Via dal supercarcere di Bagram per ordine di Karzai. Un fuori programma che appare più politico che giuridico e libera sessantacinque detenuti, considerati dagli statunitensi pericolosissimi. Da un anno la gestione di Bagram - ora chiamato Impianto di Detenzione Parwan - è passata dalla Nato al governo locale, il presidente afghano aveva definito quel luogo una “fabbrica di talebani” per la promiscuità fra combattenti anti Isaf e altri imprigionati. Mentre attivisti dei diritti e i pochi giornalisti ammessi alla visita (alcuni della Bbc) lo ricordano come vero centro di tortura e abuso. Il gesto di Karzai, che punta al recupero del rapporto con la cittadinanza, è per la diplomazia americana una scelta deplorevole, ma il presidente sembra non curarsi delle critiche. Lui vuol lasciare un buon ricordo e soprattutto pattuire il futuro con chi resta sulla scena politica nazionale. Fra costoro proprio i Taliban, mentori di più d’un detenuto che ora riacquista la via di casa e probabilmente di battaglia. In effetti diverse delle persone rilasciate erano accusate di aver fatto uso di armi, se appartenendo a milizie talebane o a diversi gruppi d’insorgenza risultava elemento secondario alle truppe d’occupazione e agli stessi resistenti.
Un rapporto d’accusa stilato dal Comando statunitense sostiene che: i 65 provengono dalle province di Helmand e Kandahar, 23 di loro siano produttori di ordigni Ieds, 33 risultano positivi al cosiddetto test di residuati di polvere esplosiva presenti sul corpo e sul vestiario, una parte aveva provocato attacchi contro militari Nato, un altro gruppo aveva rivolto le armi verso l’esercito afghano. Gli addebiti non sono stati verificati da organi di giustizia, vengono sostenuti unicamente dall’US Army. Però alcune storie descritte dall’inviata della Bbc, che ha potuto visitare Bagram e che lei ha riportato al cospetto di Karzai, hanno spinto quest’ultimo a ricredersi sulle responsabilità dei carcerati e sulla funzione positiva di simili prigioni. A tal punto che la sua affermazione: “La presenza di tali strutture sul nostro territorio contrasta con Costituzione, leggi e sovranità del popolo” sembra fatta apposta per gettare benzina sui rapporti già infuocati fra statunitensi ed establishment afghano. Soprattutto per il ritardo della ratifica dell’Accordo Bilaterale sulla Sicurezza proposto da Obama, accettato ora anche da Loya Jirga e Parlamento.
Il gioco a più mani operato da Karzai - che negli ultimi mesi ha elevato i toni patriottici quasi disdegnando i legami con Washington garante di due suoi mandati, d’una presenza internazionale e d’un affarismo clanista, ufficiale, ufficioso e losco - è gradito alle componenti fondamentaliste talebane. Eppure nel 2010 Karzai s’era sentito offeso dai colloqui aperti a mezzo Cia, dalla politica statunitense con la Shura di Quetta. Finanche l’anno scorso disertò il momento pubblico con cui bisognava coadiuvare gli statunitensi nel riconoscere gli uffici talebani aperti a Doha. Ora che di fatto abbandona la carica presidenziale l’astuto Hamid sembra tessere una personale tela verso il nazionalismo resistente all’invasiva presenza occidentale, economica e militare, prevista per un altro decennio. Reintrodurre i talebani nella vita politica del Paese dalla porta principale vuol dire trovare appoggi per chi proseguirà l’impegno pubblico in sua vece oppure attraverso alleanze coi potentati sempre sulla cresta dell’onda, Sayyaf, Hekmatyar, entrambi dialoganti col tradizionalismo islamico più estremo.
Comunque il fronte talebano appare più cinico di Karzai medesimo. Potrebbe applicare anche in Afghanistan la linea che sta seguendo nell’attiguo Pakistan col primo ministro Sharif: attaccarlo sul fronte della sicurezza seminando attentati e morte fra soldati e civili e ricevendone, dopo l’iniziale repressione, un riconoscimento per dei colloqui politici. Questi sono messi in mano a personalità religiose che s’astengono dal sottoscrivere accordi valutati dai leader. Questi non s’espongono, praticano una perfetta mossa propagandistica che ne accresce la popolarità fra la gente, denota il credito acquisito nel confronto interno, sia che si parli a voce sia con le armi. Così si prospetta alla diplomazia internazionale un ossimoro: alla diffusa demonizzazione dei turbanti s’accoppia la necessità di sedersi di fronte a loro per verificare chi controlla effettivamente il territorio e tutto ciò che lì attorno circola: uomini, merci, attività economiche, amministrative e quant’altro. In Afghanistan, già dopo le presidenziali di aprile, potrebbe accadere tutto ciò se gli occidentali non riescono a trovare un nuovo replicante come fu Karzai prima versione. Se questa non è politica nazionale ed estera…
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