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13/02/2014

Bosnia in rivolta, l’Ue si preoccupa


In questi giorni la Bosnia, uno dei paesi più poveri di tutto il continente europeo con la disoccupazione reale tra il 40 e il 50%, un abitante su 5 al di sotto della soglia di povertà e i salari medi che si aggirano sui 300/400 euro, ha colto tutti di sorpresa.

La scorsa settimana le proteste popolari contro i governi locali e quello federale, originate dalla rabbia di migliaia di operai lasciati senza lavoro, senza sussidio e senza pensione da un truffaldino processo di privatizzazione delle aziende pubbliche che le ha mandate in malora, aveva assunto una forma durissima e violenta: assalti e incendi di sedi istituzionali e governative e scontri con la polizia in decine di città di tutta la federazione.
Calate di intensità e anche in termini di partecipazione, comunque le proteste popolari contro privatizzazioni, povertà e corruzione della classe politica sono continuate anche negli ultimi giorni in diversi centri della Bosnia, in alcuni dei quali i dimostranti stanno costituendo le ‘assemblee dei cittadini’.

Ieri a Tuzla, l’ex città industriale del nord dove ha preso avvio la protesta, mentre i rappresentanti dell'assemblea stavano discutendo con il consiglio cantonale le proposte per la formazione di nuovo esecutivo di carattere ‘tecnico’ oltre 300 operai delle aziende privatizzate e poi fatte fallire da manager incompetenti e corrotti hanno manifestato davanti al Tribunale. Tra i dimostranti circolavano denunce sulle privatizzazioni criminali, sulle connivenze tra la 'mafia dei fallimenti' e la giustizia, e anche sul ruolo avuto dai politici nelle privatizzazioni illegali. In seguito, i manifestanti sono andati a protestare davanti alla sede dei sindacati per criticarne l’assenza dalle lotte e la complicità con governi e classe imprenditoriale.
Manifestazioni ieri si sono svolte anche in altre località della Federazione Bh (entità a maggioranza croato musulmana di Bosnia) come Zivinice, Kalesija, Kakanj, Cazin, mentre a Bihac le proteste si sono placate da quando, tre giorni fa, si è dimesso il premier del cantone Hamdija Lipovaca.

Alcune centinaia di persone hanno manifestato invece a Zenica, invitando i cittadini a partecipare all'assemblea convocata per oggi mentre assemblee di cittadini sono state convocate per il pomeriggio di ieri a Bugojno, Mostar e a Sarajevo, dove circa duecento dimostranti hanno manifestato sotto la pioggia e su uno degli striscioni si leggeva "Non c'è la neve, avete rubato pure quella".

Recita il manifesto reso noto dall'assemblea dei cittadini di Brcko martedì sera: "Dietro di noi non c'è nessun partito od organizzazione, ma le umiliazioni di anni, fame, impotenza e disperazione".

Tra lunedì e martedì a migliaia i manifestanti sono scesi in piazza in parecchie città della Bosnia Erzegovina per chiedere la liberazione degli arrestati negli scontri della scorsa settimana, la dimissione dei vari governi e la cancellazione di tutte le privatizzazioni che in questi anni hanno portato allo smantellamento del patrimonio industriale del paese governato da un fiduciario della Nato. "Avete rubato per vent'anni, ora basta" e "Tribunali e polizia proteggono i banditi al potere", erano gli slogan più ricorrenti su cartelli e striscioni esposti a Sarajevo davanti al palazzo del governo della Federazione, in parte incendiato durante una delle manifestazioni del fine settimana. Nella capitale federale ai manifestanti si sono uniti anche molti lavoratori della locale azienda dei trasporti pubblici, anch’essa al collasso.

Interessante segnalare che una cinquantina di persone hanno manifestato nel centro di Belgrado, capitale della Serbia, per esprimere solidarietà e sostegno alla protesta popolare in corso nella confinante Bosnia. 'Coraggio Bosnia, siamo con te', 'Oggi Tuzla, domani Belgrado', 'Stop alla repressione', 'Il capitalismo è in crisi - la repressione poliziesca non lo può salvare' erano alcuni degli slogan gridati o scritti sui cartelli. In una dichiarazione letta ai dimostranti da uno degli organizzatori del presidio è stato sottolineato come i problemi della Bosnia siano comuni a tutti i Paesi dei Balcani, e come sia per questo è necessaria una 'alleanza di tutti contro il nemico comune'. 'La lotta comune del popolo è l'incubo dei governi', 'Abbasso l'Unione europea e i loro regimi di tycoon. Abbasso il capitalismo e la privatizzazione. Viva la lotta dei popoli dei Balcani' ha concluso l’appello letto in piazza mentre a poca distanza manifestavano gruppi di ultranazionalisti serbi.

Di seguito riproduciamo un interessante commento di Tommaso di Francesco da Il Manifesto sulla situazione in Bosnia e sulle reazioni da parte dell’Unione Europea.

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Bentornata a Sarajevo, lotta di classe 

In Bosnia Erzegovina, nei luoghi della sanguinosa guerra interetnica degli anni Novanta, torna la protesta dei lavoratori. E l’Occidente minaccia «l’invio di truppe».

Da una set­ti­mana ormai dilaga la pro­te­sta dei lavo­ra­tori in Bosnia Erze­go­vina, signi­fi­ca­ti­va­mente nelle stesse loca­lità, a par­tire da Sara­jevo, che poco più di 20 anni fa hanno visto lo sca­te­narsi della guerra inte­ret­nica che dis­solse nel san­gue la Fede­ra­zione jugo­slava. Ce n’è abba­stanza ormai per trarne alcune con­si­derazioni che non riguar­dano solo il sud-est euro­peo che, chissà per­ché, ci ostiniamo a con­si­de­rare lon­tano. Per­ché quel che accade rimette pro­ba­bil­mente in discus­sione un para­digma sto­rico e politico.

Tutto ini­ziò con la crisi economica

Con la pro­te­sta sociale dif­fusa in tutti i Bal­cani — solo a gen­naio è ripresa l’iniziativa dei lavo­ra­tori serbi con­tro una dra­co­niana legge sul lavoro voluta dal governo di Bel­grado, per non par­lare di altre pro­te­ste in Croa­zia, Mon­te­ne­gro, Mace­do­nia e nello stesso ancora con­teso Kosovo — assi­stiamo ad una sorta di «ritorno al futuro». La crisi dell’ex Jugo­sla­via fu infatti prima di tutto crisi econo­mica e sociale e poi arrivò il can­cro dei nazio­na­li­smi sepa­ra­ti­sti, anche gra­zie alla debo­lezza della Costi­tu­zione di Tito e Kar­delj del 1974 che autorizzava il diritto di veto delle rap­pre­sen­tanze isti­tu­zio­nali delle varie Repub­bli­che anche equa­mente ripar­tite. Quando la crisi eco­no­mica irruppe, a metà degli anni 80, comin­ciò a sgre­to­larsi il sistema della soli­da­rietà tra le varie Repub­bli­che (e regioni auto­nome) che com­po­ne­vano il deli­cato mosaico jugo­slavo. Con le regioni più «ric­che» pronte a difen­dere i pro­pri cit­ta­dini, ma invise a soc­cor­rere le aree più arre­trate, regioni che spesso cor­ri­spon­de­vano quasi strut­tu­ral­mente ad altret­tanti nodi isti­tu­zio­nali e poli­tici legati ai diritti delle mino­ranze che lì vive­vano. Come fu il caso del Kosovo. Come si può capire, fu quasi un anti­cipo del con­flitto inter-europeo che con­trap­pone oggi i vari paesi dell’Unione in equi­li­brio pari­te­tico di poteri solo nella rap­pre­sen­tanza di turno nella pre­si­denza Ue. Pro­prio come fu per la Jugoslavia.

A quel con­flitto sociale che pun­tava a sal­va­guar­dare la con­di­zione dei lavo­ra­tori e il wel­fare garan­tito, minimo, infimo ma impor­tante, invece che un’azione autonoma e indi­pen­dente dei sin­da­cati e un ruolo deci­sivo dell’istituzione dell’autogestione — entrambe realtà sostan­zial­mente mar­gi­nali, senza poteri effet­tivi e subal­terne rispetto all’emergere dei diritti nazio­nali — maturò una gestione nazio­na­li­sta della pro­te­sta dif­fusa. Fu così per il com­plesso agroindustriale dell’Agrokomerc in Bosnia, così per le fab­bri­che in Croa­zia, Slovenia e Ser­bia, così per le miniere in Kosovo e per i can­tieri mon­te­grini. Alla fine più che la lotta di classe contò ancora una volta lo scon­tro tra inte­ressi iden­ti­tari più o meno masche­rati. Essenziale fu la gestione dell’Unione euro­pea (allora si chia­mava ancora Cee) quando, piut­to­sto che sal­va­guar­dare l’unità della Fede­ra­zione jugo­slava, legit­timò la guerra, intanto esplosa, con il riconosci­mento di Slo­ve­nia e Croa­zia come nazioni sovrane dopo la loro autoproclamazione in stati auto­nomi sulla base etnica della «slo­ve­ni­cità» e della «croa­ti­cità». Pre­pa­rando il bara­tro del con­flitto in Bosnia dove ogni nazio­na­lità, lin­gua e reli­gione erano rappresentate.

Que­sto ruolo di Bru­xel­les — ma anche della Nato, siamo nel 1992 a tre anni dall’89 — mostra quale fu da quel momento in poi il ruolo dell’Unione euro­pea. Con il mirag­gio dell’ingresso nell’Ue offerto a que­sti nuovi stati nazio­nali, fu di sostan­ziale com­par­te­ci­pa­zione alla guerra, con l’accaparramento di influenze con­trap­po­ste: la Fran­cia diven­tava filo-serba, la Gran Bre­ta­gna filo-bosniaca, la Ger­ma­nia filo-croata e via dicendo. Il tutto con l’avvento nell’area della «diplo­ma­zia» sta­tu­ni­tense. Alla fine deci­siva, sia per la riso­lu­zione della guerra in Bosnia con la pace di carta di Day­ton a fine 1995, e in seguito con l’intervento armato aereo della Nato per la «riso­lu­zione» dell’irrisolta crisi koso­vara nel 1999.

La coa­zione a ripe­tere occidentale

Che c’entra tutto que­sto con la pro­te­sta sociale in corso? Varrà la pena riflet­tere sul fatto che l’unica rispo­sta che è venuta in que­sti giorni dall’Occidente sulle agi­ta­zioni dei lavo­ra­tori e le pro­te­ste sociali in tutti i Bal­cani, a comin­ciare dalla Bosnia, sia stata ancora una volta la minac­cia dell’uso della forza. L’Unione euro­pea, pare di capire, non può per­met­tersi di veder fal­lire la finta sicu­rezza defi­nita nel sud-est — colo­nie d’oltremare? — con vere e pro­prie occu­pa­zioni mili­tari, pro­prio ora che è alle prese con la crisi di senso e di soli­da­rietà del suo sta­tus fon­da­tivo. E allora che fa? L’Alto rap­pre­sen­tante della Comu­nità internazio­nale in Bosnia Erze­go­vina Valen­tin Inzko, preso da un attacco di coazione a ripe­tere, minac­cia: «Se la situa­zione dovesse peg­gio­rare dovremmo ricor­rere all’invio di truppe dell’Unione europea».

Lo «spa­zio jugoslavo»

Quel che è sotto gli occhi di tutti è il fatto che, pro­prio gra­zie alla pro­te­sta diffusa dei lavo­ra­tori, sta tor­nando lo «spa­zio jugo­slavo». Per­ché se tutto è nato dalla crisi eco­no­mica degli anni Ottanta, non fu certo la guerra inte­ret­nica a risol­verla. Anzi, la guerra l’ha aggra­vata, i poveri sono diven­tati più poveri e ad arric­chirsi sono state tutte le mafie che la guerra hanno voluto e ali­men­tato. La massa che la guerra ha com­bat­tuto è ferita, muti­lata e senza nem­meno sostegni, i salari sono di fame, la disoc­cu­pa­zione vale per metà della popo­la­zione. Una situa­zione se pos­si­bile peg­giore della Gre­cia. E nel cen­te­na­rio della Grande guerra che ebbe ori­gine, uffi­cial­mente, pro­prio a Sara­jevo, men­tre la città resta, come allora, sospesa tra le stra­te­gia delle grandi potenze dell’area. Ieri è «occa­sio­nal­mente» arri­vato in visita anche il mini­stro degli esteri turco Davutoglu.

L’Unione euro­pea per legit­ti­mare l’ingresso degli stati bal­ca­nici nel suo «allar­ga­mento» insi­ste ad ammi­ni­strarli con il Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale che ha avviato da tempo mega-privatizzazioni di tutto, ser­vizi e com­plessi indu­striali. Che ormai fal­li­scono, dopo avere arric­chito élite e mafie locali. E si accende la rivolta sociale. Già la disin­for­ma­c­jia dei regi­metti e i corvi ultra­na­zio­na­li­sti arrivano per ripro­porre l’ennesima stru­men­ta­liz­za­zione della pro­te­sta, pronti ad impa­dro­nir­sene, a Mostar, a Banja Luka, a Sara­jevo, dove emerge anche una rot­tura gene­ra­zio­nale. Ci rac­con­tano da Sara­jevo che molti cit­ta­dini restano sgomenti e dolo­ro­sa­mente ammet­tono: «Il palazzo della pre­si­denza noi l’abbiamo difeso con le armi dai cet­nik, ora i nostri figli lo bruciano… che sta acca­dendo?». In piazza a Tuzla gli ope­rai delle cin­que fab­bri­che fal­lite dopo la pri­va­tiz­za­zione dichia­rano: «Resti­tuite le fab­bri­che ai lavo­ra­tori» e il primo giorno hanno scritto sui muri della città «Morte al nazio­na­li­smo». Nema problema, è dav­vero una buona noti­zia. Ben­tor­nata lotta di classe.

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