Quaranta morti in 3 giorni negli scontri tra tribù sunnite e milizie sciite (zaidi)
nel Nord dello Yemen. Le provincie di Al-Jawf e Hamdan, rispettivamente
140km e 30km a Nord di Sana’a, sono state il teatro principale delle
tensioni inter-etniche che attraversano il territorio yemenita ormai da
molti mesi. Per quanto le problematiche di sicurezza sul sensibile
confine con l’Arabia Saudita, dove vige un controllo pressoché esclusivo
dei gruppi zaidi Houthi, e nel Sud, dove forte è l’influenza di
compagini legate ad Al-Qaeda, siano fonte di grande preoccupazione per
il governo, l’avvicinarsi dei combattimenti alla capitale è considerato, al momento, il principale pericolo per l’integrità del Paese.
Dopo dieci mesi di Conferenza Nazionale del Dialogo, conclusasi a dicembre, e il rinnovo di un anno del mandato ad interim del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi per garantire continuità al processo di transizione democratica, sarebbe
dovuto iniziare una nuova fase che, attraverso la trasformazione del
Paese in un sistema federale multi-regionale, avrebbe dovuto porre fine
agli scontri. Così non è stato: la prospettiva di federazione
ha indotto i diversi gruppi a cercare di ampliare la propria area di
influenza garantendosi il più possibile l’accesso alle materie prime e
alla capitale.
In questa situazione il governo cerca un rafforzamento della propria
legittimità e del proprio controllo con modalità diverse a seconda delle
particolari contingenze: di fronte alla problematica degli attacchi ad
oleodotti e pozzi, sono stati nominati un nuovo ministro con competenze
sull’energia ed il petrolio, Khaled Mahfouz Bahah, e un nuovo ministro
dell’Interno, Abdou Hussein al-Tarb; nel caso di scontri tra diverse
etnie, soprattutto nel Nord, l’esercito ha scelto di fare un passo indietro delegando a milizie lealiste la difesa degli accessi ai luoghi sensibili;
attraverso la delega di alcune competenze alle provincie, il governo
spera di rafforzare il proprio controllo esclusivo su alcune materie.
Il dinamismo della dirigenza yemenita non è, però, solo frutto di volontà interne. Molto forti sono, infatti, le pressioni esterne provenienti principalmente da Stati Uniti ed Arabia Saudita.
Al governo Hadi è richiesto un significativo impegno per la
pacificazione del Paese che garantisca la sicurezza interna e la
continuità nei flussi commerciali verso l’estero. A questo proposito da
molte parti sono giunte critiche all’operato troppo poco deciso del
presidente e alle interferenze del vecchio presidente Ali ‘Abd Allah
Saleh, ritiratosi nel 2012 dopo 33 anni alla guida del Paese. In questo
senso, contro quest’ultimo, sembrano dirette le dichiarazioni di
condanna dell’ONU. La risoluzione che impone sanzioni a chi
potrebbe ostacolare il processo di transizione, non specificando nel
testo chi sia da identificare come oggetto della condanna, ha aperto
alla ferma reazione del deposto presidente Saleh che l’ha percepita
come a lui diretta.
In questo momento, dunque, il governo Hadi ha la necessità di
muoversi su più fronti per riuscire a portare avanti il progetto nato
dai colloqui dei mesi passati. Se da un lato è necessaria una
tregua reale e duratura tra le diverse etnie in conflitto per poter
avviare il processo di delega delle funzioni di governo alle provincie,
dall’altra le interferenze interne ed estere, oltre a creare ulteriori
dissidi, rischiano di delegittimare totalmente l’esecutivo in carica.
Riuscirà Hadi a far fronte a tutte queste pressioni e a garantire i diritti di tutte le parti in causa?
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