La rapidissima carriera di Matteo Renzi, quello che con molto anticipo avevamo definito come il Manchurian candidate fiorentino,
sta suscitando come prevedibile curiosità e dietrologie. Entrambe
possono essere sia il sale del sapere che esercizi fuorvianti. Il
materiale che gira in rete contiene elementi di verità ma anche
conclusioni molto parziali. Renzi “uomo degli amerikani”, Renzi
burattino della Merkel, Renzi longa manus dei poteri forti.
Alcuni dati confermano che questo è
l'uomo, ma sui suoi sponsor, ispiratori, manovratori c'è da scavare
ancora un bel po', soprattutto a fronte della prova di sé che il nuovo
premier darà e che gli sarà consentito di dare. Al momento, come
scriviamo su Contropiano, i poteri forti "nazionali" lo tengono a guinzaglio corto.
Il modello di ascesa al potere di Renzi
presenta tutte le caratteristiche del tycoon politico di stampo
anglosassone. Uomini che improvvisamente “esplodono” sulla scena
mediatica e politica, che godono di cospicui finanziamenti e che
rapidamente accedono alle stanze dei bottoni. Qualcuno ricorderà il caso
di Newton Gringrich, il repubblicano statunitense che fu l'incubo di
Clinton nel Congresso per alcuni anni ma poi non riuscì a farsi nominare
candidato presidenziale.
Il linguaggio “popolare” e banale di Renzi e
il suo “pragmatismo deideologizzato” ricorda però molto di più i
politici britannici. Più Blair e Cameron che i sofisticati statisti
europei.
Le notizie raccolte fin qui fanno
ritenere Renzi un clone del modello e degli interessi statunitensi, ma è
anche vero che Renzi le sue relazioni durature le ha costruite con
anticipo anche con Frau Merkel e la Germania, perché è dall'Unione
Europea che vengono i margini e i paletti della sua azione politica e
della sua carriera. Un uomo cerniera, dunque, tra interessi strategici
delle due sponde dell'Atlantico che la competizione globale sta rendendo
divaricanti. E dentro tale divaricazione i margini di manovra stanno
diventando stretti. Se ne è accorto Enrico Letta, che in un tornante
centrale come lo schieramento sull'intervento militare della Siria, al
vertice del G20 a Mosca nel settembre 2013 collocò l'Italia tra i
firmatari del documento prodotto dagli Stati Uniti affermando però di
sostenere la posizione non belligerante della Germania e della Russia.
Al termine del vertice e nelle conferenze
stampa finali, da Barack Obama e Vladimir Putin furono stilate due
liste che elencavano i Paesi pro e contro la guerra in Siria. L'Italia, a sorpresa, figurava... in entrambi gli elenchi. Un cerchiobottismo non più adeguato ai tempi di ferro e fuoco che la crisi sta delineando.
Matteo Renzi rischia dunque molto nella
partita che ha deciso di giocare. Gli uomini che lo hanno consigliato
finora appartengono ad ambiti molto connessi con il capitale finanziario
e gli interessi statunitensi. Tra essi risultano figure inquietanti
come Michael Ledeen (espulso come persona non gradita all'Italia negli
anni '80) sul fronte neoconservatore ma anche personaggi legati alle
cordate “democratiche e laburiste” negli Usa e in Gran Bretagna. Nella concezione “politica” di Renzi, le frequentazioni, le contaminazioni e le condivisioni bipartizan sono naturali.
Scrive il Sole 24 Ore del 15 gennaio 2014: “Matteo
Renzi e il suo collaboratore Marco Carrai amano molto l'America. E
nella vasta rete di contatti che vi hanno costruito spiccano due figure
quasi opposte: Matt Browne e Michael Ledeen. Browne ha 41 anni, è stato
uno dei più stretti collaboratori di Tony Blair in Gran Bretagna e ora
fa parte del più vivace think tank neo-progressista americano assieme a
John Podesta, l'ex braccio destro di Bill Clinton recentemente
ingaggiato da Barack Obama come consigliere. Attraverso il filtro di
Carrai, Browne ha introdotto Renzi a Blair, al fratello dell'attuale
leader del partito Labour britannico David Miliband e a molti
democratici americani. Michael Ledeen invece ha 73 anni e ha lavorato
nelle Amministrazioni di Ronald Reagan e di George W. Bush
distinguendosi in entrambi i casi per le sue iniziative da freelance
dell'intelligence”.
Il tramite di Matteo Renzi nelle relazioni bipartizan
con gli ambienti statunitensi, è il suo sodale da sempre Marco Carrai.
Luigi Bisignani, l'uomo che sussurra ai potenti così lo descrive: “Marco
Carrai è l’uomo di fiducia del sindaco di Firenze”.
L’Espresso del 4 novembre 2013 ricostruisce la figura di
Marco Carrai: “Da qualche anno colleziona partecipazioni azionarie e
presidenze di municipalizzate, società e consigli di amministrazione: da
quando nel 2009 l’amico Matteo è diventato sindaco non si è più
fermato. Nel Ppi e poi nella Margherita Renzi è il segretario, Carrai è
il braccio organizzativo. Insieme definiscono le liste, le candidature, i
convegni: uno congiunto tra i giovani della Margherita e quelli di
Forza Italia, nell’abbazia di Vallombrosa, per parlare di «tradizione
cristiana nell’impegno politico in Italia e in Europa», Carrai
introduce, Renzi conclude. Quando Matteo, nel 2004, viene eletto
presidente della Provincia di Firenze, Marco è il suo capo segreteria.
Nel frattempo è entrato a Palazzo Vecchio come consigliere comunale
della Margherita, eletto con le preferenze assicurate da Comunione e
liberazione e dalla Compagnia delle Opere che in Toscana è presieduta da
Paolo Carrai e da Leonardo Carrai, alla guida del Banco alimentare,
altra opera ciellina: i cugini di Marco”.
La ricostruzione de
L'Espresso (che pure ha tra gli azionisti di riferimento De Benedetti)
sul consigliere di Renzi, Marco Carrai così continua: “Nel capoluogo
della Toscana rossa si costruisce un profilo cattolico e teo-con che
promette bene. Ma nel giugno 2009, quando l’amico Renzi schianta
l’apparato Ds alle primarie di Firenze e poi viene eletto sindaco,
Carrai si ritira dalle polemiche, dalla politica, dai riflettori. E
comincia, a soli 34 anni, la sua second life di uomo d’affari. Pubblico e
privato. Consigliere del sindaco (a titolo gratuito), poi
amministratore delegato di Firenze Parcheggi, partecipata del Comune, in
quota Monte Paschi di Siena, membro dell’Ente Cassa di Risparmio di
Firenze che è azionista di Banca Intesa, regista della nomina alla
presidenza di Jacopo Mazzei. Siede nel cda del Gabinetto Vieusseux, tra
le più importanti istituzioni culturali cittadine, infine è presidente
di Aeroporti Firenze, come racconta Duccio Tronci in “Chi comanda
Firenze” (Castelvecchi). Intanto coltiva i suoi interessi: il fratello
Stefano Carrai è in società con l’ex presidente della Fiat Paolo Fresco
nella società Chiantishire che tenta di mettere su un gigantesco piano
di appartamenti, resort, beauty farm nella valle di Cintoia, a Greve,
bloccato dal Comune.
Fresco è tra i finanziatori della campagna per
le primarie del 2012 di Renzi, con 25 mila euro, insieme al finanziere
di Algebris Davide Serra, acclamato anche quest’anno alla stazione
Leopolda. A raccogliere i fondi a nome della fondazione Big Bang c’è
sempre Carrai. Amico degli amici del sindaco: nel cda della scuola
Holden di Alessandro Baricco, immancabile oratore alla Leopolda, e
vicino a Oscar Farinetti di Eataly, di cui sta curando lo sbarco a
Firenze. L’uomo del governo israeliano, per alcuni («Ho da fare a Tel
Aviv», ripete spesso), di certo vicino agli americani di ogni colore.
Frequenta con assiduità Michael Ledeen, l’animatore dei circoli
ultra-conservatori del partito repubblicano, antica presenza nei misteri
italiani, dal caso Moro alla P2. È in ottimi rapporti con il nuovo
ambasciatore Usa in Italia John Phillips, amante del Belpaese e della
Toscana, proprietario di Borgo Finocchietto sulle colline senesi.
C’è
anche Carrai quando Renzi banchetta con Tony Blair o quando va ad
accreditarsi con lo staff di Obama alla convention democratica di
Charlotte del 2012. E quando tre mesi fa il sindaco vola a sorpresa a
Berlino per incontrare la cancelliera Angela Merkel, accanto a lui,
ancora una volta, c’è il ragazzo di Greve, Carrai. Che nel silenzio
accumula influenza e mette fuorigioco altri fedelissimi renziani. C’è
chi ha visto la sua manina dietro la nomina di Antonella Mansi alla
presidenza di Mps, osteggiata da altri seguaci del sindaco. Ma non c’è
niente da fare: Carrai, per Renzi, è l’unico insostituibile. Per questo
bisogna seguirlo, il Carrai, nella strada che porta alla conquista di
Roma, nella posizione da cui da sempre si governa e si comanda davvero.
All’ombra della luce”.
Tutto lascia intravedere un linkage molto particolare tra Matteo Renzi e i circoli statunitensi e israeliani (una vera pacchia per i “complottisti”). Ma c'è anche dell'altro che va preso in considerazione. Il 22 febbraio, alla vigilia del voto di fiducia al Senato sul suo governo, il neo-premier Matteo Renzi ha avuto una conversazione telefonica con la Cancelliera tedesca Angela Merkel. Non è un mistero visto che lo segnala una nota di palazzo Chigi. Al centro del colloquio c'erano le relazioni tra Italia e Germania, alla vigilia del vertice di Berlino del prossimo 17 marzo, e il comune impegno nel processo europeo. Un atto dovuto? Non solo. Ci sono dei precedenti.
Era luglio dello scorso anno quando la cancelliera tedesca Angela Merkel dichiarava: “Ho invitato il sindaco di Firenze Matteo Renzi perchè ho letto un'intervista su un giornale tedesco sui temi europei e le sfide italiane e «l'ho trovata molto interessante». aveva detto la Merkel durante una conferenza stampa a Berlino. “Ho un rapporto molto buono e molto intenso con il premier Enrico Letta, che ho avvertito dell'incontro con Renzi. Ma ho pensato che se conosco qualcun'altro non è male”. La Merkel qualche giorno prima aveva “invitato” il giovane Renzi a Berlino per parlarci vis-a-vis.
Come ha scritto lucidamente Nique la Police su Senza Soste “I tempi, e gli esiti, degli incontri diplomatici vanno capiti come si fa per gli avvertimenti mafiosi. Anche in questo campo, come per il linguaggio di Cosa Nostra, chi conosce il contesto, i linguaggi e i codici deve saper far decantare il clamore degli avvenimenti per interpretare il significato di quanto accaduto.” E ancora: “I tempi in cui, per imporre una riforma liberista delle pensioni (che impoverisce la popolazione e tutela i capitali), ci volevano i carri armati di Pinochet sono finiti. Oggi sono sufficienti gli "impegni con l'Europa" assieme a qualche ascaro a casa che ci dice, a reti unificate, come "crescere" eliminando "gli sprechi". La Germania guarda “con grande attenzione” alla situazione politica in Italia e spera in “una soluzione rapida”, aveva detto il 14 febbraio Steffen Seibert, portavoce della cancelliera tedesca Angela Merkel, commentando le ultime vicende, con le dimissioni di Enrico Letta e l’arrivo al governo di Matteo Renzi.
Ad aprile del 2013 l'incontro tra il neo-premier Enrico Letta non era stato tutto rose e fiori. Stando a quanto riferisce l'Unità del 30 aprile: “per Angela Merkel la dichiarazione di Letta "non vogliamo modificare il 'fiscal compact" è stata una musica dolce, ma la distanza tra i due personaggi, cioè tra la visione tedesca delle cose e la visione italiana (quella di Letta in relazione all'Europa è apparsa la stessa di Mario Monti), è comunque emersa”.
Il governo di Matteo Renzi e il suo entourage dovrà dunque fare fronte e rendere conto, sul piano internazionale, a queste “sollecitazioni”. L'ambiguità e l'equilibrismo di Letta gli sono costati la testa, e la leva della ghigliottina l'ha tirata proprio Renzi, ma il mandante è sembrato essere più Angela Merkel che l'establishment statunitense.
Fonte
Interessantissima lettura che chiude il cerchio ridimensionando in buona parte quanto avevo riportato qui.
I grassetti sono del sottoscritto.
Nessun commento:
Posta un commento