di Michele Paris
Il secondo
round dei colloqui sulla Siria ha preso il via questa settimana a
Ginevra in un clima di persistente freddezza tra le due parti che si
affrontano da ormai quasi tre anni in un sanguinoso conflitto nel paese
mediorientale. Mentre lo sforzo diplomatico continua a far segnare ben
pochi progressi a causa soprattutto della rigidità della posizione
occidentale e dei “ribelli”, da Washington l’amministrazione Obama è
tornata a minacciare l’uso della forza, sia pure in maniera velata, per
sbloccare la crisi e forzare il cambio di regime a Damasco.
Dopo
avere speso inutilmente la giornata di martedì alla ricerca di un punto
di incontro tra il regime, che insiste nel mettere al centro della
discussione la lotta al terrorismo in Siria, e i membri della cosiddetta
Coalizione Nazionale, intenzionati ad avviare trattative su un governo
di transizione senza il presidente Assad, mercoledì il rappresentante
delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, ha fatto un nuovo tentativo con
una seconda sessione congiunta.
Inoltre, lo stesso diplomatico
algerino ha annunciato di volere anticipare a giovedì un vertice
inizialmente previsto per il giorno successivo tra i delegati di Russia e
Stati Uniti, nella speranza che i due governi che appoggiano le parti
in lotta siano disposti ad esercitare pressioni su queste ultime per
individuare quanto meno un punto di partenza per intavolare un qualche
dialogo.
I problemi incontrati in queste ore sono dunque
sostanzialmente identici a quelli emersi nella prima fase dei negoziati
di “Ginevra II”, falliti anche nel raggiungimento dell’obiettivo minimo
iniziale prefissato, vale a dire l’attuazione di tregue localizzate per
consentire operazioni umanitarie nelle aree del paese sotto assedio.
La
successiva decisione del governo siriano di permettere l’ingresso degli
aiuti nella città di Homs, invece, ha avuto finora un parziale
successo, con qualche centinaia di civili evacuati e altri ancora
intrappolati dopo alcuni episodi di violenza che nei giorni scorsi
avevano ostacolato le operazioni.
Le difficoltà trovate a Homs
hanno subito provocato le accuse dei governi occidentali nei confronti
del regime siriano, attaccato per avere impedito l’accesso di cibo e
medicine destinati alla popolazione civile. Da qui, alcuni paesi hanno
fatto circolare una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza
dell’ONU, teoricamente volta a favorire l’ingresso degli aiuti nella
città della Siria occidentale.
Il ministro degli Esteri russo,
Sergei Lavrov, ha però bocciato la proposta, bollata come
“inaccettabile” poiché contiene “un ultimatum al governo [di Assad]” per
risolvere la crisi umanitaria in due settimane. In caso contrario,
verrebbero “applicate sanzioni automatiche”. Per Lavrov, l’attenzione
posta unicamente sul caso di Homs rivelerebbe un atteggiamento
“unilaterale”, visto che sono i “gruppi di militanti [dell’opposizione] a
rappresentare il principale impedimento alle operazioni umanitarie”,
non solo in questa città ma anche in altre località della Siria.
La
posizione dei governi occidentali ha trovato come al solito riscontro
nei media ufficiali, impegnati ad evidenziare la sorte dei residenti
rimasti a Homs e tralasciando quasi sempre il disastro umanitario
provocato altrove dalle formazioni “ribelli”, soprattutto di matrice
integralista, nonché le stragi commesse da queste ultime, come quella
registrata lunedì nel villaggio a maggioranza alauita di Maan, nella
provincia di Hama, dove sono stati massacrati almeno 20 civili che
condividono la fede del presidente Assad.
La resistenza di Mosca a
considerare una risoluzione “umanitaria” è stata criticata, tra gli
altri, anche dal presidente francese, François Hollande, durante una
conferenza stampa a Washington a fianco di Obama. Hollande ha simulato
stupore di fronte alla mancanza di disponibilità della Russia a valutare
la creazione di “corridoi umanitari”, utilizzati tradizionalmente
dall’Occidente per giustificare interventi militari destinati a
rovesciare regimi poco graditi.
Tra
le questioni al centro dell’attenzione della visita del presidente
transalpino negli Stati Uniti c’è stata appunto la Siria, di cui ha
parlato anche l’inquilino della Casa Bianca. Nell’apparizione pubblica
con Hollande, infatti, Obama ha riconosciuto le difficoltà dei negoziati
nel giungere ad una soluzione pacifica del conflitto, sottolineando
“l’enorme frustrazione” che circola a Washington per gli sviluppi della
vicenda.
“Ogni giorno che passa”, ha spiegato il presidente
americano, “un numero sempre maggiore di persone in Siria è esposto a
sofferenze. Lo stato sta crollando e ciò è negativo per… la regione
[mediorientale] e per la sicurezza globale”, dal momento che “ci sono
estremisti che hanno occupato il vuoto creatosi in alcune aree del
paese”, ed essi “possono rappresentare una minaccia nel lungo periodo”.
Dopo
questa analisi, e senza aggiungere che la situazione drammatica della
Siria è stata causata in gran parte da una guerra per il rovesciamento
del regime alimentata precisamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati,
Obama ha affermato che “nessuno pensa al momento ad una soluzione
militare”. Tuttavia, la sua amministrazione continua a valutare
“qualsiasi strada possibile” e il presidente ha detto di volersi
“riservare il diritto di decidere un’azione militare a difesa della
sicurezza nazionale americana”.
Le parole pronunciate martedì da
Obama appaiono estremamente rivelatrici dell’impazienza degli USA,
intenzionati a procedere con la deposizione di Assad in qualsiasi modo:
diplomaticamente, attraverso la conferenza di Ginevra, o, se necessario,
con le armi.
Il pessimismo di Obama è inoltre singolare, visto
che il prevedibile stallo di Ginevra è la conseguenza diretta del
comportamento tenuto fin dall’inizio dagli stessi Stati Uniti e dai
“ribelli” da loro appoggiati. Questi ultimi, infatti, hanno da subito
insistito sull’esclusione da qualsiasi futuro governo in Siria della
loro controparte nei negoziati, nonostante il regime negli ultimi mesi
abbia fatto segnare e continui a far segnare sensibili progressi sul
campo ai danni invece di un’opposizione impopolare e allo sbando o,
comunque, dominata da gruppi jihadisti violenti.
L’amministrazione
Obama, da parte sua, aveva anch’essa escluso da subito per bocca del
segretario di Stato, John Kerry, qualsiasi ruolo per Assad nella nuova
Siria, mentre proprio durante il primo round di discussioni Washington
aveva provocatoriamente deciso la ripresa degli aiuti destinati ai
“ribelli” dopo lo stop sul finire dello scorso anno a causa del
prevalere delle formazioni estremiste.
Parallelamente alla
motivazione “umanitaria”, gli USA e gli altri governi occidentali sono
poi tornati ad utilizzare la carta delle armi chimiche, con la quale la
scorsa estate si era sfiorata una nuova aggressione militare in Medio
Oriente.
Dopo
l’accordo mediato dalla Russia, Damasco aveva accettato di inviare
all’estero e distruggere tutto il proprio arsenale in un periodo di
tempo molto ristretto. Inizialmente, al regime di Assad era stata
riconosciuta la propria totale collaborazione con l’agenzia deputata
allo smantellamento delle armi chimiche - Organizzazione per la
Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) - ma due scadenze non rispettate
nelle scorse settimane hanno immediatamente scatenato una valanga di
accuse.
Il governo siriano, il quale si è liberato di un terzo
del proprio arsenale nella giornata di lunedì, ha comprensibilmente
attribuito i ritardi alla situazione nel paese e al fatto che i convogli
diretti verso la città portuale di Latakia devono attraversare aree
controllate dai vari gruppi “ribelli” armati.
Dall’OPAC e dai
governi occidentali, tuttavia, sono giunti solo avvertimenti a
rispettare le scadenze, a conferma che la questione pressoché
interamente fabbricata ad arte delle armi chimiche, assieme a quella
“umanitaria”, continuerà a rappresentare il pretesto per un maggiore
coinvolgimento nel conflitto a favore dell’opposizione se il regime non
si piegherà in fretta alle richieste degli Stati Uniti e dei loro
alleati.
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