubblico perseguita in questi anni non è stata affatto in grado di compensare la scarsa dinamica della produttività nazionale e di arrestare quindi la lunga fase di deterioramento della bilancia commerciale italiana.
Nell'ambito di una ricerca effettuata per l'Università del Sannio, abbiamo stimato che in assenza di cambiamenti strutturali il disavanzo delle partite correnti nazionali potrebbe approssimarsi al 5% del Pil intorno al 2010. Si tratta di una linea di tendenza rischiosa, che potrebbe realmente metterci fuori dalla zona euro, e che la mera riduzione del cuneo fiscale non sembra per nulla in grado di invertire.
Come pensano "i democratici" di gestire una dinamica così pericolosa? Ebbene, mi pare chiaro che essi non intendono assolutamente abbandonare l'attuale, radicato indirizzo di politica deflazionista. L'orientamento resta cioè quello di Ciampi e dei suoi boys, e potrà al limite soltanto rafforzarsi con l'esplicito riconoscimento che le ristrutturazioni conseguenti alla deflazione faranno tabula rasa di gran parte della struttura produttiva italiana, e che i superstiti diverranno ancor più di oggi mere appendici del grande capitale europeo. Mario Draghi non fa mistero di considerare questa come una prospettiva addirittura auspicabile per il nostro paese. Ma c'è chi va persino oltre. La stessa ipotesi di crisi di bilancia dei pagamenti potrebbe infatti rivelarsi funzionale alla piena, definitiva attuazione della politica deflattiva. In fondo, per rimettere i conti esteri in ordine "basterebbe" un crollo secco dei salari per unità di prodotto nell'ordine del 15%. E non sono in pochi ad augurarsi che una débacle sindacale di tali proporzioni possa essere ottenuta proprio a seguito di una crisi di fiducia sulla capacità dell'Italia di mantenere l'equilibrio commerciale, con conseguente vendita in massa di titoli nazionali sul mercato europeo (Mario Monti è tra coloro che si esprimono in termini più netti, in proposito). Ricordiamo del resto cosa accadde nel '92. Ai sindacati venne imputata la responsabilità dell'attacco valutario alla lira e la conseguenza fu il secondo più grande arretramento del movimento dei lavoratori dal dopoguerra, dopo il tracollo del 1980. Ebbene, a distanza di un quindicennio pare che la Storia stia facendo di tutto per ripetersi.
Dunque, è inutile nasconderlo: la deflazione e la crisi quale fattore disciplinante risultano ormai impresse nel dna dei democratici. E' su di esse che i nostri attuali alleati cercheranno di costruire la loro strategia di politica economica. Certo, Veltroni "cares", ma è evidente che una svolta a colpi di slogan buonisti nell'indirizzo economico del partito che egli si appresta a dirigere è una ipotesi ridicola, fuori dal mondo. Spetterebbe dunque alla sinistra organizzarsi per tentare di imporre una svolta, per fissare cioè una precisa linea di demarcazione al di là della quale ci si dovrebbe subito chiamar fuori da qualsiasi ipotesi di governo, lasciando agli altri - destri, democratici o miscelati che siano - la responsabilità di proseguire lungo il nefasto sentiero della deflazione. Questa linea andrebbe tracciata intorno alla seguente evidenza tecnica: soltanto una crisi economico-politica può condurci ad un tasso di deflazione dei costi unitari e del deficit pubblico talmente accelerato da compensare la nostra bassa produttività e da bloccare quindi l'espansione del nostro deficit commerciale. Il che, detto in parole povere, si traduce così: i cosiddetti democratici puntano nuovamente alla gestione di una crisi per auto-legittimarsi, disciplinare i sindacati e dare il colpo di grazia definitivo al movimento dei lavoratori.
Abbiamo dunque tutte le evidenze che ci servono per assegnare ai democratici un pesantissimo capo d'accusa. Solo in questo modo, a mio avviso, potrebbero crearsi i presupposti per una reale battaglia egemonica su una diversa modalità di gestione del debito pubblico, sull'esigenza di un pavimento alla deflazione dei salari unitari, e su un intervento statale negli assetti proprietari teso a recuperare un capitale nazionale polverizzato e in via di estinzione. Solo in questo modo potremmo cioè spingere la barra del dibattito politico su una nostra linea di demarcazione. Ma possiamo mai parlare di "linea di demarcazione" della sinistra fino a quando non facciamo chiarezza al nostro interno? Fino a quando, in qualità di sottosegretario all'Economia, Paolo Cento continuerà a porsi in difesa della politica deflazionista del ministro Padoa Schioppa, e l'amico Galapagos - dal quale a lungo ho molto appreso - seguiterà ad assecondare dalle colonne de il manifesto la realtà ribaltata dei bocconiani, fondata sul "cattivo stato di salute" dei conti pubblici nazionali? Confesso di nutrire qualche dubbio.
Fonte
Se non ci avete fatto caso, ve lo faccio notare io: questo pezzo è datato 12/07/2007. Traetene le debite conclusioni.
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