Euro, disegnato per la
Germania: in cinque anni l’occupazione tedesca cresciuta di 1,5 mln, nei
paesi periferici calata di 6 milioni. Il disastro non si può evitare
col buonismo comunitario. Sì a un “piano B” di uscita dall’euro ma
attenzione ai gattopardi del liberismo
L’Italia ha bisogno di un “piano B” per
uscire dall’euro, ma bisogna intendersi su come intraprendere questo
percorso. Parola di Emiliano Brancaccio, docente all’Università del
Sannio, uno di quegli economisti ai quali non si può addebitare la colpa
di non aver previsto la crisi, viste le sue ricerche del decennio
scorso che avanzavano dubbi sulla tenuta dell’eurozona. Nel settembre
2013 Brancaccio ha promosso un “monito” pubblicato sul Financial Times e sottoscritto da alcuni tra i principali esponenti della comunità accademica mondiale (www.theeconomistswarning.com),
dove si legge che le politiche di austerity portano dritto all’uscita
dall’euro. Gli abbiamo chiesto un parere sul manifesto del prof. Paolo
Savona, che propone un “piano B” di uscita dall’eurozona, sia pure come
ipotesi estrema.
Professor Brancaccio, quali sono i motivi di questa avversità crescente verso la moneta unica?
“Negli auspici dei padri fondatori,
l’Unione monetaria europea avrebbe dovuto creare più collegialità nelle
decisioni di politica economica, in modo da arginare il potere
soverchiante della Germania unificata. Oggi sappiamo che quelle speranze
erano vane. Allo scoppio della crisi mondiale l’eurozona si è rivelata
un vestito disegnato su misura per la sola economia più forte, quella
tedesca. Dal 2008 al 2013 la Germania ha visto crescere l’occupazione di
un milione e mezzo di unità, mentre Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e
Irlanda hanno perso oltre sei milioni di posti di lavoro. In uno
scenario simile l’insofferenza politica verso le istituzioni europee è
scontata, ed è pure destinata ad aumentare”.
Quali sono i principali “mali” dell’euro?
“Penso che il problema stia nell’assetto
complessivo dell’Unione, nel suo orientamento liberista e
liberoscambista e nella sua vocazione all’austerity, non semplicemente
nella moneta unica. Tuttavia è vero che uno squilibrio monetario interno
esiste. Uno dei motivi è che in questi anni la Germania ha attuato una
ferrea politica di competizione salariale. Dal 1999 ad oggi in Germania i
salari monetari sono aumentati di appena il ventidue percento, contro
un aumento medio del trentanove percento nell’eurozona. La conseguenza è
che la Germania costringe gli altri paesi membri a partecipare a una
feroce gara al ribasso relativo dei salari e dei prezzi. Questa gara
avvantaggia ulteriormente l’economia tedesca e i suoi satelliti, ma fa
sprofondare il resto dell’Unione in una depressione generalizzata dei
redditi e dell’occupazione”.
In questo quadro, lei ritiene percorribile la strada di uscita dall’euro?
“Guardi, abbiamo provato in tanti a
invocare una riforma dell’Unione ma finora non si è fatto praticamente
nulla. La stessa strategia di salvataggio messa in atto da Draghi è
contraddittoria: la Bce eroga liquidità ai Paesi più deboli ma in cambio
chiede austerity, riduzioni salariali, e annuncia pure la chiusura di
molte banche situate soprattutto in quei Paesi. Questo non farà altro
che accentuare i divari rispetto alla Germania. Una svolta reale negli
indirizzi di politica economica europea non si intravede, ed è insensato
pensare che si possa fronteggiare questo disastro con altre manciate di
vuota retorica europeista. Con divergenze così accentuate l’eurozona
prima o poi esploderà, volenti o nolenti”.
Cosa pensa delle tesi del
professor Savona su un “piano B” di uscita dall’euro, che MF e
ItaliaOggi hanno rilanciato sotto forma di “manifesto”, e che però, in
prima istanza, punta su un massiccio piano di privatizzazioni realizzate
e non più solo declamate?
“Che una possibilità di uscita debba
ormai essere contemplata è questione che attiene al più elementare
alfabeto delle relazioni internazionali. Coloro i quali si ostinano ad
affermare che ai tavoli delle trattative europee ci si debba sedere
legandosi le mani ed escludendo a priori un piano di uscita, vorrebbero
presentarsi al grande pubblico come persone di buon senso. In realtà la
loro posizione è ormai scarsamente realistica, e a questo punto mi
sembra anche poco responsabile: proprio la sensazione che ci si trovi in
un vicolo cieco alimenta il nazionalismo più retrivo e xenofobo. Detto
questo, credo di pensarla diversamente dal Prof. Savona…”.
Cosa non condivide?
“Per esempio, non credo che altre
privatizzazioni siano la soluzione. Questo è un paese con scarsa
memoria, ma dovremmo ricordare tutti che la crisi del 1992 venne
affrontata proprio con un massiccio piano di privatizzazioni e
dismissioni all’estero, le cui dimensioni costituirono un record a
livello mondiale. Oggi sappiamo che quella operazione fece molti danni:
diede luogo a una riduzione del debito pubblico solo temporanea, portò
ad aumenti dei prezzi in molti settori come denunciato dalla stessa
Corte dei Conti, e determinò un indebolimento del sistema produttivo
nazionale, che paghiamo ancora oggi. Né credo che la soluzione alla
crisi risieda nei tagli alla spesa pubblica totale che Savona pure
invoca. Nell’apparato statale ci sono ancora diverse sacche di spreco ma
sono ancora di più i settori chiave in cui si registra una tremenda
carenza di risorse, che pregiudica gli stessi obiettivi di
modernizzazione della macchina statale. Del resto, nel suo complesso la
spesa pubblica italiana rispetto al Pil è appena di un punto al di sopra
della media europea, e al netto degli interessi si situa persino al di
sotto della media”.
Il professor Savona, a dire il
vero, punta sulla privatizzazione degli asset pubblici non utilizzati, o
non adeguatamente utilizzati, per poter abbattere lo stock del debito
che ha raggiunto livelli tali da non consentire nessuna credibile
manovra di risanamento economico. Ma andiamo avanti. Nel “monito degli
economisti” che lei ha promosso si parla di modi alternativi di uscita
dall’euro. Lei stesso ha più volte sostenuto la necessità di una uscita
“da sinistra”, opposta a una cosiddetta uscita “da destra”. Ci spieghi
questa distinzione.
“Proviamo per un attimo a mettere da
parte queste etichette e stiamo al merito. La crisi è stata innescata,
tra le altre cose, da quelle politiche liberiste e liberoscambiste che
negli anni passati hanno determinato una progressiva deregolamentazione
dei mercati finanziari e dei sistemi bancari. Purtroppo, fino ad oggi
non ci sono stati effettivi ripensamenti, non si è posto alcun rimedio
agli effetti deleteri di queste politiche. Il mio timore, dunque, è che
si stia facendo largo una strategia di gestione della crisi europea che
personalmente ho definito “gattopardesca”, e che consiste nell’obiettivo
di cambiare tutto, magari anche la moneta unica, pur di non cambiare
praticamente nulla, cioè pur di non mettere in discussione le politiche
degli anni passati. In questa strategia gattopardesca rientra pure
l’idea secondo cui per uscire dalla crisi basterebbe abbandonare l’euro e
affidarsi alle libere fluttuazioni delle monete sul mercato dei cambi.
Questo modo di affrontare la crisi è sbagliato, perché si affida ancora
una volta al mantra del mercato, avvantaggia la speculazione
finanziaria, rischia di favorire una svendita degli istituti bancari
nazionali e può deprimere ulteriormente il potere d’acquisto dei salari.
Ecco perché molti economisti suggeriscono una modalità alternativa di
gestione della crisi dell’eurozona, che dovrebbe tra l’altro consistere
nel ripristino dei controlli alle acquisizioni estere e ai movimenti
internazionali di capitale: ossia, nella messa in discussione non solo
della moneta unica ma anche del mercato unico, e dell’assetto
complessivo dell’Unione europea. Insomma, l’euro è senza dubbio parte
del problema, ma le scorciatoie non esistono: se non sottoponiamo a una
critica più generale le politiche liberiste degli anni passati, dalla
crisi non usciremo”.
Intervista di Giovanni Bucchi
Intervista pubblicata su ItaliaOggi del 12 febbraio 2014. La riproduzione è consentita citando la fonte.
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