22 febbraio 2014: in varie città italiane si sfila contro i provvedimenti repressivi che la magistratura sta adottando in questi ultimi tempi per stroncare le lotte sociali. Dalla ValSusa fino ai provvedimenti cautelari di Roma e Napoli e realtà più piccole come Giugliano in Campania.
La “questione repressione” in Italia sta assumendo caratteri di urgenza sempre più evidenti. Il clima generale della gestione dell’ordine pubblico in piazza sembra essere mutato, ma prima ancora della gestione della “piazza”, sembra mutata sensibilmente la reazione degli organi repressivi dello Stato nei momenti successivi al conflitto di piazza.
Ad oggi, le forze repressive del conflitto sociale di prima istanza (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza) sembrano osservare ancora un “basso profilo”, quando non esplicitamente comandate per stroncare cortei, manifestazioni di ribellione e contestazione. Negli uffici delle istituzioni di polizia, in quelli delle Procure e dei Tribunali, tuttavia, sembra si viva una forte accelerazione sul lavoro di organizzazione della reazione statuale al conflitto sociale. Dove non agisce immediatamente il manganello, si opera in maniera dissuasiva con provvedimenti giudiziari ad hoc: denunce di massa (v. gli LSU di Napoli denunciati a decine e decine per le occupazioni degli istituti scolastici), ordinanze cautelari restrittive che vanno dalla custodia cautelare in carcere agli arresti domiciliari fino agli obblighi di firma, sfruttando a pieno l’armamentario che il codice di procedura penale mette a disposizione della magistratura. Con una azione più sottile, meno eclatante, meno diretta e mediatizzabile dello scontro, delle cariche, delle manganellate, dei lacrimogeni, dello spray urticante, del sangue inevitabile, si ottiene un effetto dissuasivo altrettanto esteso ed efficace.
Bloccare immediatamente gli attivisti, i militanti politici più direttamente esposti, per educare gli altri, coloro che “non ancora” sono stati colpiti da un provvedimento giudiziario (ma potrebbe essere solo questione di settimane, giorni, ore). Inoltre, ricorrendo alla magistratura piuttosto che allo scontro in piazza, si sfrutta quel “plusvalore” simbolico garantito dall’istituzione della magistratura, assurta negli ultimi anni a vero e proprio faro di riferimento morale, se non etico, ad istituzione di “orientamento” per una intera generazione che ha visto crollare i partiti politici, le ideologie, vede i sindacati ridotti ad articolazioni del potere padronale.
A dover destare preoccupazione non sono soltanto i provvedimenti cautelari, ma anche il lavoro svolto in relazione alle contestazioni dei reati mosse nei confronti degli indagati: in questo il processo del G8 di Genova ha fatto scuola, laddove è stato contestato ad esempio il reato di “devastazione e saccheggio”[1] in luogo di quello infinitamente più blando in termini sanzionatori di “danneggiamento”[2] e ciò nonostante lo scarsissimo se non quasi nullo ricorso storico a tale fattispecie di reato (nemmeno negli anni della sollevazione di massa si fece mai ricorso a tale imputazione).
Contro l’insorgenza della Val Susa si è arrivati perfino a contestare il reato di terrorismo per aver fatto saltare in aria un compressore, e a Roma e Napoli si procede per numerose fattispecie di reato anche gravi: dalla rapina alla associazione per delinquere.
È forse giunto il momento per avviare una seria riflessione sulla questione della repressione, che vada di pari passo con una riflessione pubblica sulla natura ed il ruolo attuali delle forze dell’ordine (delle loro pratiche ordinarie e dei loro abusi). La politica non ha più la forza né le leve economiche per mediare il conflitto. La spesa pubblica è stata nel corso degli ultimi decenni tutta riorientata a favore delle classi dominanti (dalla fiscalità al finanziamento delle grandi opere, gli indici di tale ridistribuzione verso l’alto sono numerosi). Se non ci sono più spazi per mediare (i proclami del nuovo leader della borghesia transnazionale in Italia sembrano molto chiari), in un contesto sociale che non sembra azzardato definire una “polveriera”, è normale – dal punto di vista del capitale e delle articolazioni del suo potere – ricorrere agli strumenti della dissuasione mediatica e della repressione classica.
È in questa nuova stagione che si inseriscono le manifestazioni di ieri, come quella napoletana che ha visto una buona partecipazione di attivisti e militanti in difesa della libertà di manifestare e di lottare per i propri diritti, i propri interessi, rivendicando i propri bisogni.
Numerosi disoccupati napoletani sono stati colpiti da provvedimenti restrittivi nei giorni scorsi perché accusati di aver organizzato una “associazione per delinquere” finalizzata a commettere più delitti con lo scopo di condizionare le scelte amministrative e di governo regionale in materia occupazionale. Una imputazione che entra nel vivo del conflitto sociale ed incide pesantemente sull’agibilità politica dei movimenti dei disoccupati, che mira a bloccarne le pratiche di conflitto e rivendicazione assolutamente legittime, tutte interne alla dinamica della difesa dei propri interessi di classe contrapposti a quelli padronali.
Anche nella provincia napoletana, nelle ultime settimane, abbiamo assistito ad un protagonismo inedito degli uffici di Procura che, con una rapidità ineguagliabile, hanno svolto indagini fulminee e chiesto l’emissione di provvedimenti restrittivi nei confronti di alcuni manifestanti che il 16 gennaio scorso protestavano sotto la locale casa comunale contro la Tares più alta d’Italia, in un comune che è tra quelli maggiormente devastati dal biocidio campano. A Giugliano in Campania – dove le forze dell’ordine in quel frangente hanno anche sperimentato per la prima volta lo spray urticante e fatto ricorso all’uso dei lacrimogeni sparati anche ad alzo zero – la protesta popolare è stata fronteggiata con il ricorso alla magistratura: vari i reati contestati che vanno dalla resistenza a pubblico ufficiale all’oltraggio e all’interruzione di pubblico servizio, dalle lesioni personali al danneggiamento fino al tentativo di invasione di uffici pubblici.
Nei momenti di conflitto sociale oramai si nota una certa uniformità della reazione dello Stato: se fino a qualche mese fa si poteva notare ancora una certa propensione ai “toni bassi”, ora la musica sembra cambiata. Il Governo Renzi si appresta a varare provvedimenti fortemente antipopolari: per questo il potere costituito comincia a manifestare le prime avvisaglie di intolleranza palese verso qualsiasi forma di conflitto sociale.
Oggi, domani cominceremo a percepire direttamente sulla nostra pelle quanti guasti ha prodotto il clima di giustizialismo e legalitarismo che negli ultimi anni anche a sinistra ha assunto il ruolo di vero e proprio totem, feticcio sostitutivo delle vecchie ideologie. La sinistra che pensava di risolvere i problemi di giustizia (morale, non più sociale) nei tribunali, si ritrova ora con un fortissimo apparato repressivo legittimato sul piano del senso comune. Depurato da tutte le inflessioni “personalistiche” e ridicolizzanti dell’era berlusconiana, sarà meglio cominciare a tornare a parlare di “garantismo” a tutto tondo a sinistra, prima che sia troppo tardi.
Come si gridava nel corteo napoletano di ieri: “La lotta non si arresta!”, tuttavia, senza una strategia di coordinamento generale di tutte le lotte sparse sui territori, senza la capacità di unificazione delle stesse, sarà sempre più difficile condurle alla vittoria e sarà ancora più facile finire, singolarmente, come birilli abbattuti gli uni dopo gli altri, nella spirale repressiva del potere costituito.
C’è necessità crescente di lotta, ma sempre più organizzata, o quantomeno coordinata.
1 Art. 419 cod.pen. che prevede la reclusione da 8 a 15 anni.
2 Art. 635 cod.pen. che prevede la reclusione fino ad un anno.
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