Si
pensava che per un “incidente genetico” casuale avvenissero una serie
di mutazioni a carico del DNA tali da comportare una proliferazione
incontrollata ed una sorta di “immortalizzazione” delle cellule figlie.
L’idea
era quindi che una sorta di selezione darwiniana conferisse vantaggi in
termini di sopravvivenza e capacità di metastatizzare alle cellule
figlie via via sempre più aggressive e maligne rispetto a quelle di
origine con un processo irreversibile che portava infine a morte
l’organismo ospite.
Il
cancro era ritenuto una malattia dell’età adulta in cui, proprio per
l’aumento della speranza di vita, era sempre più probabile che
insorgessero mutazioni casuali: in qualche modo il cancro era visto
quasi come un prezzo da pagare al nostro modo di vita ed in definitiva
allo sviluppo.
Se
l’origine del cancro risiedeva in un danno a carico del DNA era logico
quindi pensare di risolvere il problema cercando di svelare tutti i
segreti del genoma e sperimentare terapie che colpissero la cellula nel
suo centro vitale, il DNA appunto.
Gli
investimenti che furono fatti negli USA ed in seguito anche in altri
paesi del mondo occidentale furono a dir poco esorbitanti, ma, come ha
scritto nel 2005 in una esemplare lettera aperta un grande oncologo
americano S. Epstein, “dopo trent’anni di reclamizzate ed ingannevoli
promesse di successi, la triste realtà è infine affiorata: stiamo
infatti perdendo la guerra al cancro, in un modo che può essere soltanto
descritto come una sconfitta. L’incidenza dei tumori – in particolare
della mammella, dei testicoli, della tiroide, nonché i mielomi e i
linfomi, in particolare nei bambini – che non possono essere messi in
relazione con il fumo di sigaretta, hanno raggiunto proporzioni
epidemiche, ora evidenti in un uomo su due e in oltre una donna su tre”.
Queste
che sembravano pessimistiche considerazioni di qualche medico isolato
hanno in realtà trovato autorevoli conferme in un articolo
dall’emblematico titolo “Ripensare la guerra al cancro” comparso a
dicembre 2013 nella prestigiosa rivista Lancet (www.thelancet.com).
Perché l’obiettivo non è stato raggiunto? Dove abbiamo sbagliato?
Evidentemente
concentrare tutte le risorse sulla ricerca di terapie, bene e spesso
rivelatesi inefficaci o sulla diagnosi precoce non è stata la strada
vincente.
In
effetti nuove emergenti teorie sulle modalità con cui il nostro genoma
si relaziona con l’ambiente ci fanno capire come anche la nostra visione
del problema cancro – e non solo – sia stata estremamente riduttiva e di
come quindi dobbiamo radicalmente cambiare il nostro punto di vista se
solo vogliamo sperare di uscire da questo empasse.
Si
è sempre pensato al genoma come a qualcosa di predestinato ed
immutabile, ma le conoscenze che da oltre un decennio provengono
dall’epigenetica ci dicono che le cose non stanno così. Il genoma è
qualcosa che continuamente si modella e si adatta a seconda dei segnali –
fisici, chimici, biologici – con cui entra in contatto. Come una
orchestra deve interpretare uno spartito musicale facendo suonare ad
ogni musicante il proprio strumento, così l’informazione contenuta nel
DNA viene continuamente trascritta attraverso meccanismi biochimici che
comprendono metilazione, micro RNA, assetto istonico che vanno appunto
sotto il nome di epigenoma. L’epigenetica ci ha svelato che è l’ambiente
che “modella” ciò che siamo, nel bene e nel male, nella salute e nella
malattia...
L’origine
del cancro non risiede quindi solo in una mutazione casualmente insorta
nel DNA di una qualche nostra cellula, ma anche in centinaia di
migliaia di modificazioni epigenetiche indotte dalla miriade di agenti
fisici e sostanze chimiche tossiche e pericolose con cui veniamo in
contatto ancor prima di nascere e che alla fine finiscono per
danneggiare in modo irreversibile lo stesso DNA.
L’articolo
di Lancet sostiene che per vincere la guerra contro il cancro abbiamo
bisogno di una nuova e diversa visione del campo di battaglia: per
coloro che da decenni si battono per una riduzione dell’esposizione
delle popolazioni agli agenti inquinanti e cancerogeni questa nuova
visione del problema ha un unico nome: Prevenzione Primaria
che non può essere ridotta solo alle indicazioni riguardanti gli “stili
di vita”, ma che deve intervenire energicamente sulla tutela degli
ambienti di vita e di lavoro, come ci indicano drammaticamente anche i
dati recenti della cronaca italiana!
Patrizia Gentilini
Febbraio 2014
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