Il colpo di Stato in Libia è stato allontanato al termine di una
giornata di fibrillazione. Il compromesso è stato raggiunto in serata
tra le istituzioni e i miliziani che ieri avevano lanciato un
ultimatum al Parlamento, chiedendo ai deputati di lasciare il potere
entro cinque ore, pena l’arresto. Secondo quanto riferito dal premier libico Ali Zeidan, “la saggezza ha prevalso”, ma l’agenzia Reuters riferisce invece di un rinvio dell’ultimatum: altre 72 ore accordate dalle brigate Al Qaaqaa e Al Sawaeq dopo la mediazione dell’inviato dell’Onu nel Paese, Tarek Mitri.
Domani la Libia si appresta a votare per eleggere la sua Assemblea
costituente, 120 membri per dare al Paese una nuova Carta fondamentale,
ma la stabilità non è stata raggiunta a tre anni
dalla fine del regime di Gheddafi, cacciato dal potere con il sostegno
bellico della Nato. Ne è seguito uno scontro continuo tra il
governo di Tripoli e le tante milizie che hanno partecipato alla
battaglia contro Gheddafi e che non hanno deposto le armi,
continuando a seminare instabilità nel Paese con le loro azioni.
Dal canto suo, il governo non è stato capace di disarmare questi gruppi e
in alcuni casi se n’è avvalso per garantire la sicurezza nella capitale
e in altre città.
La minaccia, dunque, pende ancora sulla testa dei parlamentari.
Tripoli è invasa da veicoli armati delle milizie, parcheggiati nei
pressi del Parlamento (il General National Congress-GNC) e in
un’esibizione di forza, ieri i miliziani sono sfilati in macchina,
armati fino ai denti, lungo la strada che porta all’aeroporto. Othman Mlekta, comandante delle brigate Al Qaaqaa, ha detto alla Reuters
che non vogliono appropriarsi del potere, ma che agiscono in nome del
popolo: “Agiremo subito e consegneremo il potere nelle mani della Corte
suprema e formeremo commissioni per supervisionare le elezioni (per
l’Assemblea costituente, n.d.r.). Lavoreremo con il popolo”. Il governo,
che invece li ha accusati di volere perpetrare un golpe, ha assicurato
che risponderà con la forza, se necessario.
Quest’ultima azione dei miliziani si inserisce nel solco delle
continue minacce che Tripoli deve affrontare da parte di questi ex
ribelli. Infatti, il Parlamento era già stato occupato una volta da un
gruppo armato. Ieri, un’altra azione armata a Bengasi ha
costretto alla chiusura dell’aeroporto per sei ore: uomini chiedevano il
pagamento degli stipendi. E altri gruppi sono responsabili di avere occupato i maggiori porti petroliferi della regione orientale. Le
estrazioni sono la linfa vitale dell’economia libica, messa in
ginocchio dalle proteste e dalle occupazioni degli impianti estrattivi e
degli oleodotti da parte delle milizie tribali per fare pressione
sull’esecutivo. Dallo scorso luglio la produzione è calata da 1,4
milioni di barili al giorno a 375mila, cifre che fanno rischiare al
Paese la bancarotta.
La Libia è nel caos e in tanti ritengono che lo scontro continuo tra
governo e miliziani stia minando e rallentando il processo di
transizione verso un regime democratico. Secondo i miliziani “il
Parlamento vorrebbe tornare alla dittatura”. Le tensioni si sono
acuite in seguito alla decisione dei deputati libici di prolungare il
proprio mandato, terminato lo scorso 7 febbraio, per consentire
la stesura della nuova Costituzione, ma la scelta ha scatenato subito
proteste e lunedì sono state annunciate le elezioni politiche, senza
però che fosse precisata una data. Lo stesso Parlamento è attraversato
da divisioni tra L’Alleanza delle forze nazionali e la formazione
islamica (Islamists of the Justice and Construction Party) vicina al
movimento dei Fratelli musulmani.
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